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Il tramonto del dollaro

di Giacomo Gabellini - 30/11/2011


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Il dollaro rappresenta indubbiamente uno dei principali fattore attraverso cui gli Stati Uniti sono riusciti ad affermare gradualmente la propria supremazia strategica dal termine della Seconda Guerra Mondiale in poi.

La discesa in campo nell’ambito di quel particolare conflitto si configura infatti come la classica occasione irripetibile di cui il Presidente Franklin Delano Roosevelt si avvalse per dar sbocco ai risultati scaturiti dalla politica economica keynesiana – fondata sull’intervento pubblico nel sistema produttivo statunitense – adottata per far fronte alla devastante crisi economica scoppiata nel 1929.

All’epoca (1933) Roosevelt sospese a tempo indeterminato il Gold Exchange Standard stabilito nel 1922 durante il vertice di Genova per operare una svalutazione del dollaro che venne abolita soltanto nel 1944, in occasione degli accordi di Bretton Woods.

Nel corso della riunione, dominata proprio dalla eminente figura di John Maynard Keynes, vennero fissati i criteri basilari che avrebbero direttamente rispecchiato i rapporti di forza nell’ambito della sterminata porzione di pianeta estranea all’ideologia e al sistema comunista.

Al dollaro fu conferito lo status di moneta di riserva internazionale convertibile in oro – alla cifra stabile di 35 dollari l’oncia – sullo sfondo della ridefinizione del sistema di cambi fissi per quanto riguarda tutte le altre valute.

 

Da allora il dollaro si affrancò dal ruolo di valuta nazionale degli Stati Uniti per indossare le vesti di principale oggetto delle contrattazioni commerciali internazionali nonché l’indice di riferimento generale di tutti i mercati strategicamente fondamentali, quello del petrolio in particolare, dominato dalle Borse di Londra e di New York controllate integralmente dalle aziende angloamericane.

 

Ma in questo contesto irruppe la grande svolta geopolitica rappresentata dall’avanzata inarrestabile della fazione filosovietica del Vietnam del nord, guidata da Ho Chi Minh e Voh Nguyen Giap, che dopo aver tenuto testa all’esercito francese si apprestava a penetrare nel’area meridionale allo scopo di rovesciare il regime anticomunista di Saigon.

Gli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca ritennero che un’eventuale e assai probabile successo conseguito da Ho Chi Minh avrebbe verosimilmente innescato una pericolosa inerzia filosovietica nell’ambito della strategica regione dell’Asia orientale, che lambisce i confini dei due giganti comunisti (Cina ed Unione Svoetica).

Il Presidente John Fitzgerald Kennedy fu il primo a paventare la necessità di un intervento diretto degli Stati Uniti, finalizzato a sventare il pericolo comunista, ma i suoi continui tentennamenti legati alla decisione da prendere al riguardo rafforzarono la convinzione, già maturata in seno agli ambienti dominati dai cosiddetti “falchi” (sia interni che esterni all’amministrazione), che Kennedy fosse un debole e che gli Stati Uniti sarebbero incorsi in una nuova Baia dei Porci che, di fatto, aveva finito per rafforzare la posizione di Fidel Castro sia in seno alla società cubana che sul più ampio scenario internazionale.

Alcuni organi di potere (la CIA, l’FBI, eminenti personalità come Allen e John Foster Dulles, oltre ad un’ampia fetta delle forze armate) si schierarono apertamente contro Kennedy suscitando la forte irritazione del Presidente, che scelse di compiere l’azzardo politico di limitare drasticamente il campo operativo della CIA, frammentandola in una miriade di sottodipartimenti.

In questo contesto reso incandescente da simili, insanabili frizioni maturarono le condizioni affinché Kennedy uscisse definitivamente di scena, attraverso un attentato orchestrato presumibilmente nell’ambito degli ambienti più pesantemente penalizzati dalle scelte presidenziali.

Una volta insediatosi, il suo vice Lyndon Johnson sciolse rapidamente ogni dubbio in relazione al da farsi, ordinando l’invasione del Vietnam.

La guerra comportò un inevitabile aumento delle spese militari, ma il governo – che nel frattempo era passato da Johnson a Richard Nixon – scelse di non inasprire la pressione fiscale a carico di una popolazione che, peraltro, stava dimostrando una crescente contrarietà in relazione all’intervento.

Ciò determinò inevitabilmente la crescita del deficit pubblico, che andò a sommarsi all’incremento del disavanzo nei conti con l’estero dovuto all’aumento della domanda interna che, keynesianamente trainata dalla forte spesa pubblica, favorì le importazioni.

L’intero assetto economico statunitense venne quindi distorto a sfavore di una miriade di settori produttivi, che persero inevitabilmente di competitività per far fronte ai sacrifici richiesti dalla crescente spesa militare dettata dall’aggravarsi della situazione in Vietnam, dove le armate di Ho Chi Min e Giap stavano inanellando un successo dietro l’altro.

Malgrado gli accordi di Bretton Woods ponessero gli Stati Uniti nelle condizioni di finanziarsi il proprio debito stampando valuta accettata come riserva a livello internazionale, il dissesto economico ben rispecchiato dallo stato comatoso dei conti pubblici e di quelli con l’estero spinse Washington ad abusare della propria posizione di dominio, stampando cartamoneta in quantità tale da indurre tutti gli altri paesi a dubitare della reale capacità di Washington di convertire in oro quel mare di banconote immesse in circolazione.

Tale sospetto assunse ben presto concretezza, determinando un’improvvisa crescita della domanda internazionale di oro, stimolata dal timore della possibile svalutazione del dollaro.

In quel frangente si distinse il generale Charles De Gaulle, che dall’Eliseo rese edotto il resto del mondo che la Francia, a causa di profonde divergenze con gli Stati Uniti, sarebbe uscita dalla NATO e avrebbe dato il via alla conversione in oro di tutte le proprie riserve di dollari.

La “Force de frappe” era la garanzia posta a tutela di tale audace scelta.

Washington si vide costretta a dischiudere gli scrigni di Fort Knox per soddisfare la domanda internazionale d’oro, ma il pericolo della svalutazione spinse i mercati internazionali ad abbandonare parzialmente il dollaro per investire sul marco tedesco.

 

Il presidente Nixon risolse la situazione con un vero e proprio colpo di spugna, ripudiando unilateralmente gli accordi di Bretton Woods e di fatto sancendo – il 15 agosto del 1971 – la fine della convertibilità dei dollari in oro, del sistema dei cambi fissi tra valute e l’adozione di una serie di misure di chiara vocazione protezionistica atte a rilanciare i settori strategici caduti precedentemente in rovina per favorire l’industria bellica.

Il prezzo della guerra del Vietnam, con la crescita parallela del disavanzo pubblico e di quello con l’estero degli Stati Uniti, aveva quindi spinto Washington a dichiarare superata la centralità dell’oro in vista dell’istituzione di un nuovo modello economico fondato sulla fluttuazione dei tassi di cambio.

Il mercato internazionale piombò in una sorta di caos controllato (da parte dei , determinando un clima di instabilità endemica che indirizzò la domanda degli investitori verso quei settori, come le materie prime, in grado di garantire un sufficiente margine di sicurezza.

La speculazione internazionale si focalizzò, di conseguenza, su questo ramo del mercato, provocando un vertiginoso incremento delle scommesse sull’alterazione dei prezzi, in ciò favorito dal moltiplicarsi delle variabili legate alle oscillazioni dei tassi di cambio.

Da allora lo squilibrio divenne la regola generale; i cosiddetti “debiti gemelli” (pubblico e commerciale) continuarono a crescere parallelamente al costante deprezzamento del dollaro e all’aumento dei tassi di interesse a lunga scadenza.

Il deprezzamento del dollaro, in particolare, sortì pesanti ripercussioni sull’Europa da quando venne adottata la moneta comunitaria – l’euro – che arrivò a superare la quota fatidica di 1 euro per 1,5 dollari.

Questo tasso di cambio penalizza evidentemente le merci europee ed è chiaramente mirato a instaurare un circuito protezionista finalizzato a rimettere in sesto la struttura industriale degli Stati Uniti.

 

Ma Washington ha potuto imporre un diktat simile proprio in virtù dello status di moneta di riserva internazionale di cui è titolare il dollaro, attraverso il quale gli Stati Uniti possono alimentare la propria economia e favorire l’applicazione di regole finanziarie al resto del mondo che garantiscano la tutela degli interessi nordamericani.

Nel corso di diversi decenni gli Stati Uniti hanno potuto ignorare il proprio debito con l’estero, limitandosi a stampare cartamoneta ex nihilo per far fronte alle importazioni in modo tale che i costi del proprio crescente deficit commerciale gravassero sul resto del mondo, in particolare attraverso l’emissione di una miriade di Buoni del Tesoro.

Adattandosi gradualmente a questo sistema, l’economia statunitense ha usufruito di una crescita basata esclusivamente sull’aumento costante degli indici borsistici dettato dall’afflusso ininterrotto di denaro, senza che tale crescita sortisse ripercussioni positive sull’economia reale.

Per gli Stati Uniti è stato sufficiente, nei decenni passati, rivedere al rialzo i tassi di interesse ed apprezzare significativamente la propria moneta allo scopo di attirare i capitali esteri e, parallelamente, far leva sui bassi salari vigenti in alcuni paesi come la Cina per favorire le importazioni delle loro merci a basso costo, dove le differenze di cambio giocano inesorabilmente a favore di Washington.

Il risultato è che il deficit commerciale degli Stati Uniti è continuato a salire permettendo al paese di vivere al di sopra dei suoi mezzi, ma il conto di questa  abnorme sproporzione è stato inviato al resto del mondo.

L’inerzia è proseguita per molti anni, ma ha oramai raggiunto il punto di rottura.

Il disavanzo pubblico è alle stelle, il deficit federale dell’anno fiscale 2011 ha fatto registrare un rosso pari a 1.300 miliardi di dollari, il debito pubblico ha lambito quota 15.000 miliardi di dollari nel maggio 2011, spingendo il Segretario al Tesoro Timothy Geithner a decretare la sospensione del versamento ai fondi pensione dei dipendenti federali, in attesa che il Congresso approvasse un innalzamento del tetto massimo del debito.

Il tetto venne innalzato il successivo 2 agosto, e conseguentemente il Tesoro ottenne l’autorizzazione tecnica per riprendere ad erogare obbligazioni.

Tale escamotage non sortì alcun effetto tangibile, se non quello di procrastinare di qualche mese la data dell’inevitabile bancarotta tecnica.

L’indebitamento complessivo degli Stati Uniti supera infatti il 300% del Prodotto Interno Lordo e la politica non pare assolutamente capace di adottare misure in grado di invertire  la tendenza.

Il che aggrava enormemente il problema, perché in ballo non ci sono i soli interessi statunitensi.

Il primo paese ad essere toccato direttamente dal disastro economico statunitense è infatti la Cina.
Giappone, eurozona e Russia mantengono immani riserve di dollari, ma l’esorbitante primato, quantificabile in oltre 1.400 miliardi di dollari, è detenuto dalla Cina .

La Cina ha indossato per svariati decenni le vesti di principale finanziatore del debito statunitense, investendo parte consistente dei proventi derivanti dall’esportazione delle proprie merci negli nei Buoni del Tesoro emessi da Washington mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno accettato di aprire il proprio mercato interno ai prodotti cinesi.

Il particolare rapporti instauratosi conferiva teoricamente alla Cina il potere effettivo per controllare l’economia nordamericana, ma qualora Pechino si fosse approfittata di questa posizione per mettere in ginocchio il sistema produttivo statunitense, Washington avrebbe tolto le merci cinesi dal mercato e congelato i patrimoni cinesi in dollari, assestando un colpo durissimo al gigante asiatico.

Nel corso del G20 tenutosi a Londra nel 2009, tuttavia, il governatore della Banca Centrale cinese Zhou Xiao Chuan ha dichiarato che “Lo scoppio della crisi e il suo straripamento nel mondo intero riflettono le vulnerabilità inerenti e i rischi sistemici del sistema monetario internazionale”.

Dal momento che i governanti cinesi sono soliti conferire un notevole peso alle rare dichiarazioni pubbliche che rilasciano, è assai concreta la possibilità che un’affermazione simile pronunciata da un suo esponente di punta riveli la reale intenzione, da parte della Cina, di ristrutturare l’intero sistema economico mondiale incardinato sul dollaro.

Il che, più specificamente, mira a fare piazza pulita di ogni reclamo statunitense relativo alla sottovalutazione artificiale dello yuan e a lanciare un serio monito ai dirigenti di Washington, affinché non operino una svalutazione del dollaro che ridurrebbe il valore effettivo delle riserve in dollari detenute dalla Cina.

Si tratta quindi di mosse tattiche preliminari, effettuate da Pechino in vista dell’obiettivo strategico rappresentato dalla riconversione totale del modello economico mondiale vigente – imperniato sul dollaro e su istituzioni dominate dagli Stati Uniti quali il Fondo Monetario Internazione e l’Organizzazione Mondiale del Commercio – dalla quale scaturisca un sistema che rispecchi i reali rapporti di forza (militari, economici, demografici) planetari.

Intanto, sul piano pratico, la Cina ha progressivamente ridotto in misura rilevante i propri attivi espressi in dollari ed ha drasticamente ridotto l’acquisto dei Buoni del Tesoro statunitensi, indebolendo il legame peculiare che unisce Pechino a Washington.

Qualora questo trend acquisisca maggiore regolarità, gli Stati Uniti si ritroverebbero a dover colmare una voragine che acquisterebbe una profondità proporzionale alla gradualità dello sganciamento cinese, e se non trovassero acquirenti altrettanto facoltosi e bendisposti si ritroverebbero a dover ripetere la desolante vicenda del marzo 2009, quando la Federal Reserve riacquistò 300 miliardi di dollari di Buoni del Tesoro rimasti invenduti, inserendo il paese nella terribile morsa inflazionistica.

La Cina, nel frattempo, si prepara, aumentando del 75% de proprie riserve auree, stipulando accordi specifici (swap) con potenze regionali emergenti come Brasile, Argentina, Indonesia ed Iran, slegandosi dal vincolo del dollaro e autorizzando i paesi nei confronti dei quali vanta crediti commerciali ad emettere obbligazioni indicizzate allo yuan.

 

A ciò va aggiunta la tendenza di alcuni paesi produttori di petrolio a liberarsi dei dollari in favore di monete alternative.

Pochi mesi prima dell’attacco all’Iraq, Saddam Hussein convertì il fondo “oil for food” da dollari ad euro e nel giro di qualche mese Hugo Chavez cominciò a pretendere euro in cambio del petrolio venezuelano, mentre Mahmoud Ahmadinejad utilizzò lo yen per vendere petrolio ai giapponesi.

Un plausibile effetto domino innescato dal comportamento di questi uomini politici avrebbe minato alle fondamenta l’intero sistema dei “petro – dollari”, altro pilastro fondamentale per la sopravvivenza dell’arrancante economia statunitense.

L’aggressione all’Iraq sventò momentaneamente questa minaccia, ma ora quella tendenza di base sta riprendendo vigore, trainata da quegli stessi attori (Ahmadinejad, Chavez, Putin ecc.) intenzionati ad appoggiare il progetto di ristrutturazione caldeggiato dalla Cina.

Esso dovrebbe poggiare sull’adozione di una nuova moneta di riserva mondiale, caratterizzata da una necessaria connotazione sovranazionale.

La posta in gioco è enorme, e la Cina ha la possibilità di fungere da ago della bilancia, in quanto la Russia non dispone di una struttura economica e finanziaria altrettanto solida e radicata, mentre l’eurozona versa in una crisi politica – ben prima che economica – che inchioda il Vecchio Continente al consueto immobilismo strategico, emerso poderosamente nel corso delle ultime riunioni.

Nel corso degli ultimi vertici del G20 (Londra, Toronto, Seul, Cannes) sono emerse profonde divisioni che molto probabilmente rispecchieranno gli schieramenti del futuro prossimo, in cui Gran Bretagna e (pur se in seconda fila) Giappone si sono allineate sulla direttrice tracciata dagli Stati Uniti, arroccati in difesa del sistema vigente, mentre la Cina si è posta in rappresentanza del gruppo di “rivoluzionari” che riunisce Russia, India, Brasile e Argentina.

Gli europei si pongono al centro e, privi di una reale consistenza politica, finiranno per delegare il loro giudizio alle autorità di Washington, che incasseranno il lauto dividendo strategico.

L’unica certezza nella sterminata galassia di variabili impazzite contenute nella fase di estrema indeterminatezza destinata a segnare il passaggio dall’epoca unipolare a quella multipolare è data dal fatto che gli Stati Uniti raccoglieranno tutte le forze di cui dispongono per sostenere l’immane sforzo (di Sisifo) di mantenere i vantaggi di cui hanno goduto finora.

La Cina, intanto, si rinchiude nel suo sibillino silenzio.