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Cittadinanza ai baby immigrati: a una condizione

di Alessio Mannino - 30/11/2011


Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha fatto sapere di essere nettamente favorevole alla cittadinanza automatica per gli immigrati di seconda generazione: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri», ha dichiarato l’altro ieri in un incontro con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, «negarla è un'autentica follia, un'assurdità. I bambini hanno questa aspirazione».
In gergo giuridico si chiama ius soli: è il diritto ad essere cittadini dello Stato in cui si nasce indipendentemente dallo status dei genitori. Si contrappone allo ius sanguinis, che è invece basato sul sangue, sull’etnia della famiglia. L’Italia è isolata in Europa su questo tema, essendo uno degli ultimi paesi a non aver introdotto la prima formula. Napolitano mette all’ordine del giorno il problema evidentemente perché, con una maggioranza trasversale in parlamento, intende cogliere l’occasione e mandare in porto una riforma che con un governo di destra avrebbe trovato l’opposizione irriducibile della Lega Nord, che infatti si è subito detta contraria, e con uno di sinistra avrebbe incontrato l’ostacolo del tipico, ipocrita complesso d’inferiorità di un Pd pauroso di passare per una forza immigrazionista dalle braghe calate. E’ il momento buono, deve aver pensato il Quirinale, regista romano dell’eurocratico governo Monti.
La questione è complessa. Le grandi masse di immigrati che si riversano da decenni dalle diseredate lande del cosiddetto Terzo Mondo ai sobborghi e alle province dell’Impero occidentale non sono un accidente della Storia: sono un fenomeno epocale che non si può pensare di fermare con una legge come l’attuale Bossi-Fini, che equipara gli stranieri, persone con una loro dignità umana, a merce da lavoro. La causa a monte è la globalizzazione dei mercati e dell’immaginario, che da un lato ha impoverito interi continenti come l’Africa, che prima della colonizzazione sociale e culturale, oltre che economica, non conosceva le guerre, i genocidi e la fame, e dall’altra ha diffuso il miraggio del nostro cosiddetto “benessere” omologando miti, bisogni e standard di vita sul modello dell’Occidente euro-americano.
La premessa che va fatta è dunque che in un mondo liberato dalla trappola globalizzatrice, sia pure in una prospettiva di lungo periodo, le ondate migratorie cesserebbero e si tornerebbe alla condizione ideale per cui ogni popolo vive e si fa la sua storia sul luogo e secondo i costumi che gli sono propri. In un’intelligente apertura all’esterno e agli scambi, com’è sempre stato per le civiltà sicure della propria identità e culturalmente avanzate, ma nel contempo refrattarie a svendere o annacquare il patrimonio passato di tradizioni, usi e sistemi di vita. Al momento, stiamo parlando di un’utopia, o quasi.
Detto questo, i figli dei primi arrivati, ancor più dei loro padri e madri, si sentono italiani a tutti gli effetti e vogliono esserlo in tutto e per tutto. Le banlieues francesi date alla fiamme dai casseurs di origini magrebina insegnano che eventuali rivolte del giovani di origine extracomunitaria hanno motivazioni sociali ed economiche piuttosto che razziali o religiose (che semmai possono fornire una giustificazione ex post). In Italia l’assimilazione dei ragazzi è vistosa, e gli episodi di intolleranza di qualche papà islamico ortodosso contro le abitudini troppo disinvoltamente liberali dei propri figli sono casi isolati, in generale la convivenza funziona e non sono sorti ghetti (ad eccezione dei soli cinesi, che tendono a raggrupparsi in quartieri per conto loro).
Realisticamente, penso che se è giusto far passare un congruo numero di anni prima di concedere la cittadinanza ad un immigrato di prima generazione, sia altrettanto equo, dopo che ciò sia avvenuto, riconoscerla alla sua prole fin dall’iscrizione all’anagrafe. Ma ad un patto: che si riveda radicalmente la politica di ingresso degli stranieri. Esiste anche il diritto di una nazione a ospitare chi e quanti ritiene di poter inserire nella società sulla base di indicatori non soltanto riduttivamente industriali, ma sulla base della densità demografica dei territori, della compatibilità con le proprie leggi e il senso comune, e anche, perché no?, di calcoli d’interesse geopolitico. La questione immigrazione va affrontata senza pregiudizi di nessun segno, né catto-buonista né razzistoide. Discutiamone.