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Dallo scienziato al savant, la (ir)resistibile ascesa della moderna cultura “illuminata”

di Francesco Lamendola - 01/12/2011


 

C’è stato un tempo in cui le dame dell’aristocrazia leggevano Newton e discutevano di Lavoisier; c’è stato un momento, nella storia della cultura europea, in cui le piazze cittadine si riempivano di folla per assistere alla partenza di un pallone aerostatico, come e più di quanta se ne fosse mai vista per le normali manifestazioni della vita associata, compreso il Carnevale.
Era l’epoca in cui lo scienziato cominciava a primeggiare nell’immaginario collettivo e, pur essendo, il più delle volte, un dilettante che viveva dei proventi di un altro lavoro, era già circonfuso di gloria e, nei salotti o nelle accademie, raccoglieva intorno a sé un pubblico più vasto e più appassionato di quanto non accadesse ai letterati o ai filosofi.
Ed era l’epoca i cui, per la prima volta nella storia, i governi spendevano grosse somme di denaro per finanziare delle spedizioni a scopo puramente scientifico: delle navi appositamente attrezzate salpavano dall’Europa per scoprire nuove terre o per osservare, nelle condizioni ideali, un’eclisse di Sole o il transito di Venere.
Le cose erano giunte a un punto tale che il pubblico si appassionava per questi viaggi senza finalità di conquista o di commercio, per la sorte di questi esploratori disinteressati; le ultime parole di Luigi XVI, prima di salire sulla ghigliottina, furono se si avessero notizie di La Pérouse, il navigatore di cui si era persa ogni traccia, in mezzo all’Oceano Pacifico.
La capitale mondiale della scienza era Parigi e quell’epoca corrispondeva all’Illuminismo; il prestigio di cui godevano la matematica, la fisica, la chimica e, in minor misura, l’astronomia e le scienze naturali, era diffuso e sostenuto da una quantità di pubblicazioni, atti, memorie, bollettini di società scientifiche; per non parlare delle pubbliche dimostrazioni, degli esperimenti, delle conferenze, dei dibattiti, delle dispute e delle dotte controversie.
Alle spalle dello scienziato e del suo sapere, del resto, si era schierata a sostegno la più grande impresa editoriale della modernità, l’«Encyclopédie», questa formidabile macchina da guerra che, attraverso le biblioteche pubbliche e private, aveva preso d’assolto il sapere tradizionale, a base umanistica, e lo aveva espugnato in nome di una visione pragmatica della conoscenza, che sia “di pubblica utilità” e che possa guidare gli uomini, come allora si diceva, verso la “felicità”: quasi che le forme di sapere non scientifico si fossero rivelate improvvisamente disutili, se non proprio, addirittura, contrarie alla marcia trionfale del “progresso”.
Il linguaggio ha registrato esattamente la trasformazione della cultura europea da letteraria a scientifica: nel Settecento, a Parigi e in Francia, e, da lì, nel resto del mondo - il francese era la lingua della cultura, parlata da tutte le classi dirigenti europee - lo scienziato diventa il “savant”, il sapiente per antonomasia; mentre il poeta, per contrapposizione, si definisce come il “rêveur”, il sognatore: per la prima volta, quella del poeta non è più considerata come una forma di conoscenza, ma come un’attività puramente immaginifica, contrapposta al “vero” conoscere.
Il “savant” non è solo uno scienziato di professione, ma anche un apostolo del progresso e un cittadino esemplarmente impegnato in quella che, oggi, verrebbe chiamata una “battaglia di civiltà”; come scrive Luigi Zanzi(in «Dolomieu: un avventuriero nella storia della natura», Jaca Book, Milano, 2003, pp. 70): «… (la) nuova, moderna figura del “savant” […] (è) emersa distintivamente e progressivamente nel “secolo del lumi”, in Francia e più precisamente a Parigi, quale un professionista della scienza”, come tale impegnato al servizio istituzionale della società civile, anche attraverso l’inserimento nell’apparato burocratico».


Del sognatore si può ridere, per quanto nobile sia il suo sognare, come lo è nel caso di Don Chisciotte; dello scienziato non solo non si ride - sarebbe un delitto di lesa maestà -, ma non si è disposti a vedere altro che la nobiltà delle intenzioni e l’altissimo senso civile: Pilâtre de Rozier, il fisico e chimico che perisce, nel 1785, in uno dei primi tentativi di volo, mentre con il suo aerostato sorvola la Manica, assurge nell’immaginario collettivo alla dimensione di martire della nuova scienza e, perciò, automaticamente, del progresso.
Pare che la scienza antica non sia mai esistita o non abbia fatto altro che intralciare e ritardare lo sviluppo della vera conoscenza: l’esempio scottante del processo intentato dalla Chiesa cattolica a Galilei, in nome della scienza aristotelica, brucia ancora troppo nell’immaginario delle persone colte; ci si dimentica con disinvoltura degli errori scientifici di Galilei, per esempio quando sosteneva, in polemica con l’astronomo gesuita Orazio Grassi, che le comete non sono dei corpi celesti, ma effetti ottici prodotti dai vapori dell’atmosfera.
Insomma la scienza, secondo la nuova concezione del XVIII secolo, è la scienza degli illuministi; quella che, prima di loro, andava sotto questo nome, non merita neppure di essere considerata tale, tanto più che era impastata di magia, alchimia, astrologia: tutte ciarlatanerie da Medioevo, indegne di un sapere moderno e razionale.
Una seconda rivoluzione scientifica, dopo quella del Seicento, viene silenziosamente portata avanti nel corso del Settecento; e, anche se non può vantare clamorosi rovesciamenti di paradigma, come lo era stato il passaggio dal modello cosmologico tolemaico a quello copernicano, i suoi tenaci e intraprendenti alfieri, i Lavoisier, gli Spallanzani, gradualmente ma inesorabilmente procedono per la loro strada, quella quantitativa e sperimentale, escludendo, l’uno dopo l‘altro, gli ultimi residui di quel sapere tradizionale che, fino a Paracelso e a tutto il Rinascimento, aveva pur sempre fatto parte del bagaglio imprescindibile dell’uomo di scienza.
Scriveva Vincenzo Ferrone nel suo ormai celebre saggio «L’uomo di scienza» nella antologia «L’uomo dell’illuminismo» a cura di Michel Vovelle (Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 218-27):
 
«Il tardo Settecento segnò certamente il “trionfo della scienza” e la sua definitiva legittimazione agli occhi della nascente opinione pubblica, ma anche la sua prima grave crisi istituzionale ed epistemologica destinata a scuotere dalle fondamenta il prestigio del “savant” alla francese è ancor oggi difficile comprendere nei suoi profondi risvolti psicologici e di mentalità collettiva lo stupore, la meraviglia, l’eccitazione di quelle grandi masse di persone che si ritrovavano nelle piazze di tutta l’Europa per assistere ai primi voli dei palloni aerostatici. Il susseguirsi di invenzioni preziose come il parafulmine o il rincorrersi sulle gazzette delle roventi polemiche intorno alle guarigioni miracolose ottenute dai fautori del magnetismo animale o intorno all’esistenza del flogisto alimentavano pi la frenetica curiosità dei salotti e delle corti per i meravigliosi esperimenti di elettricismo di cui era maestro il grande Franklin. Al tramonto del secolo, l’uomo di scienza era davvero “à la mode”. Tutti amavano sentirsi dei “petit-maîtres physiciens” e contribuire, seppure da dilettanti, alla diffusione di quel sentimento di onnipotenza che caratterizzava i commenti generali e la pubblicistica sulle scienze e sulle tecniche […].
Tra i bagliori della dilagante moda scientista, con i suoi stessi eccessi che […] vedevano per protagonisti in prima fila intellettuali, borghesi, dame dell’aristocrazia, regine e sovrani di tutto il continente sorpresi sempre più speso a sognare ad occhi aperti dinanzi ai meravigliosi fenomeni delle macchine elettriche o a soffrire per la terribile tragedia di Pilâtre de Rozier, sfortunato Icaro morto nel giugno 1785, dilaniato dal fuoco del suo pallone nell’attraversamento della Manca, si andava delineando un mutamento profondo dei tradizionali grandi quadri di riferimento culturale dell’Occidente. La cultura scientifica entrava a far parte di diritto nella formazione intellettuale delle moderne élites urbane Nelle accademie provinciali francesi tra il 1700 e il 1789, secondo i dati forniti da D. Rioche,(ma il fenomeno è analogo nel resto d’Europa), il 50% degli oltre 2.000 concorsi banditi vennero riservati a temi di tecnologia e di scienza. Montpellier, Brest, Bordeaux, Orléans, Metz, Valence, Tolosa, nate come società sensibili maggiormente alle lettere, si avviano a divenire, nella seconda metà del Settecento, “sociétés savantes”, in quanto l’80% nei loro lavori sono dedicati alle scienze. Certo siamo il più delle volte di fronte a dilettanti, a forme di divulgazione talvolta superficiali. Eppure l’impatto sulla società civile di quella ide0logia ottimistica del progresso umano da conseguire con l’esperienza, l’osservazione, il metodo scientifico, si rivelò di grande efficacia sul lungo periodo, vincendo resistenze e pregiudizi. La sua forza di suggestione si espresse in tutte le direzioni. Nell’Italia del Nord, ad esempio, accademie provinciali e società agrarie avviarono una strategia di acculturazione scientifica verso il basso attraverso gli almanacchi popolari che parlavano di Newton, dei fratelli Montgolfier, della scoperta del nuovo pianeta Urano accanto alle più tradizionali previsioni astrologiche. Era una strategia destinata a mutare nel profondo dell’immaginario collettivo dell’epoca, a legittimare definitivamente il sapere scientifico, come formidabile strumento di trasformazione e di secolarizzazione presso tutti i ceti sociali.
A fronte del “trionfo delle scienze”, nei salotti, nelle gazzette, nei piccoli cenacoli provinciali, quasi ad alimentare e a giustificare il fiorire rigoglioso di quella singolare moda, prendeva rapida,ente corpo la cosiddetta seconda rivoluzione scientifica. I suoi portentosi frutti maturavano silenziosamente nei laboratori delle società di Stato divenendo noti per il tramite di un linguaggio sempre più specialistico su seriosi “Mémoires” e atti accademici.  Lavoisier portava a compimento i suoi esperimenti facendo nascere la moderna chimica su basi quantitative, abbandonando per sempre l’antico simbolismo di origine alchemica; Lagrange, con il calcolo delle variazioni, gettava le basi della definitiva matematizzazione della meccanica; Laplace elaborava teoremi e formule più raffinate per il calcolo delle probabilità e applicava la newtoniana legge del numero a tutti i moti stellari. Il pionieristico e spettacolare elettricismo di inizio secolo, che tanto stupiva e affascinava le dame dei salotti d’Europa, si avviava finalmente a divenire analisi fisico-matematica dei fenomeni elettrodinamici e magnetici nelle complesse opere di Cavendish, Coulomb e Aepinus E ancora: acquisivano statuto e rigore scientifico la meteorologia, l’idraulica (con la teoria cinetica dei fluidi, su base atomistica formulata da Daniel Bernoulli e Michail Lomonosov), la biologia, con i puntigliosi protocolli sperimentali elaborati da Spallanzani…»

Del resto, il più grande filosofo e scienziato dell’Illuminismo, Emmanuel Kant, non aveva forse impegnato l’intero suo sforzo speculativo per dimostrare che la sola vera conoscenza è quella che può sottoporsi al tribunale della ragione, intesa come ragione scientifico-matematica, e che, pertanto, la metafisica non è una scienza; mentre nulla si può affermare a proposito della “cosa in sé”, del Noumeno?
Il ghigno beffardo di Voltaire e di altri illuministi, quando vengono a parlare di miracoli o di eventi soprannaturali, è, inevitabilmente, l’altra faccia della medaglia di questa iperbolica esaltazione della scienza quantitativa e descrittiva, anti-aristotelica e perciò non finalista, anzi, meccanicista e tendenzialmente materialista, nonché rigorosamente riduzionista.
Non ci sono misteri, nella natura; ci sono soltanto problemi da risolvere, e risolverli è solo una questione di tempo. Potrà volercene anche molto, ma, prima o poi, essi verranno sciolti dai lumi della ragione: questa è la ferma fede del “savant” illuminista.
Quanto al filosofo, questi si retrocede da sé stesso a semplice “pihilosphe”, vale a dire a volonteroso ministro dell’onnipotenza scientista: egli si dedica, con zelo ed entusiasmo, a demolire l’intero edificio della metafisica, eseguendo la sentenza di morte che Kant ha pronunciato contro di essa; dopo di che, quel che gli resta da fare è tessere le lodi del nuovo sapere, pratico e soprattutto “utile”, e lanciare gli ultimi strali velenosi contro la teologia e contro la religione.
«Non avrai altro Dio fuori della scienza e non avrai altra scienza che non sia quella codificata dagli illuministi»: questa è la tavola della legge che il XVIII secolo ha tramandato alle generazioni successive e che si impone ancor oggi, a dispetto di tutti i limiti, di tutte le incongruenze, di tutti gli errori che siffatto modello scientifico ha mostrato, e di tutti i pericoli verso i quali minaccia di trascinarci. Quando ci accorgeremo che il nuovo Dio non è affatto migliore del vecchio?