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Siamo sinceri, per non avere paura

di Claudio Risé - 01/12/2011


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Tutti i media esortano a non aver paura, non lasciarsi prendere dal panico, spiegando perché non vi siano ragioni fondate per farlo. Questa volta tocca all’economia, in altre occasioni si parlava di epidemie, di clima, o di altre minacce. Sono inviti dall’efficacia limitata, come quando il terapeuta cerca di persuadere il paziente che non c’è ragione di cadere nel panico quando scende per strada, perché non può succedere nulla di terribile. I motivi per non aver paura sono altri.
Le persone, sane o malate, non si lasciano convincere quando si spiega loro che non c’è nulla da temere, per la buona ragione che sentono, dentro di sé, che non è affatto vero, non è così. A far crescere le paure, infatti, non è il pericolo, compagno non eliminabile dell’esistenza, bensì il mito moderno della sicurezza perpetua.
Nel corso della sua storia l’uomo ha sempre saputo di essere esposto ad ogni sorta di pericolo, nei confronti del quale, se era sano, cercava di allertare i sensi, e, se era religioso, si rimetteva a Dio.
Nella preistoria (anche oggi nelle residue regioni selvagge), l’uomo riconosce l’arrivo dei predatori dall’odore, e dal rumore dei rami spezzati dal loro arrivo. Nelle montagne, o sulle coste, le insidie del tempo vengono spiate ancora oggi (anche) guardando il cielo; interpretando certi colori imprevisti od anomali all’alba e al tramonto, oppure l’odore dell’aria quando sta per arrivare una nevicata troppo abbondante, o la tempesta.
In questi casi, però, non c’è paura, c’è la giusta consapevolezza dei rischi a cui l’uomo, in ognuno dei suoi habitat, è sempre esposto. Come ogni altro essere vivente, che sente che la propria vita può improvvisamente finire, o almeno essere attaccata, minacciata, alterata nel suo tranquillo fluire.
Tutto questo, però, non suscita devastanti paure, bensì altri sentimenti, piuttosto utili. Per esempio l’attenzione a ciò che accade, la raccolta di tutte le informazioni possibili, anche sensoriali, la prontezza nel modificare la propria posizione, la flessibilità, nell’adattarsi alle situazioni.
Non si tratta di paura, ma dell’insostituibile sapere della precarietà della condizione umana: una conoscenza che genera nuove energie e capacità di reagire ai cambiamenti volgendoli al proprio favore.
Questa realistica conoscenza del pericolo, e prontezza nell’affrontarlo, è stata fortemente indebolita dal mito moderno della sicurezza: da quella fisica a quella del lavoro, a quella economica. Si passò così dalle convinzioni rassicuranti del grande sociologo Norbert Elias, sostenitore (nei suoi lavori sulla civilizzazione) della sicurezza delle strade moderne rispetto a quelle medioevali (dove in realtà c’era sì qualche bandito, ma non SUV lanciati sui pedoni, o ubriachi e drogati al volante), alla promessa dell’OMS di debellare ogni malattia batterica entro il 1990, clamorosamente fallita e poi abbandonata.
L’economia non si è sottratta all’ottimistica visione di fine delle difficoltà e pericoli materiali, a cominciare dalla povertà e dal fatale susseguirsi dei cicli economici (creduti ormai superati).
Gli immensi debiti pubblici che oggi affliggono quasi tutti gli Stati sviluppati sono nati in ogni paese dal tentativo di assicurare al maggior numero di persone che lo chiedevano sicurezze economiche che forse non è possibile garantire, almeno fino ad oggi.
Solo spiegare l’inevitabile insicurezza della condizione umana indebolirebbe le tossine dell’onnipotenza, producendo gli anticorpi necessari a vivere in condizioni più dure.
La sincerità è però scomoda. Si fa prima ad esortare a non aver paura.