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L’Europa tra delusione e speranza (I parte)

di Alain de Benoist - 01/12/2011

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I. La delusione

Quando si parla oggi dell’Europa, i termini che si incontrano più spesso sono impotenza, paralisi, deficit democratico, opacità, architettura istituzionale incomprensibile. L’incapacità dell’Europa di impedire la guerra nell’ex Jugoslavia, che alla fine è sfociata nello spettacolo umiliante dei primi bombardamenti americani su una capitale europea dalla fine della seconda guerra mondiale è stata un’illustrazione esemplare di questa situazione. Per decenni, la costruzione europea era stata presentata come una soluzione; adesso è diventata un problema che nessuno sa più risolvere. Ieri offriva ragioni per sperare; oggi fa paura. Ci se ne aspettava un più, ora se ne teme un meno. Il progetto europeo non si accompagna ad alcuna precisa finalità. Non ha né contorni geografici né forme politiche ben caratterizzate. Manifesta un’incertezza esistenziale tanto strategica quanto identitaria, che i “sovranisti” e gli euroscettici hanno buon gioco nello sfruttare. Si è fatto notare da molto tempo che gli abbandoni di sovranità accettati dalle nazioni non sono minimamente compensati da un rafforzamento della sovranità europea. Questa assenza di trasferimenti a un attore politico europeo sovrano è particolarmente preoccupante. Fra le nazioni e l’Europa, la sovranità sembra svanire. Malgrado i suoi 450 milioni di abitanti, l’Europa resta una non-potenza, incapace di definire in modo unitario una politica estera e di difesa che corrisponda ai suoi interessi. Associando, per dirla con Régis Debray, “una struttura economica semplice e un deserto simbolico”[i], assomiglia a quel Belgio che nel 2007 è rimasto privo di governo per mesi, in attesa di un ipotetico compromesso. L’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine lo ha detto senza giri di parole: “L’Europa non sa più chi è, né cosa vuole”.

 

La “decostruzione” dell’Europa è cominciata all’inizio degli anni Novanta, con i dibattiti attorno alla ratifica del trattato di Maastricht. Da quell’epoca il futuro dell’Europa è apparso particolarmente problematico e un buon numero di europei convinti hanno iniziato a disincantarsi. Nel momento in cui la globalizzazione suscitava ulteriori timori, la gente si è accorta che “l’Europa” non garantiva un migliore potere d’acquisto, una migliore regolamentazione degli scambi commerciali nel mondo, una diminuzione delle delocalizzazioni, un regresso della criminalità, una stabilizzazione dei mercati dell’impiego o un controllo più efficace dell’immigrazione; e che, anzi, accadeva il contrario. La costruzione europea è parsa per molti versi non un rimedio alla globalizzazione, un baluardo contro una deregolamentazione generalizzata su scala planetaria, bensì come una tappa di quella stessa globalizzazione. Molti vi hanno visto “il vettore di una demolizione di tutti i valori radicati in nome di un mondialismo senza memoria e senza volto” (Jean-Michel Vernochet)[ii]. Le critiche da destra e da sinistra, le paure nazionali e le inquietudini sociali si sono quindi aggiunte le une alle altre e il disincanto ha cominciato a diffondersi negli ambienti più svariati. L’esito finale è stato il “no” al referendum del maggio 2005 sul progetto di Costituzione.

Sin dall’inizio, la costruzione dell’Europa si è di fatto svolto a discapito del buonsenso. Sono stati commessi essenzialmente quattro errori: 1) Essere partiti dall’economia e dal commercio invece di partire dalla politica e dalla cultura, immaginando che, per un effetto di rimbalzo, la cittadinanza economica si sarebbe tradotta meccanicamente in cittadinanza politica. 2) Aver voluto creare l’Europa partendo dall’alto, invece che dal basso. 3) Aver preferito un allargamento frettoloso a paesi mal preparati per entrare in Europa ad un approfondimento delle strutture politiche esistenti. 4) Non aver mai voluto prendere una posizione chiara ed impegnativa sulle frontiere dell’Europa e sulle finalità della costruzione europea.

All’indomani della seconda guerra mondiale, i promotori della costruzione europea avevano il dichiarato obiettivo di creare le condizioni per una pace duratura in un’Europa devastata nel corso del XX secolo da due sanguinose guerre civili. Quell’ambizione coincideva con il crollo di un ordine del mondo eurocentrico, ma anche con la divisione binaria dell’Europa tra una zona “libera” assoggettata all’influenza degli Stati Uniti e un’Europa centrale e orientale dominata dall’Unione sovietica. Tuttavia, vari progetti concorrenti si contrapponevano fin dagli esordi. Quello che ha prevalso, sostenuto da Jean Monnet, che poggiava sul primato dell’economia, si è imposto a discapito del progetto dei federalisti (Alexandre Marc, Robert Aron, Denis de Rougemont) e del progetto neocarolingio di un Otto di Asburgo.

Aperto il 7 maggio 1948 sotto la presidenza di Winston Churchill, il celebre Congresso dell’Aia riunì quasi 800 personalità venute da 17 paesi. Denis de Rougemont ne fu contemporaneamente il relatore della commissione culturale e il redattore della Dichiarazione finale, il famoso Messaggio agli europei, che getta in particolare le basi di quello che diventerà il Consiglio d’Europa. I lavori portano però ben presto alla ribalta due grandi correnti contrapposte: da una parte i federalisti, sostenitori di una rapida costruzione dell’Europa politica partendo dalla base e nel rispetto della diversità dei popoli, e dall’altra i “funzionalisti” o “unionisti”, secondo i quali la priorità va data a un’Europa economicamente integrata, che parteggiano per un semplice avvicinamento dei governi e dei parlamenti in un’ottica meramente amministrativa. Saranno i secondi a prevalere. È peraltro in occasione del suddetto congresso dell’Aia che Churchill crea il Movimento europeo (United European Movement), di cui diviene presidente onorario al fianco di due democristiani, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, ma anche di due socialisti, il francese Léon Blum e il belga Paul-Henri Spaak. L’Unione europea dei federalisti (UEF) è stata creata invece alla fine del 1946 e sarà animata principalmente dall’ex capo del movimento “Combat”, Henry Frenay, e dall’italiano Altiero Spinelli.

Ossessionati dall’economia, i “padri fondatori” delle Comunità europee hanno volontariamente lasciato ai margini la cultura. Il loro progetto originario, quando non si ricollegava alla vecchia idea “paneuropea” di Richard N. Coudenhove-Kalergi[iii], mirava a fondere le nazioni in spazi di azione di nuovo tipo in un’ottica funzionalista[iv]. Per Jean Monnet e i suoi amici, si trattava di giungere ad una reciproca interpenetazione delle economie nazionali di un livello tale che l’unione politica sarebbe divenuta necessaria, giacché si sarebbe rivelata meno costosa della disunione. In altre parole, l’integrazione economica avrebbe dovuto essere la leva dell’unione politica.

Jean Monnet, formatosi oltre Atlantico (sin dagli anni Venti il finanziere Paul Warburg lo aveva preso sotto la propria protezione), già segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni, scriveva a Franklin D. Roosevelt il 5 agosto 1943: “Non vi sarà pace in Europa se gli Stati si ricostituiscono sulla base di sovranità nazionali. Essi dovranno formare una federazione che ne faccia un’unità economica comune”. Monnet sarà nel 1951 il primo segretario generale della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), embrione della futura Europa di Buxelles. È noto altresì che egli animò negli anni Sessanta un Comitato per gli Stati Uniti d’Europa, nel quale figuravano più di 130 dirigenti di partiti e sindacati dell’Europa dei Sei[v].

Se Monnet incarnava l’ispirazione economica dell’Europa, Robert Schuman ne rappresentava la parte cattolica, se non mistica, assieme al tedesco Konrad Adenauer e all’italiano Alcide De Gasperi. Inizialmente, la costruzione dell’Europa ebbe anche basi cattoliche, che non vanno sottovalutate[vi]. Il progetto di Jean Monnet ottenne d’altronde l’avallo del papa Pio XII, aprendo la strada, nel corso dei seguenti decenni, a quello che Jean-Paul Bled ha giustamente chiamato “l’impegno dei partiti democristiani nell’edificazione di una società funzionale, che ha accelerato l’avvento dell’era delle neutralizzazioni”[vii]. Dato che l’Europa per loro svolgeva “la funzione di un’ideologia sostitutiva”[viii], i partiti democristiani svolsero un ruolo essenziale negli esordi della costruzione europea. “La democrazia cristiana si assume la responsabilità fondamentale di aver fatto avallare ad una parte significativa dei cattolici, consapevolmente o meno, l’idea che il processo di costruzione europea perseguiva l’obiettivo di ristabilire l’unità spirituale perduta, se non un’‘Europa vaticana’”, scrive Christophe Réveillard[ix].

È altrettanto evidente che, sin dalla dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, e poi dopo la firma del trattato di Roma il 25 marzo 1957, “il primato della relazione mercantile e l’organizzazione di tutti i rapporti sociali come elementi al servizio di questo primato sono al centro del progetto europeo”[x]. Non dimentichiamo che il primo nome dell’“Europa” fu “Mercato comune”. Quell’economicismo iniziale ha, ovviamente, favorito la deriva liberale delle istituzioni, nonché la lettura essenzialmente economica delle politiche pubbliche che verrà fatta a Bruxelles. Lungi dal preparare l’avvento di un’Europa politica, l’ipertrofia dell’economia ha rapidamente comportato la spoliticizzazione, la cancellazione dei vecchi sistemi di rappresentanza, la consacrazione del potere degli esperi, nonché la messa in atto di strategie tecnocratiche che obbediscono non tanto a logiche economiche quanto a imperativi di razionalità funzionale. Dirà in seguito François Bayrou: “Un cancro rode l’Europa. Il cancro europeo è che in essa tutto sembra tecnico e più niente è politico”[xi].

Questa scelta di campo a favore dell’economia spiega ovviamente il deficit democratico, innumerevoli volte rilevato, delle istituzioni europee: ancora oggi, la Commissione europea sfugge praticamente a ogni controllo; il Consiglio dei ministri, prodotto dei governi europei, non deve rendere conto a nessuno; la scelta del presidente della Banca centrale non deve essere confermata dal Parlamento e la nomina dei membri della Corte di giustizia dell’Unione è di competenza esclusiva dei governi. Quanto al Parlamento europeo, eletto a suffragio universale dal 1979, si è da lungo tempo trasformato in una babilonia. “Mai l’Unione europea è stata pensata o animata da politici”, ha notato recentemente Jean-Claude Eslin[xii].

Parallelamente, questo economicismo ha fatto nascere una concezione della cittadinanza svuotata della sua sostanza politica. Fondandosi sull’ideologia transnazionale dei diritti dell’uomo, indipendentemente da ogni particolare collocazione territoriale, questa cittadinanza non si definisce più per la capacità di partecipazione politica, ma per il godimento di diritti-crediti in ambito economico o sociale e per la costituzione di uno spazio giuridico unificato, mentre il ruolo dello Stato è ridotto alla sua capacità “provvidenziale” di gestione e redistribuzione dei beni collettivi. È evidente che, in quest’ultima concezione della “cittadinanza”, la differenza di situazione, in un dato paese, fra i possessori della nazionalità e gli stranieri in situazione regolare diventa impercettibile: essendo stato escluso ogni progetto politico comune, la sola residenza a titolo di consumatore od utente dà diritto alla cittadinanza[xiii].

Nel 1992, con il trattato di Maastricht, si è passati dalla Comunità europea all’Unione europea. Anche questo slittamento semantico è rivelatore: quel che unisce è meno forte di quel che è comune. Il passaggio da un termine all’altro, come ha fatto notare René Passet, “consacrava il primato degli imperativi del libero scambio su quelli del riavvicinamento dei popoli”[xiv]. Osservando che, “nella breve storia delle democrazie, i popoli democratici si sono battuti più spesso per difendere la propria patria che per difendere i valori democratici”, Dominique Schnapper ha, dal suo canto, sottolineato assai giustamente “il rischio che le società moderne si sfaldino a causa dell’indebolimento del civismo e della dimensione politica della vita quando le società sono organizzate intorno alla produzione delle ricchezze e alla ricerca del benessere degli individui”, aggiungendo che la costruzione europea, nella stessa misura in cui associa spoliticizzazione e accresciuta mercantilizzazione dei rapporti sociali, “comprende il rischio di contribuire involontariamente a spoliticizzare le società democratiche”, perché “la politica non consiste soltanto nel produrre e ridistribuire ricchezze; ha a che vedere anche con i valori e la volontà”[xv].

Jacques Chirac diceva nel suo celebre appello di Cochin, nel 1978: “Diciamo no a una Francia vassalla in un impero di mercanti”. Sappiamo quel che ne è stato. L’Europa odierna è innanzitutto l’Europa dell’economia e della logica di mercato, giacché a parere di una larga parte delle classi dirigenti liberali dovrebbe essere solo un vasto supermercato che obbedisce esclusivamente alla logica del capitale.

Il secondo errore, lo abbiamo detto prima, è consistito nel voler creare l’Europa dall’alto, ovvero partendo dalle istituzioni di Bruxelles. Come auspicavano i sostenitori del “federalismo integrale”, una sana logica avrebbe viceversa voluto che si partisse dal basso, dal quartiere e dal vicinato (luogo di apprendimento basilare della cittadinanza), salendo verso il comune, dal comune o dall’agglomerazione verso la regione (le province e i dipartimenti non corrispondono ad alcunché), dalla regione verso la nazione, dalla nazione verso l’Europa. Ciò sarebbe stato possibile applicando rigorosamente il principio di sussidiarietà. E invece questo principio, sin dal momento in cui le istanze europee se ne sono impadronite, è stato “trasformato in principio di efficacia, vale a dire in un principio giacobino, e quindi trasformato nel suo contrario”[xvi]. La sussidiarietà esige che l’autorità superiore intervenga solamente nei casi in cui l’autorità inferiore non è in grado di farlo (principio di competenza sufficiente). Nell’Europa di Bruxelles, in cui una burocrazia centralizzatrice tende a regolamentare tutto per mezzo delle sue direttive, l’autorità superiore interviene ogni volta che si reputa in grado di farlo, con il risultato che la Commissione decide su tutto perché si ritiene onnicompetente. In queste condizioni, l’autorità conservata dai gradini inferiori è soltanto un’autorità delegata.

Le rituali accuse dei sovranisti all’Europa di Bruxelles, vista come un’“Europa federale”, non devono quindi indurre in errore: con la sua tendenza ad attribuirsi d’autorità tutte le competenze, essa viceversa si costruisce su un modello in larghissima misura giacobino. Lungi dall’essere “federale”, è anzi giacobina all’estremo, dal momento che coniuga autoritarismo punitivo, centralismo e opacità.

Il terzo errore è consistito nell’allargare sconsideratamente l’Europa, quando sarebbe stato necessario prima di tutto approfondire le strutture esistenti, pur sviluppando un ampio dibattito politico in tutta Europa per tentare di costruire un consenso sulle finalità. La Comunità economica europea (CEE) o “Mercato comune” contava già in partenza sei Stati membri: la Germania, la Francia, l’Italia e i tre paesi del Benelux. L’allargamento progressivo dell’Europa (all’Inghilterra e alla Danimarca nel 1972-73, alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo fra il 1981 e il 1986, alla Svezia, alla Finlandia e all’Austria nel 1995, ai paesi dell’Europa centrale, a Cipro e a Malta nel 2004) si è fatto per ragioni fondamentalmente economiche, alle quali si è potuto aggiungere il desiderio di taluni paesi (soprattutto nordici) di uscire dalla marginalità geopolitica. Nessuna di queste nuove adesioni si è accompagnata a una riforma istituzionali, giacché i liberali hanno sempre giocato l’allargamento contro l’approfondimento. Sebbene le poste in gioco fossero notevoli, nessuna di esse è stata oggetto di una consultazione popolare.

Beninteso: tutti gli Stati membri dell’attuale Unione europea fanno parte dell’Europa e, in quanto tali, hanno la vocazione ad integrarsi in una struttura istituzionale comune. Sarebbe stato d’altronde oppotuno ricordarlo attraverso una dichiarazione solenne quando il sistema sovietico è crollato. Questi paesi possono però integrarsi in una struttura comune solo nella misura in cui questa disponga già di istituzioni politiche integrate, provviste di regole precise che condizionino l’ingresso dei nuovi arrivati a una volontà politica a sua volta chiaramente affermata. Ed è proprio questa volontà a far difetto.

Lo si è visto in modo particolarmente evidente in occasione dell’allargamento ai paesi dell’Europa centrale, deciso nel maggio 2004 ed esteso di recente a Romania e Bulgaria. La maggior parte di questi paesi, che erano stati definitivamente accettati al vertice di Copenhagen del dicembre 2002 sulla base di criteri fissati fin dal 1993, di fatto hanno chiesto di aderire all’Unione europea soltanto per godere della protezione della NATO, come testimonia il sostegno che hanno apportato all’intervento militare americano in Iraq. Parlavano di Europa, ma sognavano solo l’America, come è stato dimostrato anche dall’acquisto da parte della Polonia, meno di quindici giorni dopo il suo ingresso nell’Unione europea, di aerei americani F16, preferiti ai Mirage francesi o agli Jas-39 Gripen svedesi[xvii]. Tenuto conto della disparità delle condizioni sociali e dei sistemi fiscali, a sua volta generatrice di distorsioni della competitività, quell’allargamento ai paesi dell’Est ha inoltre scatenato un ricatto basato sulle delocalizzazioni, a detrimento dei salariati.

Senza alcuna riforma istituzionale, senza un sufficiente impegno finanziario e senza consultazione o sostegno popolare, ci si è limitati ad offrire a dieci ex paesi del versante sovietico, convertiti di fresca data all’economia di mercato, l’ingresso in quello che essi percepivano come un paese della cuccagna, senza rendersi conto che i loro sentimenti autenticamente europei erano tanto più ridotti quanto più accentuato era il loro atlantismo. Ne sono risultati una diluizione e una perdita di efficacia che hanno rapidamente convinto tutti che un’Europa a venticinque o a trenta era semplicemente ingestibile, opinione che si è ulteriormente rafforzata a causa delle inquietudini culturali, religiose e geopolitiche legate alle prospettive di adesione della Turchia.

La verità è che, più l’allargamento si estende, più l’approfondimento diventa difficile. Un editoriale uscito su “Le Monde” il 19 gennaio 2000 parlava d’altronde a questo proposito di “due obiettivi assolutamente antinomici”. La potenza non è infatti esclusivamente una questione di taglia. Qui non solo il principio “più si è grandi, più si è forti” non vale più, ma si rovescia: più l’Unione europea si estende senza riformarsi, più la sua impotenza si accresce. Il che significa che al di là di una certa soglia l’Europa cambia natura e non può più funzionare come prima[xviii]. Come si può, in effetti, stabilire una politica comune in venticinque o in ventisette?

L’ingresso dell’Unione europea di un paese di 72 milioni di abitanti come la Turchia, che diverrebbe così, per il solo fatto del suo peso demografico, lo Stato membro più influente in termini di diritto di voto, prospettiva sostenuta dagli Stati Uniti ma alla quale la maggioranza degli europei è nettamente contraria, sanzionerebbe definitivamente una fuga in avanti nell’allargamento ai danni dell’approfondimento, sgretolando per sempre la speranza di vedere l’Europa trasformarsi in una vera entità politica. Come ha scritto Jean-Louis Bourlanges, “l’adesione della Turchia porrebbe fine ad un’esitazione di mezzo secolo fra due concezioni dell’Unione, ideologica da un lato, geopolitica dall’altro. Consacrerebbe la vittoria di un’Europa eterea, ridotta all’esaltazione di valori universali e del diritto, su un’Europa radicata in una terra e in una storia particolari, la vittoria di un’Europa dell’Onu su un’Europa carolingia. Jean Monnet, il viaggiatore senza bagagli della pace universale, il campione planetario della risoluzione dei conflitti, prevarrebbe definitivamente su Robert Schuman, l’uomo di un luogo e di un tempo, attaccato con tutte le fibre del proprio essere alla sua Lorena lacerata, risoluto da cristiano, da lotaringio, da francese e da tedesco a ritrovare – attraverso la riconciliazione dei popoli dello spazio renano – il filo perduto di una civiltà comune, la specificità di un modello sociale costruito dalla storia, il segreto di una resurrezione solidale dei popoli spezzati e rovinati dalla follia dei loro rispettivi Stati”[xix].

Quarto errore: il dibattito sulle frontiere, cioè sulla realtà geografica dell’Europa, è stato costantemente eluso, così come il dibattito sull’identità europea e sulle finalità delle sue istituzioni, e questa indeterminatezza ha continuato a caricare il progetto europeo di un’ambiguità propizia a tutte le scivolate. Il timore di parecchi eurocrati è evidentemente stato quello di richiudere lo sviluppo dell’Unione all’interno di frontiere troppo precise. Alcuni di loro, ad esempio Michel Rocard, o Dominique Strauss-Kahn che perora la causa di un’Europa “che vada dall’Artico al Sahara”[xx], non nascondono d’altro canto di vedere nell’Unione europea un insieme di molteplici civiltà promesso, come il mercato, a un’estensione indefinita. Compito dell’Unione europea sarebbe in un certo senso abolire la differenza tra l’Europa e la non-Europa, distruggendo d’un sol colpo quella che doveva esserne la ragion d’essere e qualunque possibilità di diventare un attore di primo piano sulla scena internazionale.

Le frontiere dell’Europa sono dettate tanto dalla storia quanto dalla geografia: esse si arrestano ad Ovest alle rive dell’Atlantico, a Nord alle regioni circumpolari, a Sud al Bosforo, ad Est alle porte della zona d’influenza russa. A questo contesto territoriale gli europei devono attenersi se vogliono svolgere un proprio ruolo all’interno di un mondo multipolare – il che non esclude, beninteso, la firma di accordi di partenariato privilegiato con i vicini più prossimi. Ma la mancanza di un dibattito sulle frontiere è essa stessa legata all’assenza di dibattito sulle finalità. Il fatto che l’Europa scelga di diventare una grande zona di libero scambio oppure una potenza autonoma implica infatti, per i due progetti, frontiere diverse (il primo progetto esige l’adesione della Turchia, ad esempio, mentre il secondo la esclude).

Infine, il problema capitale della lingua dell’Europa non è mai stato seriamente sollevato, quando invece si pone in maniera cruciale in un momento in cui l’Unione europea sta per contare quasi trenta Stati membri. Come può funzionare l’Europa con venticinque o trenta lingue ufficiali, mentre le Nazioni Unite ne conoscono solo cinque o sei? L’Europa deve avere una lingua che le sia propria, ma che nel contempo coesista con le altre lingue nazionali o regionali già esistenti (il multilinguismo è il futuro). Se non si decide a farlo, ovviamente sarà l’inglese a farlo, per difetto. L’apprendimento di una lingua comune richiederebbe perlomeno una generazione. Ciò fa capire quanto grande sia il ritardo già accumulato.

L’Europa, infine, ha continuato a edificarsi senza i popoli. Si potrebbe addirittura dire che la grande costante dei “facitori di Europa” è stata la loro incomprimibile diffidenza di fronte a ogni domanda di arbitrato proveniente dagli elettori, cioè dai popoli. L’Europa aspira a diventare un’entità politica, ma non è mai stata fondata politicamente[xxi]. La stessa sovranazionalità attualmente esistente non è il risultato di una deliberazione pubblica o di un processo democratico, ma di una decisione giudiziaria della Corte europea di giustizia che, in due sue sentenze fondamentali del 1963 e del 1964, ha innalzato i trattati fondatori dell’Europa al rango di “carta costituzionale”, con l’effetto diretto di stabilire il primato del diritto comunitario rispetto ai diritti nazionali. Il Parlamento europeo, unica istanza latrice della sovranità popolare, è privato sia del potere normativo, sia del potere di controllo. Con l’ingresso dei nuovi Stati membri, produce ormai solo una cacofonia politicamente inascoltabile. Il primato del diritto è così andato di pari passo con il primato dell’economia.

Più recentemente, si è formulato un progetto di Costituzione senza che mai venisse posto il problema del potere costituente, e quando si è consultato il popolo per via di referendum, come in Francia nel 2005, lo si è fatto, visti i risultati, per pentirsene amaramente e giurarsi che non lo si sarebbe più fatto. Una Costituzione implica un potere costituente, perché nessun potere pubblico (potestas) può sostituirsi all’autorità (auctoritas) del popolo o dei suoi rappresentanti. Un’assemblea costituente è legittima solo se si fonda sulla sovranità popolare. Ma il progetto di trattato costituzionale, scaturito dalla Convenzione sul futuro dell’Europa creata nel dicembre del 2001 al Consiglio europeo di Laeken e presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, non solo non lo prevedeva, ma si è potuto presentarlo come “una negazione radicale di quel potere costituente che sono il o i popoli europei”[xxii].

Questo progetto non aveva d’altronde niente di una Costituzione. Una Costituzione è un documento relativamente semplice, dal volume piuttosto limitato; il progetto di trattato pesava più di 800 pagine (il che consentiva di tenerne lontani di curiosi). Una Costituzione si accontenta di fissare norme e regole, enunciare principi fondamentali e definire un contesto durevole all’interno del quale funzioneranno le istituzioni, ma non si ferma o non determina alcuna politica particolare; si colloca al di sopra del dibattito politico, che si limita a rendere possibile, perché è al popolo che spetta di decidere in materia di orientamenti e di scelte politiche. Né determina in maniera immutabile alleanze militari, che possono cambiare in funzione delle congiunture o degli eventi. Il trattato, viceversa, scolpiva nel marmo o fondeva nel bronzo ogni sorta di orientamenti in materia economica e in materia di difesa, che sperava così di rendere irreversibili sottraendoli al giudizio e alle scelte dei cittadini.

Il progetto di trattato costituzionale faceva contemporaneamente del mercato il valore supremo e l’obiettivo centrale dell’Unione, che si reputava agisse “conformemente al rispetto del principio di un’economia di mercato aperta in cui la concorrenza è libera” (art. III-177, 178, 179, 185, 246 e 279), principio che avrebbe dovuto imporsi “ai servizi pubblici di interesse economico generale” (art. III-166). Trattando delle relazioni fra l’Unione e il resto del mondo, vi si indicava che “l’Unione incoraggia l’integrazione di tutti i paesi nell’economia mondiale” (art. III-292) e contribuisce alla “soppressione progressiva delle restrizioni agli scambi internazionali” (art. III-314). Veniva inoltre precisato che “le restrizioni sia ai movimenti di capitali sia ai pagamenti fra gli Stati membri e fra gli Stati membri e i paesi terzi sono proibite” (art. III-156), nonché che gli aiuti pubblici “destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio” sono accettabili solo quando “non alterano le condizioni degli scambi e della concorrenza” (art. III-167). Il diritto al lavoro era sostituito dalla “libertà di cercare un impiego e di lavorare” (art. II-75), e il diritto lasciava in tal modo il posto a una semplice autorizzazione. Quanto all’indipendenza della Banca centrale europea, essa ovviamente era confermata (art. I-30), proibendo perciò ogni politica monetaria. Essendo la politica di bilancio già proibita dal patto di stabilità e la politica industriale dalla proibizione di qualunque ostacolo alla concorrenza, il progetto mirava visibilmente a istituzionalizzare, fornendo loro una base giuridica inamovibile, i principi economici del liberalismo, vale a dire i principi del capitalismo dei mercati liberalizzati: lo smantellamento delle protezioni sociali e il libero gioco degli apparati dominanti del Capitale[xxiii]. Il progetto faceva pertanto più volte allusione all’“economia sociale di mercato”, espressione che faceva riferimento alle teorie degli economisti liberali tedeschi del dopoguerra, nei quali il sociale, lungi dal rappresentare un correttivo o una regolamentazione esterna al mercato, è viceversa ritenuto esserne l’effetto. Il mercato, in quest’ottica, è l’unico operatore del “progresso sociale”[xxiv].

Per quanto concerne le questioni di difesa, il progetto di trattato stipulava che, “per mettere in opera una cooperazione più stretta in materia di difesa reciproca, gli Stati membri partecipanti lavoreranno in stretta cooperazione con la NATO” (art. I-41). Meglio ancora: era esplicitamente indicato che “gli impegni e la cooperazione in questo ambito [la difesa] rimangono conformi agli impegni sottoscritti in seno alla NATO, che resta per gli Stati che ne sono membri il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza della sua messa in opera” (art. I-40). Significava costituzionalizzare la dipendenza dell’Europa nei confronti di un’Alleanza atlantica largamente dominata da Washington.

Il progetto di trattato pretendeva infine di assegnare “lo stesso valore giuridico dei trattati”, vale a dire piena forza costrittiva, alla Carta dei diritti fondamentali proclamata il 7 dicembre 2000 al vertice di Nizza. Orbene: l’adozione di quell’ibrido documento rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione giuridica. La Carta volta infatti le spalle al modello dello “Stato legale”, nel quale la legge viene detta sovrana perché è l’espressione della volontà generale espressa dal popolo, per sostituirlo con quello dello “Stato di diritto” fondato non sul popolo ma sulla “società civile”, che si caratterizza per la possibilità di ricorsi giurisdizionali contro la legge. Il suo preambolo (art. 2) precisava che “l’Unione assicura la libera circolazione, dei servizi, delle merci e dei capitali” (senza che alcuno si sia stupito nel vedere la libera circolazione dei capitali presentata come un “diritto fondamentale”!). Il contenuto del documento era peraltro in gran parte ricalcato sulla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo, opera del Consiglio d’Europa che, in quanto tale, è sottoposta alla giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo, rivale in materia della Corte di giustizia delle comunità europee (CJCE), equivoco quantomeno inadatto a far emergere un’identità comunitaria caratteristica dell’Unione[xxv].

Nel maggio-giugno 2005, il rifiuto dei francesi e degli olandesi di ratificare il progetto di trattato “che stabilisce una Costituzione per l’Europa” aveva fatto precipitare gli eurocrati nella depressione, inducendoli a spiegare subito la crisi dell’Europa con il risultato dei referendum – invece di capire che, viceversa, all’origine di quel risultato vi era il cattivo funzionamento delle istituzioni europee[xxvi].

È vero che l’eterogeneità del “no” francese al referendum sull’Europa, causa principale del suo successo (risultato dell’addizione di motivi di rifiuto assai diversi), lo rende anche di difficile interpretazione. Il “no” ha raggruppato tanto sovranisti ostili ad ogni forma di unificazione politica dell’Europa, che consideravano antinomica a una sovranità nazionale sacralizzata, quanto eurofili convinti ma non disposti ad adeguarsi ai principi del liberalismo consacrati dal trattato, i quali speravano di provocare uno “choc salutare” imponendo un colpo di freno a una folle fuga in avanti, senza dimenticare chi temeva il possibile ingresso della Turchia nell’Unione (o, più generalmente, il suo allargamento sconsiderato), il deteriorarsi della situazione dell’impiego, l’aggravarsi della situazione economica, ed infine elettori (forse i più numerosi) desiderosi semplicemente di esprimere il loro cattivo umore nei confronti del governo esistente o di sanzionare la classe politica di ogni tendenza. Ma quel che colpisce ancora adesso è l’ampiezza del fossato rivelato dal voto fra i sentimenti del popolo, ostile nel 54,6% al trattato, e le posizioni dei parlamentari, che gli erano favorevoli per il 93%.

Il fatto è, in ogni caso, che quei voti negativi non sono minimamente serviti da lezione: nessuno si è accorto che bisognerebbe forse impegnarsi su un’altra via, più conforme alla volontà popolare. Gli eurocrati si sono impegnati, viceversa, a trovare il mezzo pratico per non tenere alcun conto dell’avvertimento che era stato loro lanciato. Il risultato è stato il progetto di “trattato semplificato” adottato al vertice di Lisbona, che per unico obiettivo aggirare l’opposizione al trattato costituzionale riproponendo il medesimo contenuto in un diverso involucro.

Questo progetto di trattato “semplificato”, reso pubblico il 5 ottobre 2007 con il nome di “trattato modificativo”, di cui Nicolas Sarkozy aveva già fatto adottare il principio a Bruxelles nel giugno 2007, in primo luogo non è così semplificato come si sostiene, dal momento che conta 256 pagine con l’aggiunta di 12 protocolli annessi e di 25 diverse dichiarazioni che rimandano a circa 3000 pagine di accordi precedenti. Esso riprende peraltro la sostanza delle disposizioni del progetto di trattato costituzionale respinto per via di referendum dai francesi e dagli olandesi. Uniche modifiche: gli elementi simbolici (bandiera, inno e moneta) non vi figurano più, e il ministro degli Esteri dell’Unione si vede attribuire, per soddisfare gli inglesi, il semplice titolo di “alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune”. Per il resto non cambia niente, se non il rivestimento. Il riferimento alla NATO, in particolare, è sempre presente, giacché il nuovo testo rimanda al trattato di Maastricht, il cui titolo V stabiliva che le posizioni comuni degli Stati membri in materia di difesa devono essere compatibili con i “contesti della NATO”. La Carta dei diritti fondamentali non è ripresa per esteso, ma è essa pure oggetto di un riferimento, il che in diritto significa la stessa cosa. Si precisa anzi esplicitamente che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi enunciati nella Carta del 7 dicembre 2000, che ha il medesimo valore giuridico dei trattati” (art. 6). La superiorità della norma europea sulle leggi e sulle Costituzioni nazionali è menzionata in una dichiarazione aggiuntiva che ricorda la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea in materia.

Neanche il riferimento alla “concorrenza libera e non falsata” viene abbandonato, dal momento che il trattato “semplificato” rimanda a un protocollo addizionale il quale stipula che “il mercato interno, così come è definito all’articolo 3 del trattato, comprende un sistema che garantisca che la concorrenza non è falsata”. La Commissione di Bruxelles resta inoltre titolare dell’interpretazione delle norme di concorrenza e si può quindi opporre alle politiche industriali nazionali ogni volta che queste fossero tentate di rimetterne in discussione il principio, sostenendo ad esempio che la concorrenza non può, da sola, regolare il commercio internazionale, tenuto conto della disparità delle situazioni sociali fra i paesi. Valéry Giscard d’Estaing, principale “padre” del trattato costituzionale, non ne ha fatto mistero: “La differenza è più di metodo che di contenuto […] I giuristi non hanno proposto innovazioni. Sono partiti dal testo del trattato costituzionale, di cui hanno scisso gli elementi, ad uno ad uno, rinviandoli attraverso gli emendamenti ai due trattati esistenti di Roma (1957) e di Maastricht (1993) […] Il risultato è che le proposte istituzionali del trattato costituzionale si ritrovano integralmente nel trattato di Lisbona, ma in un ordine diverso”[xxvii].

Il “trattato modificativo” doveva essere ratificato a Lisbona il 13 dicembre 2007. Nessun referendum è previsto, salvo che in Irlanda e in Danimarca, benché diversi sondaggi d’opinione abbiano indicato che il 76% dei tedeschi, il 75% dei britannici, il 72% degli italiani, il 71% dei francesi e il 65% degli spagnoli desiderano potersi pronunciare su questo testo. In Francia, con ogni evidenza questo trattato non ha altra ragion d’essere se non imporre al popolo, senza doverlo consultare, ciò che esso aveva respinto a maggioranza nel 2005[xxviii]. Il rifiuto del presidente Sarkozy di sottoporre il “trattato modificativo” a referendum e la sua decisione di farlo adottare per la sola via parlamentare hanno dunque un sentore di fellonia. Anne-Marie Le Pourhiet, professoressa alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Rennes, è giunta al punto di parlare di “colpo di Stato” e di “altro tradimento”. “Quando si sa che la Costituzione californiana prevede che una norma adottata per referendum non possa essere in seguito abrogata o modificata se non tramite un’altra decisione popolare e che la Corte costituzionale italiana adotta lo stesso principio, non si può non essere sconcertati dal colpo di Stato in tal modo perpetrato in Francia […] Il termine che viene alla mente per definire il disprezzo presidenziale della volontà popolare è ovviamente quello di alto tradimento”[xxix].

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