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Chi ci guadagna con la mondializzazione?

di Jose Francisco Peullo-Sacarras - 06/12/2011

 


Lo scorso 12 agosto (esattamente due mesi prima della conclusione della ratifica degli Accordi di Promozione Commerciale – precedentemente chiamati TLC – con Colombia, Panama e Corea del Sud al Congresso degli Stati Uniti!), C. Fred Bergsten, direttore del Peterson Institute for International Economics, ha fatto un intervento intitolato “Gli Stati Uniti nell’Economia Mondiale”.

La presentazione faceva parte di una serie di conferenze su temi “d’attualità” patrocinate ogni anno e durante un periodo di nove settimane dall’Istituto Chautauqua in riva al lago che porta lo stesso nome, nella città di New York [1].

Il discorso pronunciato da Bergsten contestava, con un tono molto caratteristico, sia gli atteggiamenti del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, sia quelli del Partito Repubblicano al Congresso, in quanto considerati come un affronto persistente, da parte di entrambi, verso i temi strategici legati al commercio internazionale del paese.

Secondo Bergsten, questa “indifferenza” porterebbe gli Stati Uniti a perdere “una vera opportunità di creare posti di lavoro”, un problema che – come sappiamo – diventa sempre più inquietante per la maggior parte dei paesi “sviluppati” e che si aggrava ancor di più con ciò che viene chiamata “la crisi del debito sovrano” [2]. Bergsten suggeriva la necessità di un avanzamento immediato in questo campo, partendo da una triade di misure pratiche, dalle quali sarebbero scaturiti dei risultati molto rapidi.

Ciò che si potrebbe interpretare come una conferenza aneddotica, tra le mille altre che si tengono su questi argomenti nella prima potenza mondiale - specialmente in questo periodo di crisi capitalista –, contiene tuttavia qualche aspetto che illustra le prospettive oggi avanzate dai principali centri egemonici di potere di fronte alle sfide che provengono dalle riconfigurazioni dell’attuale economia politica, sia in ambito statunitense che a livello planetario.

Il discorso, la sua forma e il suo contenuto, attirano l’attenzione per diverse ragioni.

Per prima cosa, per il suo centro di diffusione. Bergsten - diciamolo – fu direttore dell’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale dal 1981 (anno della sua creazione) sino ad oggi.

Questo centro di ricerca è ampiamente riconosciuto come il “think tank” più influente del mondo. Indubbiamente i “punti di vista” e i rapporti che ha prodotto sono stati storici e sistematicamente accolti dalle autorità responsabili in materia di politica economica (fondamentalmente su aspetti internazionali) degli Stati Uniti, durante – almeno - gli ultimi tre decenni.

Basterebbe ricordare che nello staff di ricercatori si trovano le figure universitarie che lavorano nelle facoltà più “prestigiose” degli Stati Uniti e che la sua squadra permanente intrattiene stretti legami con i principali organi governativi, statali e multilaterali la cui sede è a Washington – cominciando dalla Presidenza della Repubblica – e anche con il complesso circuito di lobby che gravitano attorno a Wall Street. Tuttavia, tra tutti, c’è una personalità che spicca in modo particolare: John Williamson, economista che negli ultimi vent’anni è diventato famoso per aver dato alla luce il Washington Consensus. L’Istituto per l’Economia Internazionale (oggi Peterson Institute) fu l’istituzione che nel 1989 fu “responsabile” dell’organizzazione delle conferenze che diedero origine al tristemente celebre Consensus e, in seguito, alle sue “versioni” successive [3]. Questa breve descrizione ci fa già comprendere di chi stiamo parlando e quali “nuove” formule cerchino di promuovere.

Il testo del discorso – nella seconda parte – comincia riassumendo la situazione attuale dell’economia statunitense. Bergsten nota, tra le altre cose, che oggi gli Stati Uniti importano la metà del petrolio di cui l’economia ha bisogno; quasi la metà dei bilanci contabili delle prime 500 aziende statunitensi dipendono da operazioni internazionali [4]; la maggior parte del debito del governo appartiene agli investitori stranieri, capitale che - secondo Bergsten - finanzia una buona parte dell’investimento interno necessario a mantenere una crescita economica “decente” e, grazie al deficit commerciale registrato da questo paese da più di trent’anni, gli Stati Uniti sono oggi i primi debitori al mondo: possiedono un debito esterno lordo di circa 23 trilioni di dollari - la maggior parte in mano a Cina, Russia e a qualche paese del Medio Oriente, precisamente (guarda caso) ai principali esportatori di petrolio – e chiedono prestiti al mondo dell’ordine di 500 miliardi di dollari l’anno.

Sottolineava, inoltre, il deterioramento dell’importanza economica degli Stati Uniti a livello mondiale, che è letteralmente in discesa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’economia statunitense contribuiva per il 50% del PIL mondiale, mentre ora non ne rappresenta più del 20% (settembre 2011), senza contare l’abbassamento degli stipendi medi per più di “una generazione” e che la distribuzione del reddito tende a peggiorare sempre di più. Certo, il panorama così presentato non è per niente lusinghiero.

Secondo Bergsten la situazione « di profonda crisi » nella quale si trova l’economia statunitense può tuttavia essere capovolta: senza voler modificare la direzione delle decisioni prese fino ad oggi e che, secondo parecchi analisti statunitensi, sono le stesse che hanno accelerato le contraddizioni economico-politiche che si estendono a livello mondiale, si tratta ora di approfondire – fino alle sue ultime conseguenze – il “modello di sviluppo” in vigore (termine col quale chiamiamo con eufemismo le strategie di espansione imperialista, all’interno del capitalismo contemporaneo) e, in particolare, quello che ha portato grandi benefici ai capitali statunitensi: la mondializzazione.

Nonostante i problemi attraversati dall’economia statunitense, il bilancio in questo senso spiega con efficacia questa scommessa: “Gli Stati Uniti hanno enormemente guadagnato con la mondializzazione. Il nostro paese – dice Bergsten – è ogni anno più ricco di oltre un trilione di dollari grazie all’integrazione commerciale. Ciò equivale a circa il 10% di tutta la nostra rendita nazionale e a più di 10.000 dollari per nucleo familiare. Con la globalizzazione finanziaria che ha accompagnato i crescenti flussi commerciali, si accumulano dei vantaggi addizionali (sottolineo) [Nota: “ i benefici complementari” potrebbero aggiungere al calcolo altri 0,5 trilioni di dollari]. Ciò che precede è visto dal lato dei benefici.

Durante questo periodo le perdite (“costi”, secondo i termini di Bergsten) della mondializzazione per gli Stati Uniti risultano essere alquanto differenti: “Quasi mezzo milione di lavoratori (su una forza lavoro totale di 150 milioni) perdono ogni anno il loro lavoro, la maggior parte per un periodo provvisorio, a causa dell’aumento delle importazioni. Alcuni devono accettare posti di lavoro con bassi stipendi per lungo termine, dovendo affrontare un abbassamento del tenore di vita nel futuro. Questi effetti ammontano a circa 50 miliardi di dollari all’anno, un importo sostanziale in termini assoluti, ma soltanto un ventesimo della redditività annua frutto della mondializzazione…” (reitero e sottolineo). Ciò che precede non potrebbe essere più eloquente sullo stile statunitense, storicamente deplorevole e cinico, riguardo a questi argomenti: Gli affari sono affari!

La “mondializzazione”, – che può essere di diversi tipi, dimensioni e magnitudine – a cui Bergsten si riferisce qui e che adula fino al parossismo, è chiaramente quella che favorisce esclusivamente gli interessi dei capitali statunitensi, ovvero la mondializzazione a carattere neoliberista che, in questo momento e secondo la sua opinione, dovrebbe avanzare verso la sua fase superiore: il Libero Scambio (totale). Con questo obiettivo, Bergsten sembra voler suggerire che gli Stati Uniti debbano insistere attraverso una “grande campagna” – ancora più aggressiva di quella che si è vista finora – per continuare a “negoziare” e ad allargare nuovi Trattati di libero scambio bilaterali o plurilaterali (come “l’Accordo p4” o Trans-Pacifico (TPP) che lega l’Asia e l’America) [5]

Non solo, Bergsten, nel suo tris di “soluzioni”, prevede che, oltre ai TLC, il miglior sistema per consolidare in modo sicuro il modello statunitense di “crescita basata sulle esportazioni” e la miglior forma per assicurare i mercati mondiali consisterebbe nell’ottenimento di un Trattato di Libero Scambio Mondiale che sostituisca (o rianimi) il Round di Doha che, secondo la sua opinione, fu un totale fallimento, dopo un decennio “di sforzi nelle negoziazioni”. Per questi tentativi, propone “l’utilizzo” di istituzioni economiche internazionali come il FMI e l’OMC.

Resterebbe da fare un’osservazione chiave, ugualmente evocata nel discorso di Bergsten. Per il momento non si è ancora sottolineato l’essenziale: questi trattati, per quanto evochino un “Libero Scambio” - chiaramente inesistente nella pratica perché si tratta degli affari di potenti monopoli multinazionali - non trattano strettamente “di commercio”. Al contrario, questa componente rappresenta solo una minima porzione di ciò che si è negoziato in questi trattati. Si tratta piuttosto di accordi di “liberalizzazione degli investimenti”, nei quali le componenti come i “servizi” (specialmente finanziari; acquisti statali, diritto di proprietà, eccetera) hanno un significato molto strategico [6].

Precisamente, ciò che precede risponde al fatto che questi trattati - ricordiamolo, disegnati su misura per gli interessi statunitensi - riproducono le stesse strutture produttive e di interessi che esistono attualmente negli Stati Uniti dopo le varie trasformazioni subite in questo paese dagli anni ‘80. Oggi il settore industriale statunitense rappresenta al massimo il 10% dell’economia, mentre l’agricoltura non più dell’1% e i servizi (soprattutto quelli finanziari) più dell’80. Quest’ultimo settore fornisce il 25% dei posti di lavoro e ha subito un’evoluzione negli ultimi trent’anni a un tasso del 30% e con dei salari più alti del 10% rispetto a quelli dell’industria.

Bergsten propone che gli “sforzi internazionali” degli Stati Uniti debbano dirigersi principalmente verso zone come l’America Latina e i Caraibi e verso le economie dette emergenti. La legislazione, su questi aspetti, non è “pianificata” (deregolamentata) e ciò presuppone delle grandi opportunità per “l’apertura dei mercati”.

Noi insistiamo sul fatto che le “alternative” prevalenti di fronte alla crisi attuale non prevedono soltanto di risolvere la situazione con più capitalismo, ma, peggio ancora, con più neoliberismo, questione che diventa drammatica per l’impronta selvaggia che deriva da un sistema che mette in pericolo l’intera civilizzazione.

Note:

[1] Bergsten, F., « US and the World Economy, (Discorso rivolto alla Chautauqua Lecture Séries, «The US Economy: Beyond a Quick Fix», 12 Agosto 2011).

[2] Nella sua giusta proporzione, si tratta solo di due elementi tra i numerosi che potrebbero essere considerati nel quadro di una crisi globale (che non solo tocca una manciata dipaesi del Nord ma, a poco a poco, si è “mondializzata” e colpisce le economie mondiali), strutturale (non si tratta di un “disordine” superficiale, né esclusivamente economico o finanziario della logica capitalista, ma mina i fondamenti e le dinamiche stesse che lo strutturano), integrale (in questo momento assistiamo alla convergenza simultanea di diverse crisi generate dal sistema: una crisi alimentare, energetica, ambientale, biologica, politica, sociale, ideologica) e di lungo termine (retrospettiva e prospettiva, ecco perché gli annunci di un’uscita rapida dalla crisi mancano di fondamento) del sistema capitalista.

[3] Riguardo alle differenti versioni del Washington Consensus, cfr. Puello-Socarrás, J.F., “Nuova Grammatica del Neoliberismo”, Bogotá, Università Nazionale della Colombia, 2008.

[4] Ciò riporta l'attenzione al totale del debito statunitense (750 trilioni di dollari):

1) I derivati finanziari rappresentano l’81,13% (600 miliardi di dollari, ovvero 40 volte il PIL degli Stati Uniti; il PIL mondiale è di 60 miliardi di dollari, ovvero il 10% dei derivati) concentrati nel 2009 in cinque banche statunitensi. Nel 2011 quattro banche avevano in cassa quasi il 95,5% dei derivati (JP Morgan Chase, CityGroup, Bank of America e Goldman Sachs;

2) Sanità: 0,34%

3) Previdenza Sanitaria: 8,06%;

4) Previdenza Sociale: 5,37%;

5) FED: 3,18%;

6) Debito pubblico: 1,92%.

Informazione fornita dall’Ispettore delle Finanze degli USA, disponibile su:
www.desdeabajo.info

[5] In realtà, e in tutti i casi dei TLC, la regola non è la “negoziazione”, ma l’imposizione attraverso pressioni extra economiche, politiche e, in base all’opportunità, militari (una variabile talvolta poco commentata, ma inerente al progetto di espansione egemonica), come lo mostra la storia più recente, in un certo modo “l’integrazione » economica si trasforma in necessità progressiva di militarizzare dei territori come meccanismo per assicurare i flussi di merci e la sicurezza giuridica.

[6] Cfr. Estrada Álvarez, J., Diritti del capitale, Bogotá, Università Nazionale della Colombia, 2010. Disponibile on line su : www.espaciocritico.com.

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Fonte: Libre-échange, l’étape supérieure du néolibéralisme

 

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di FRANCESCA B.