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Sergio Marchionne. E così Fiat…

di Nicola Mente - 07/12/2011


Maggioranza e minoranza, questione di punti di vista. «Ѐ completamente impensabile arrivare alla conclusione che la Fiat non sia interessata agli 80mila dipendenti che ha in Italia, paese dove è stata fondata 112 anni fa e che ci sta a cuore». Queste parole di Sergio Marchionne tendono a coprire con un velo le esplosive dichiarazioni che l’amministratore delegato Fiat aveva lanciato nelle scorse ore. Marchionne ha fatto chiaramente intendere – puntigliose smentite a parte – che la Fiat non è più roba nostra, ma roba di tutti. Brasile, Cina, India. Ha fatto intendere che, in un periodo in cui gli italiani avrebbero bisogno della loro industria principale, potrebbero trovarsene privi. In parole povere, la Fiat ha bisogno degli italiani, ma non dell’Italia.

«Abbiamo avuto la maggior parte dei lavoratori che ha appoggiato un’alternativa», così l’ad Fiat durante l’incriminato discorso di Washington. «Il treno è passato ed è inutile cercare di insistere che bisogna rinegoziare. Quella decisione è stata presa e non possiamo continuare a votare finché non vince la Fiom. Questa è la tirannia della minoranza verso la maggioranza. La Fiat non può essere la vittima di questa minoranza. Non si può investire così, parliamo di miliardi di euro di investimenti, non di aprire un supermercato». Giri di parole per evitare di scivolare in un “addio, i tempi son cambiati”, senza discostarsi troppo dal medesimo significato.

Sembra incredibile osservare gli anni che passano senza rendersi conto dei ricordi impolverati. Un po’ come quando cerchi un oggetto prezioso e per troppo tempo di scontata presenza, salvo poi ricordarti di averlo archiviato in soffitta. I tempi del Novecento sono là sopra, impolverati, con l’Avvocato a lasciare il proscenio tra la folla umida e infreddolita, in concomitanza con l’apertura del sipario Europa e l’entrata nell’era più sfrenata, con la globalizzazione sfacciata pronta a battere la grancassa per un decennio. Un internazionalismo da nuovo millennio, che portò l’euro come dote e che non avrebbe mai immaginato di rischiare l’implosione dopo neanche una decade di vita.

Un’altra Italia. Una storia d’amore, quella tra l’Avvocato e il Bel Paese, lunghissima e complessa. Un’identità in fusione reciproca, in un viaggio che ha solcato valli e monti impervi. Gli anni della Ricostruzione, il Boom e le lunghe code di 500 e 126 in autostrada. Il marchio che aveva il sapore d’orgoglio nazionale. Il patrimonio da difendere, anche in quegli anni settanta così straordinari e turbolenti, in cui tutto fu messo in discussione. Presidenti, dirigenti, capireparto, operai. L’azienda però, l’identità, quella mai.

Vennero gli anni ottanta e il secondo picco di welfare, poi i Novanta con Tangentopoli , con il corto circuito tra politica e imprenditoria, durante i quali i fili – non tutti – uscirono dal bulbo. Fu proprio in quel 1993 che Craxi, in deposizione al Palazzo di Giustizia di Milano durante il processo Enimont, dichiarava davanti al pubblico ministero Di Pietro quanto fosse ingerente l’apparato Fiat nella stabilità politica italiana. Un’informazione intuita da tempo, ma mai sviscerata da fonti così attendibili. In virtù di tutto questo, è ovvio come a volte possa accendersi il paragone tra l’ultima dirigenza Agnelli e i discendenti; tra l’era dell’orologio sul polsino e quella del pullover alla Marchionne, uomo dalla maschera umana che cela ad arte un cuore robotico, al passo coi suoi tempi.

I tempi degli organismi sovranazionali, i tempi delle grandi banche e dell’Alta finanza. I tempi dei governi tecnici e replicanti. I tempi dell’epurazione dal feticcio dei primi anni duemila. I tempi in cui l’identità e l’orgoglio si sono inevitabilmente annacquati, tanto da avanzare richieste di divorzio dopo le nozze d’oro. I tempi in cui un italiano è sempre meno italiano. I tempi in cui il personal computer te lo compri a New York,  i jeans a Berlino, le scarpe a Parigi. I tempi in cui attraversi la strada e vai a mangiare sushi, snobbando la trattoria casereccia. Un vortice globale, carosello stonato a cui han semplicemente cambiato le pile, in cui il dottor Marchionne si sente paladino degli interessi aziendali e nulla più. Cosa avrebbe detto o fatto l’Avvocato? Probabilmente non sarebbe cambiato granché, ma ancora più probabilmente non sarebbe possibile esercitare un raffronto tra due figure così distanti.

La sceneggiatura si trasforma insieme a scenografia e attori principali, talvolta riducendo drasticamente lo spessore. La poesia romantica del secolo scorso lascia spazio all’asettica austerità del presente, dazio da pagare dopo i bagordi del decennio passato. E così la Fiat snatura la sua secolare causa, quella di essere madre produttrice di beni “popolari”, lanciandosi sull’onda del lusso diventato diritto, come dice Vincent Cassel nel famoso spot. In virtù di questo è facile pensare all’assurdo e particolare chiasmo che racconta dell’aristocrazia di un tempo, che andava a braccetto col volgo – spesso litigando, ma comunque uniti – a paragone con la nuova borghesia  in vocazione verso l’opulenza della minoranza, che tiranneggia sulla maggioranza.

E la minoranza non è la Fiom, caro Marchionne, ma la Fiat. Così come l’hai voluta tu. Questione di punti di vista, appunto.