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Nella concezione moderna del Male traspare l’ambizione faustiana di poterlo utilizzare

di Francesco Lamendola - 07/12/2011







Che al mondo esista il male, il Male con la “m” maiuscola, la cultura occidentale lo sente e lo crede da circa duemila anni, ossia dal cristianesimo.
Diverso è il discorso per le culture orientali, ad esempio la taoista e la buddista: nella prima non vi è la contrapposizione del bene e del male, ma solo la Via, che, in se stessa, è buona, purché la si sappia seguire; nella seconda, il male esiste, ma non è un principio metafisico: è il dolore provocato dalla brama e dall’attaccamento per gli enti finiti, e dal quale l’uomo si può, mediante un duro esercizio su se stesso, affrancare.
Nella cultura greca e romana il male esiste, ma non è un principio antitetico al bene; sono entrambe culture sostanzialmente naturalistiche, che considerano buono ciò che asseconda la natura e cattivo ciò che vi si oppone. Nella natura stessa, però, vi sono la malattia, la vecchiaia e la morte; le cose sono fragili e caduche e le generazioni si susseguono come le foglie della foresta, per dirla con Omero, che incessantemente cadono e si rinnovano: e questo senso della labilità delle cose getta un’ombra non solo di malinconia, ma anche di profonda angoscia, sul sentimento sereno della vita, accettata nella sua naturalità.
Nella cultura greca non è molto chiara la distinzione fra il destino delle anime buone e quello delle anime malvagie; non la si vede nei poemi omerici, mentre comincia ad affermarsi con la tradizione orfico-pitagorica e, poi, con Platone (invece è cosa dubbia che Socrate la concepisse: cfr. il nostro articolo «Socrate credeva nell’immortalità dell’anima?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 10/04/2006). Anche i Romani ci sono arrivati solo lentamente, come risulta dall’«Eneide» di Virgilio, il quale, del resto, pesca a piene mani dall’orfismo e dal pitagorismo per descrivere, nel sesto libro, il destino delle anime dopo la morte.
Neppure gli Ebrei avevano una marcata credenza nel Male mentre il Diavolo è stato, per essi, una acquisizione abbastanza recente, così come, del resto, l’idea della sopravvivenza dell’anima alla morte fisica. Al tempo di Gesù, i Sadducei ancora negavano quest’ultima; e, quanto al Diavolo, si direbbe che l’apporto decisivo sia stato quello del dualismo zoroastriano, da cui derivano le correnti gnostiche del primo cristianesimo.
Notiamo di sfuggita che il Male e il Diavolo non sono due concetti intercambiabili: il Diavolo è la forma personale del Male metafisico, ma quest’ultimo può essere concepito anche senza il Diavolo, semplicemente come una condizione strutturale, originaria, di inclinazione al male da parte degli esseri umani, oppure come una radicale, ineliminabile presenza malvagia nell’ambito della natura stessa. Certo che, in questo secondo caso, resta da spiegare come si sia introdotta tale condizione nella natura o quale forza sospinga gi uomini verso la malvagità.
L’uomo medievale, in ogni caso, era fermamente convinto dell’esistenza di una lotta fra il Bene e il Male, avente come posta la salvezza dell’anima umana; ed era del pari convinto che Dio fosse il Bene, il Diavolo, il Male; non li poneva, però - tranne che nelle eresie a sfondo dualista, come quella catara - sullo stesso piano ontologico, ma concepiva il Male come subordinato al Bene e destinato, infine, ad essere sconfitto e radicalmente eliminati dal mondo.
Quanto alla natura umana, la teologia cristiana ha elaborato la dottrina secondo la quale essa, in origine, era buona e innocente, perché tale creata da Dio; ma che, adoperando in maniera sbagliata il dono della libertà, i primi uomini peccarono, ribellandosi all’ordine divino e trasmettendo a tutti i loro successori il “vulnus”, la ferita del peccato originale, a causa del quale essi, pur essendo capaci del bene, sarebbero fatalmente portati verso il male, se l’azione della grazia divina non ve li trattenesse e non restituisse loro la facoltà di scegliere il bene.
Nel mondo, dunque, vi è il Male, ma il mondo, in se stesso, non è cattivo (come affermano, invece, gli gnostici e i catari); non è stato creato dal Diavolo, ma da Dio, secondo un progetto benevolo e con sapienza ed amore infiniti: perciò non si tratta di odiare il mondo in se stesso - come pure ritengono alcune frange estreme, specialmente un certo monachesimo orientale impregnato di fanatica, esasperata esaltazione individualista e asociale - ma semplicemente di non attaccarsi in maniera esclusiva all’amore per le creature, bensì di aver sempre chiaro che l’amore assoluto dell’uomo deve essere diretto solamente al Bene, cioè a Dio.
L’Umanesimo e il Rinascimento, operando una rivoluzione copernicana dal teocentrismo all’antropocentrismo, modificano in parte questa concezione fondamentale: l’interesse prevalente si sposta dalla vita eterna alla vita terrena e, quindi, dalla lotta dell’anima fra il Male e il Bene al legittimo godimento delle gioie mondane; la natura umana è vista ora sotto una luce più positiva, in una prospettiva più fiduciosa, come fondamentalmente buona in se stessa. Ciò avviene parallelamente alla rinascita del classicismo e, quindi, non senza influssi del naturalismo greco-romano, i quali per forza di cose tolgono urgenza e drammaticità alla lotta morale dell’uomo fra due opposti principi etici; e, in un certo senso, incomincia a scalzare il presupposto stesso della metafisica, la subordinazione del mondo di quaggiù a una realtà soprannaturale.
Non è strano, quindi, che, tramontata la visione umanistico-rinascimentale, più per un collasso interno che per fattori esterni, riaffiori il pessimismo antropologico e riprendano fiato le concezioni negative circa la natura umana, risalenti al Sant’Agostino in lotta contro l’eresia pelagiana (tanto ottimistica da negare, in pratica, le conseguenze del peccato originale) e quelle, altrettanto negative, circa la dimensione terrena della vita, risalenti a Platone e al pitagorismo.
La seconda metà del Cinquecento e la prima del Seicento, che assistono alla lotta senza quartiere fra le diverse confessioni religiose scaturite dalla Riforma protestante, aggiungono a questo pessimismo antropologico il senso angoscioso del peccato e della colpa: luteranesimo e calvinismo ne sono addirittura ossessionati; mentre il cattolicesimo, pur sotto l’ombra di una ortodossia tridentina che, per molti aspetti, sembra tornare al pessimismo agostiniano, conserva tuttavia la fiducia nella umana capacità di salvarsi non solo con la fede, ma altresì con le opere e, dunque, con un certo grado di libera volizione, sia pure soccorsa dalla grazia.
Ma è proprio contro questo residuo di fiducia nel fatto che il mondo non sia dominato dal Male e che la natura umana non ne sia irrimediabilmente corrotta, a suscitare, nelle file stesse del cattolicesimo, la reazione del giansenismo: ed è la visione pessimistica dei giansenisti che, a giudizio di alcuni storici della filosofia, si pone come lo snodo decisivo della modernità, come la cifra per comprendere da un lato la lacerazione dell’io tipica dell’uomo moderno, dall’altro la convinzione che l’anima umana sia, in se stessa, dominato dal Male e, nella sua essenza, non riformabile né perfettibile, a meno di un intervento straordinario di Dio.
Scrive Stefano Sonnati nel suo saggio «Il Giansenismo e il concetto moderno dell’io» (in: Folco Zanobini, «Il presente della memoria», Editore Bulgarini, Firenze, 1990, vol. 2, pp. 600-01):

«Nel ‘600 la concezione negativa dell’uomo è propria di un larghissimo ed eterogeneo schieramento che va dal materialista Hobbes a Pascal, dai giansenisti ai gesuiti che arrivano alle medesime conclusioni anti-ottimistiche di Agostino: guardarla realtà effettuale dell’uomo è scoprirla moralmente ignobile  a tal punto da essere scettici nei confronti della possibilità di riformare i costumi. Tutti sembrano d’accordo su questo fato: il male è indice del comportamento  umano e consiste nella base egoistica dell’io.
Corrispettivamente si scopre che il bene non può esistere; che è contro natura;  e, cosa ancor più inquietante, che ciò che ha l’apparenza di bene  (un’azione altruistica e disinteressata) può esser ridotto, con l’analisi introspettiva, anch’esso a male (azione egoistica).
Voler portare l’uomo al bene viene così ad essere un desiderio ingenuo e anche pericoloso, in quanto non tiene conto degli elementi costitutivi della natura umana. La ragione illumina sfacciatamente in campo umano e riconosce in esso i segni indelebili della animalità.  Questo fatto non solo documenta l’avvenuto superamwento dell’equilibrio  quattrocentesco, ma pone in crisi lo stesso ideale di n futuro “Regnum hominis”: anche l’uomo si riduce ad un meccanismo di forze, anche l’uomo appartiene interamente alle leggi della natura che gli si impongono e o determinano. Razionalismo e naturalismo  si condizionano reciprocamente nel senso che la ragione non potrà sostituire alla realtà effettuale umana, una realtà  “più razionale” (o “più giusta” o “più bella”). In altre parole: l’atteggiamento naturalistico e l’uso della ragione “oggettiva” scoprono l’uomo nella sua impudica natura di “animale-razionale” in cui il secondo termine (razionale) non corregge il primo (naturale), ma ne è funzione operativa. Non si tratta più quindi di una razionalità intesa come elemento di equilibrio e di governo sulle forze istintive, ma di una ragione al servizio del proprio egoismo animale.
Che cosa c’entra a questo punto Dio? La sua presenza imbarazzante.  La nuova immagine dell’uomo la esclude. La natura dell’uomo  non è nemmeno corrotta! Che senso ha, ora, affermarlo? Essa è così e basta. C’è un atteggiamento astorico e strutturalistico in Machiavelli:, e così in Guicciardini, in Montaigne, in Pascal; l’uomo è sempre stato così; l’uomo è così (anche se si può essere capaci di vederlo o meno). In tale concezione , Dio non può essere che “absconditus” e il suo legame con questa realtà, così illuministicamente svelata, non può essere che assurdo e paradossale. In questo senso il concetto di “Deus absconditus” è già implicito nel pensiero di Machiavelli, Guicciardini, Montaigne, Cartesio: il giansenismo non farà altro che prenderne atto e avvertirne, nella propria anima religiosa, la risonanza drammatica.
Anche la Chiesa si trova a sperimentare una realtà divaricata ij cui l’antico gioco di cerniera fra il divino e l’umano diventa più difficile.
“Tutti gli uomini si odiano NATURALMENTE a vicenda - scrive Pascal (e si deve far attenzione a quel NATURALMENTE che lascia alla speranza  di cambiamento pochissimo spazio).
Ci si è serviti - continua Pascal – ella concupiscenza per metterla  al servizio del bene pubblico; ma si tratta solo di odio.  Questo fondo malvagio dell’uomo, questo ‘figmentum malum’ è soltanto mascherato, non eliminato” (Pascal, “Pensieri”, 463 BUR).
Ma qui Pascal sbaglia: certo il male non è stato eliminato, ma neppure “soltanto mascherato”. Sia i gesuiti con la loro “direzione dell’intenzione”, sia la borghesia finanziaria e produttrice con la sua congeniale concezione del mondo, cercano di indirizzare le forze naturali del male versoi loro obiettivi. Per la prima volta il male viene visto, baconianamente, come energia naturale che può essere sfruttata.  A questo punto il demonio è davvero penetrato nel mondo e sprigiona tutta la sua forza vitale:  non solo non è possibile sconfiggere il male perché esso risiede in tutte le umane motivazioni, ma il suo stesso aspetto subdolamente si cela dietro i concetto di “meccanismo naturale”.
Vivere secondo morale comporta perdere il contatto col mondo, avvertirsi “fuori” e “senza senso”. L’antico motto di Ovidio (“video meliora, inferiora sequor”: “conosco il bene, faccio ilo male”) che un tempo stava a sottolineare le forze contrapposte della morale e della sensibilità, ora può essere riletto come se davanti a noi avessimo due parallele: il dovere morale da una parte, la pratica razionale e naturale dall’altra. E se non si accetta il “meccanismo naturale “, magari in nome di un imperativo morale, si cade o in un atteggiamento nobile ma senza prospettive, o, peggio ancora, in quella zona alienante e solitaria  così ben descritta nel “Misantropo” di Molière.
“Troppo offesi sono i miei occhi. La Corte, la città intera non mi offrono che spettacoli tali da farmi montare la bile, e davvero mi sento prendere dal più tetro e profondo  malumore, quando vedo gli uomini comportarsi  fra di loro così come fanno. Dappertutto non scorgo che bassa adulazione, ingiustizia, interesse, tradimento, furberia: non ce la faccio più, divento rabbioso: ho deciso di romperla con tutto il genere umano” (Molière, “Il misantropo”, p. 12 BUR).
Colui che così si indigna e si addolora è il “misantropo” Alceste: la sua “coscienza infelice”, che in altri tempi avrebbe potuto essere “coscienza morale”, è, nel contesto moderno del Seicento, incapacità di vivere  e di comprendere il mondo. Ad Alceste, odiatore del genere umano, incapace di fare il male (e quindi di fingere, di simulare, di fare il proprio interesse) si contrappone la saggezza tutta moderna di Filinto che “non vuole raddrizzare le gambe all’universo” e che dice ad Alceste:
“Predo tranquillamente gli uomini come sono e mi abituo a tollerare quello che fanno. E credo che, a Corte come in città, la mia flemma non sia meno filosofica della vostra bile” (p. 14 BUR).
E alla curiosità di Alceste che un po’ meravigliato gli chiede:
“.. e se capitasse per caso che un amico vi tradisca, che tramino qualcosa contro di voi… lascereste far tutto senza sdegnarvi?”Filinto così risponde:
“Mio caro, io considero questi difetti di cui vi lamentate come vizi impliciti nella natura umana. E, tutto considerato, non mi sento maggiormente offeso dal fatto di vedere un uomo furbo, avido e ingiusto che da quello di vedere degli avvoltoi affamati su di un carnaio, delle scimmie maligne o dei lupi rabbiosi” (p. 15 BUR).
Il male, quindi, non si sconfigge con l’indignazione morale, piuttosto lo si potrà regolare (e persino utilizzare) con la ragione. I meccanismi di produzione borghese, proprio in questo, hanno il loro successo: non vanno contro vento ma si immettono nelle correnti, continue e quindi affidabili, dell’egoismo umano. La società borghese non si fonda sulla giustizia ma sulla ragione.  Le due cose sono assai differenti: la giustizia tende a imporsi a scapito delle spinte egoistiche, la ragione preferisce  servirsene.»

In effetti, se la cultura del XVII secolo, influenzata dalla Nuova Scienza e sintetizzabile nel baconiano «sapere è potere», si pone con spregiudicata indipendenza di fronte al male e non arretra davanti alla prospettiva di volgerlo e utilizzarlo a favore dell’uomo, questo avviene perché essa, in fondo, non vede più il male come un Male assoluto e metafisico, ma piuttosto come un ostacolo, un impedimento al dispiegarsi delle potenzialità schiettamente umane.
È il naturalismo antico, che sta tornando; è la filosofia di Telesio, e poi di Bruno e di Campanella, che batte alle porte; non senza mescolanze con il pensiero magico - di Paracelso e di John Dee, fra gli altri -, secondo il quale il mago è colui che sa farsi obbedire dalle forze della natura, così come dagli spiriti e dagli esseri sottili.
Non è questa anche la filosofia di Prospero, il protagonista de «La Tempesta» di Shakespeare? Ed è poi molto distante da quella del protagonista del «Doctor Faustus» di Christopher Marlowe, opera scritta negli stessi anni del capolavoro shakespeariano?
E i suoi predecessori non sono forse nella varia umanità descritta da Boccaccio e da Chaucer; non sono forse individui come Nastagio degli Onesti («Decameron», V, 8), che sfrutta persino una apparizione infernale, terribile monito della giustizia divina, per volgere a suo favore una situazione totalmente laica, cioè per piegare ai suoi desiderî una ragazza che non voleva cedere alla sua corte insistente?
L’uomo faustiano, che vende l’anima al Diavolo in cambio di potenza, ricchezza e giovinezza, non rappresenta che l’estensione e l’esasperazione di questo atteggiamento mentale, basato sulla pretesa arrogante di strumentalizzare qualsiasi cosa al servizio dei disegni umani, volti a realizzare un dominio mondano.
Resta un solo, ultimo ostacolo da abbattere: l’idea del Male con la “m” maiuscola; e la modernità lo compie risolutamente, considerando come male non le tragiche debolezze dell’uomo, ma quelli che gli appaiono come gli “errori” della natura.
Si pensi, ad esempio, alla corrente marina fredda che lambisce le coste siberiane del Mar del Giappone: perché non costruire una immensa diga nello Stretto di Sakhalin, sbarrandole così la strada e costringendo la corrente calda del Kuro Shivo a ristagnare, mitigando il clima della Siberia Orientale e rendendola coltivabile?
E perché negare a una donna sessantenne le gioie della maternità, posto che ella lo desideri fermamente, visto che la scienza moderna è in grado di farlo?
A ben guardare, il tratto distintivo dell’uomo moderno, ossia dell’uomo faustiano, non è tanto la spregiudicatezza con cui vuole servirsi del suo sapere per realizzare la manipolazione illimitata degli enti, ma la perdita di ogni senso del mistero e, nello stesso tempo, di ogni senso del limite.