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Bisogna guardare in faccia il senso di colpa per trovare pace nella redenzione

di Francesco Lamendola - 09/12/2011


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È possibile vivere portandosi dietro, come un macigno, il proprio senso di colpa; trascinandoselo appresso come un nodo irrisolto, come un grido senza risposta?
Prima di tentar di rispondere a questa domanda, non sul piano psicologico, cioè particolare, ma su quello complessivo, cioè filosofico, domandiamoci: che cos’è il senso di colpa?
Sappiamo che ne esistono di moltissimi tipi; tutti riconducibili, però, essenzialmente, a due categorie: quello dovuto a situazioni o atti specifici, a scelte fatte o non fatte, ad azioni compiute od omesse; e quello esistenziale, che non sembra riconducibile a cause specifiche, anzi, che non sembra nemmeno avere delle cause vere, almeno in apparenza: più sottile, quest’ultimo, anche più insidioso, più inafferrabile e, perciò, alla lunga, più logorante e distruttivo.
Partiamo dalla prima casistica, la più semplice (più semplice sul piano della comprensione, s’intende): il senso di colpa che si può ricondurre a qualche fattore ben preciso, per esempio al caso di un uomo che, guidando la macchina, abbia provocato o anche subito un grave incidente, dal quale è uscito vivo, ma in cui una persona a lui cara ha perduto la vita.
Beninteso, le cose possono essere anche più sfumate: se una persona cara si suicida, per esempio, i suoi parenti ed amici si possono interrogare se abbiano compreso veramente il suo dramma, se abbiano fatto tutto ciò che potevano per aiutarla, se, insomma, non abbiano omesso di fare quanto sarebbe stato nelle loro possibilità, per prevenire quella tragedia.
Il senso di colpa, però, si insinua come un ospite indesiderato anche dove non sembrerebbero esistere le condizioni perché riesca ad intrufolarsi: per esempio, nel caso della morte naturale di una persona cara, che pure sia stata assistita con affetto e per la quale si sia dato fondo a tutte le riserve di amore, dedizione, disponibilità; nondimeno, succede che anche in un caso del genere i sopravvissuti si sentano in colpa.
E non è davvero necessario scomodare Freud e gli abissi tenebrosi dell’inconscio, ipotizzando che il senso di colpa nasca da un sentimento ambivalente, che sembrava amore ma era, in realtà, odio per quella persona; semplicemente, può darsi che una persona molto scrupolosa e molto coinvolta affettivamente si senta in colpa, così, senza una ragione razionale, a ben guardare non tanto per aver trascurato di fare qualcosa, ma proprio per il fatto di essere sopravissuta, mentre colui o colei che essa amava, ha varcato le porte della morte.
Oppure prendiamo il caso di una donna che sia stata lasciata dal marito e che si sente in colpa perché non può offrire al figlio, rimasto con lei, una famiglia “normale”, cioè simile a quella dei suoi compagni di scuola, con la presenza di entrambi i genitori: certo si tratta di un senso di colpa razionalmente poco giustificata, tuttavia si tratta di casi relativamente frequenti.
Infatti: cosa c’entra la ragione, con certe manifestazioni imprevedibili dell’anima umana? Sul giornale di oggi si riporta la notizia che, in un paese a pochi chilometri da qui, un ragazzo di diciotto anni si è suicidato, impiccandosi nella sua camera. Il padre, al ritorno dal lavoro, lo ha trovato così. Pare che fosse un ragazzo vitale, senza problemi, con molti interessi e che avesse anche la fidanzatina; si dice anche, però, che aveva molto sofferto per la separazione dei genitori, divenuta definitiva. Come si sentiranno adesso questi ultimi, se pure è vero che la loro decisione di separarsi è all’origine del gesto del loro figlio? Sono drammi incommensurabili; e l’apparente sproporzione fra la causa e l’effetto non fa che renderli ancora più indecifrabili, ancora più duri da accettare, per quanti li vivono personalmente.
Anche più delicato di una separazione è il caso di una mamma cui nasca un bambino portatore di handicap, più o meno grave: quasi sempre - anzi, potremmo togliere il “quasi” -, ella si sente inconsciamente in colpa per la condizione del bambino, anche nel caso in cui, durante la gravidanza, non vi fossero stati segnali premonitori e se tutto aveva fatto pensare ad un parto assolutamente normale.
Sensi di colpa possono nascere dalla scoperta dell’orientamento omosessuale di un figlio o di una figlia: è abbastanza frequente che i genitori si sentano in colpa e si domandino spasmodicamente se hanno sbagliato qualcosa, se sono responsabili di qualcosa; e accade che le tensioni insorte fra loro arrivino al punto di compromettere seriamente il loro rapporto di coppia, così come nel caso della nascita di un figlio affetto da malformazioni o handicap.
In tutti questi tipi di situazione è possibile individuare dei fattori precisi che hanno scatenato la sindrome del senso di colpa e, a determinate condizioni (soprattutto che non vi sia nel soggetto una debolezza esistenziale troppo grave, magari unita a depressione), e se certi psicologi non faranno troppi danni, aggravando il malessere esistente con certe scriteriate strategie “di guarigione”, è possibile immaginare un processo di redenzione e di liberazione.
Ad ogni modo, questa casistica è riconducibile ad eventi specifici del vissuto soggettivo e riguarda, come abbiamo accennato, la psicologia: non se ne può parlare così, in generale, perché ogni singolo caso è a sé stante ed ogni individuo ha una storia unica e irripetibile.
Qui, pertanto, ci limiteremo a prendere in esame la seconda tipologia: quella in cui il senso di colpa appare slegato da singoli eventi o situazioni e grava cupamente sull’anima come una cappa vischiosa, ma impalpabile; una variante di esso è quella che si maschera, per così dire, dietro angosce e terrori catastrofici di portata universale: il possibile scoppio di una terza guerra mondiale, la caduta di un meteorite gigantesco sulla Terra; la fame nel mondo e la malattie infettive, che mietono milioni di vittime ogni anno.
Ora, la domanda che vogliamo porci è: che cosa significa questo senso di colpa impalpabile, sfuggente, e tuttavia radicato ed estremamente angoscioso; da dove viene, quale significato svolge nella vita dell’anima; e come se ne può guarire?
Osserviamo, innanzitutto, che il senso di colpa, nella cultura occidentale moderna, si lega strettamente con l’idea di una responsabilità morale individuale, intesa in senso totalmente laico e secolarizzato: se ho commesso qualcosa di male mi sento in colpa, se no, no; e a stabilire se ho fatto qualcosa di male sono le regole morali che io, soggettivamente, mi sento di condividere con il resto della società. Pertanto, se una determinata regola sociale non trova il mio assenso ed io la violo, non mi sento in colpa; o, almeno, non dovrei sentirmi in colpa.
Non è sempre stato così: per secoli e secoli, gli uomini si sentivano tenuti a rispettare un codice etico che non era di origine umana, ma soprannaturale; per cui, violandolo, commettevano una rottura dell’ordine divino e si sentivano in peccato.
Bisogna fare, perciò, un minimo di chiarezza concettuale, distinguendo fra peccato, colpa e senso di colpa.
Il concetto di peccato è legato all’etica cristiana: corrisponde a una rottura dell’ordine voluto da Dio, dunque ad un allontanamento da Lui; ciò che diventa più chiaro se si pensa che, per il credente, la libertà morale non è quella di fare ciò che si vuole, ma ciò che è giusto davanti a Dio, laddove è Dio stesso che si fa garante di quello che è giusto e di quello che è sbagliato.
La distinzione fra colpa e senso di colpa è tutta interna al concetto laico dell’etica. La colpa è la violazione di una legge, sia essa giuridica o morale, in una prospettiva laica e immanente; il senso di colpa è il gravare, sulla coscienza, della responsabilità per una colpa, vera o presunta, che si è commessa individualmente o, in certi casi, collettivamente. Un tedesco, per esempio, può sentirsi in colpa per i crimini del nazismo: a forza di sentirsi ripetere che la Germania, sotto quel regime, si macchiò di colpe imperdonabili, può succedere che un individuo, benché nato in tempi recenti, introietti quel bagaglio di responsabilità e, con esso, anche il relativo senso di colpa.
Il credente peccatore non si sente in colpa: prova rimorso, il che è diverso; e dal rimorso nasce il bisogno di riconciliazione con Dio e con il prossimo.
Quanto al peccato originale, che è di ordine collettivo ed inerisce alla natura umana in quanto tale, l’accento che viene posto su di esso dipende dalle diverse  confessioni religiose: massimo nel calvinismo e, in generale, nel protestantesimo, è certamente meno angoscioso nel cattolicesimo e anche nelle Chiese orientali.
I Paesi del Nord Europa (con la loro appendice statunitense), luterani o calvinisti, sono quelli che maggiormente hanno risentito della sindrome del senso di colpa ossessivo, che è di matrice veterotestamentaria, dunque giudaica; però, essendo anche quelli nei quali si è verificato prima il processo di secolarizzazione e l’eclisse del sacro, in nome di un “nomos” puramente laico e razionale, sono anche quelli ove il senso di colpa ha trovato il terreno più idoneo per crescere e svilupparsi, fuori da qualsiasi prospettiva di redenzione.
Questa tematica è fortissimamente presente nella filosofia, nella letteratura, nel teatro e nel cinema dei Paesi protestanti: da Ibsen e Strindberg, da Kierkegaard a Bergman, il senso di colpa domina ovunque opprimente, e non sempre appare riconducibile a una causa ben definita.
Nel dramma di Ibsen «Rosmersholm», ad esempio, il pastore Rosmer sceglie il suicidio, istigando anche l’amica Rebecca a fare altrettanto, per purificarsi non solo dal senso di colpa dovuto al suicidio della moglie, ma anche da quello dovuto al pensiero di non essere stato un buon maestro per i suoi parrocchiani, di non aver saputo educare gli altri al bene, secondo quanto la sua idea del cristianesimo gli imponeva di fare.
Invero, nell’etica laica non esiste il concetto di redenzione: chi sbaglia paga e, dopo che ha pagato, i suoi conti sono chiusi, le sue pendenze risolte; il concetto di redenzione è frutto di una impostazione religiosa della vita, particolarmente cristiana: niente cristianesimo, niente redenzione. Per la mentalità secolarizzata, del resto, non c’è bisogno di alcuna redenzione: l’uomo si redime da sé, facendo il bene; oppure contrae un debito con la propria coscienza e con la società, facendo il male; saldato il debito, le cose tornano a posto.
Facile a dirsi; però, di fatto, le cose vanno altrimenti: l’individuo ateo o agnostico, che abbia commesso una cattiva azione, sente il rimorso, anche se essa non sia stata scoperta; tuttavia, non possedendo una relazione con il soprannaturale, o rifiutandola, egli rifiuta anche la possibilità della redenzione e, pertanto, della riconciliazione, se non altro con se stesso.
Il limite di qualunque etica laica è che essa presuppone un rapporto puramente razionale e utilitaristico con la propria coscienza: se si agisce bene si è in pace col mondo, se si agisce male, ci si espone alla pena: sembra tutto limpido e chiaro; ma il bisogno della trascendenza è interno all’uomo, è costitutivo dell’essere umano, dunque al fondo di ogni individuo vi è l’oscura consapevolezza che non dipende dalla propria coscienza rimettere il male commesso, ma solo da una istanza superiore, con la quale è necessario porsi in relazione.
Ma porsi in relazione con una istanza superiore, significa anche riconoscere la propria finitezza, la propria piccolezza: fare atto di umiltà ed ammettere che l’uomo non può fare tutto, men che meno perdonarsi da solo, quando abbia compiuto il male autentico, ossia l’azione maligna deliberata e intenzionale, finalizzata al danno dell’altro.
Il fatto che l’uomo moderno, in nome della propria razionalità e delle “conquiste” realizzate mediante il progresso tecnico e scientifico, abbia soppresso, o almeno cercato di sopprimere in se stesso, questa componente fondamentale della propria natura, cioè il bisogno della trascendenza, ha avuto come conseguenza un corto circuito della vita dell’anima, incapace di giustificarsi, perdonarsi e redimersi da se stessa.
E l’impotenza della scienza moderna, non diremo a curare, ma anche soltanto a capire la sofferenza interiore, a cominciare dal senso di colpa, appare evidente già dal vocabolario che essa adopera: gli psicologi “laici”, infatti, si guardano bene dal parlare dell’anima, ma solo della psiche: e ritengono che, una volta individuato il punto in cui la psiche ha deviato dalla strada giusta, sia possibile restituire pace e serenità all’individuo, proprio come uno studente di matematica che, riuscendo a risolvere il problema assegnatogli dal professore, merita un voto positivo.
Il problema è che non si può ingannare la natura umana: se si nega quello che ad essa è essenziale, compreso il bisogno di redenzione, la si condanna a qualcosa di molto simile all’inferno…