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Il culto ossessivo della forza fisica nasce dal delirio di manipolazione degli enti

di Francesco Lamendola - 09/12/2011





Si sarebbe portati a pensare che nulla sia più antico del culto della forza, almeno per quel che riguarda l’universo maschile, per cui non vi sarebbe nulla di più naturale del suo riemergere nell’era della tecnica, quasi fosse un ritorno a modelli culturali originarî; e, semmai, resterebbe “solo” da spiegare come mai esso abbia contagiato anche l’universo femminile, seducendo numerose donne, fino ad assorbirle con la serietà di un impegno totale.
In realtà, le cose non sono così facili come può sembrare; e basta riflettere un poco, spingendo lo sguardo oltre la superficie, per rendersene conto.
Anzitutto, quello cui stiamo assistendo, nelle varie forme della “scultura corporea” o pratica del boy building, non è tanto una PRATICA delle forza, quanto una sua ESPOSIZIONE VIRTUALE: quel che si vede sono le masse muscolari, più o meno naturali, più o meno artificialmente sviluppate; ma che ad esse corrisponda realmente una forza fisica, questo è tutto da dimostrare.
Esistono, anzi, svariati indizi i quali suggeriscono che i nostri nonni, più piccoli, più bassi di statura, meno atletici all’apparenza, fossero, in realtà, dotati di una forza fisica assai maggiore, non solo rispetto a quella dell’uomo medio (e della donna media) delle ultime generazioni, ma anche rispetto a quella di molti praticanti sportivi, inclusi i bodybuilders.
Certo, i nostri nonni non andavano a fare allenamento in palestra; non dedicavano molte cure all’avvenenza del corpo o alla sua apparente robustezza: essi ERANO naturalmente robusti, per il genere di vita che facevano, per il minore uso delle macchine in sostituzione delle loro braccia e delle loro gambe; perché si spostavano a piedi o in bicicletta, anziché stare seduti dietro un volante; per l’alimentazione più sana che assumevano; per l’aria più pura che respiravano e per il ritmo delle stagioni che assecondavano, senza condizionatori d’estate e con un sobrio riscaldamento l’inverno (per cui si ammalavano meno facilmente di noi); perché si tenevano lontani dall’abuso dell’alcool e del fumo; per i ritmi di vita molto più naturali che caratterizzavano le loro giornate: sveglia all’alba e a letto al tramonto, nella bella stagione come nella brutta.
In effetti, oggi non abbiamo alcuna certezza che, all’ostentazione delle voluminose masse muscolari, magari ottenute per mezzo di steroidi e anabolizzanti, corrisponda davvero una forza fisica equivalente, né, tanto meno, una adeguata resistenza alla fatica, al lavoro prolungato, insomma alla capacità di sviluppare una durata nel tempo della forza muscolare.
Si direbbe, anzi, che l’ostentazione di un fisico particolarmente muscoloso sia il surrogato di una vera prestazione fisica in termini di lavoro, di sforzo, di fatica; che sia l’equivalente della strategia di seduzione oggi assai diffusa, specialmente da parte delle donne, che si differenzia da quella di una o due generazioni or sono per il fatto che non mira alla conquista effettiva, ma soltanto alla gratificazione narcisistica dell’io mediante una conquista virtuale, vale a dire mediante una conquista che trova la propria soddisfazione non già nel consumare un rapporto con l’altro, e sia pure, magari, di tipo platonico, ma soltanto nel suscitare l’altrui desiderio, senza alcuna intenzione di concedersi , né di concedere all’altro la possibilità di farsi avanti.
In questo senso, l’odierna ossessione della forma fisica non esprime un reale desiderio di possedere la forza, ma semplicemente di farla supporre, mostrandone, anzi, ostentandone le apparenze: insomma un narcisismo tutto di testa, tutto virtuale, senza sviluppi o compimenti nella realtà concreta.
A questo mira la ricostruzione radicale della propria immagine fisica, ottenuta per mezzo di una pratica compulsiva del potenziamento muscolare: a idealizzare il proprio corpo, a renderlo il più possibile simile ad una statua; tanto è vero che la cura del tono muscolare si accompagna alla cura, altrettanto ossessiva, di renderne liscia la superficie, mediante una meticolosa depilazione, un uso abbondante di creme e prodotti abbronzanti, e infine, se necessario (cioè, se giudicato tale ai fini della costruzione del corpo-statua), del ricorso alla chirurgia estetica.
In secondo luogo, si direbbe che quel che si cerca, nelle pratiche culturiste, non sia tanto il raggiungimento della forza fisica, quanto l’inebriamento che discende dalla capacità di ridisegnare completamente il proprio corpo, di crearlo quasi una seconda volta, mediante un disegno basato sulla possanza muscolare, che sviluppa al massimo delle possibilità latenti; insomma esaltandosi davanti alla propria capacità di correggere la natura, di fare meglio di essa, di mostrarsi migliori arcihitetti e più abili scultori.
In questo senso, non si tratta che di uno degli aspetti della tendenza, tipica dell’uomo moderrno, alla manipolazione degli enti; della frenesia attivistica, della incessante volontà di plasmare, modellare, modificare, disfare e ricostruire le cose, le situazioni, lo stesso ambiente terrestre; di atteggiarsi non solo a padrone e signore assoluto della creazione, ma anche ad investirsi del ruolo di nuovo creatore, di nuovo pianificatore dell’ordine cosmico, secondo i dettami della Ragione calcolante e strumentale e nell’otica del Progresso illimitato.
Per l’uomo moderno, contemplare il reale e riconoscerne l’intima saggezza equivale, più o meno, a una frustrazione intollerabile, a uno smacco cocente, a un oltraggio alla propria capacità decisionale; un ambiente urbano che non si rinnovi continuamente e incessantemente, per esempio, sarebbe sinonimo di trascuratezza, inerzia, neghittosità: i vecchi edifici DEVONO cedere il posto ai nuovi, le vecchie strade alle nuove, i vecchi servizi ai nuovi, non solo sulla spinta di reali esigenze nuove, di reali bisogni sopravvenuti, di reali energie che emergono e che prima non esistevano o erano ancora troppo deboli, ma anche soltanto per mostrare l’intraprendenza, l’audacia, il dinamismo degli urbanisti, degli architetti, degli amministratori pubblici.
Si tratta della stessa logica per cui un determinato prodotto presente sul mercato, fosse pure un prodotto farmaceutico, di tanto in tanto in tanto deve essere ritirato e cancellato dal listino, non perché ne sia stato messo a punto uno migliore da quella casa produttrice, ma semplicemente perché bisogna dare l’idea del continuo rinnovamento, della incessante ricerca, del perfezionamento senza soste e senza incertezze; magari per sostituirlo con un prodotto del tutto equivalente, se non addirittura meno efficace e, naturalmente, più costoso.
Le cose, in regime capitalista, devono essere consumate in fretta e devono essere continuamente rimpiazzate da altre cose, più “moderne”, teoricamente (ma solo teoricamente) più funzionali; e ciò vale per ogni ambito della vita e dell’economia, senza eccezione alcuna.
Nel mondo della scuola, per fare solo un esempio, di tratto in tratto, ma ad intervalli sempre più ravvicinati, si susseguono nuove disposizioni, nuove circolari, che rimettono in discussione le pratiche precedenti e le sostituiscono con nuovi atti formali, con nuovi schemi di programmazione, con nuove indicazioni per l’aggiornamento dei docenti; perfino il linguaggio specifico viene rinnovato, come se cambiare i nomi alle cose significasse anche un effettivo cambiamento dei contenuti e, soprattutto, un effettivo miglioramento della qualità del servizio che viene offerto alla società: ma tant’è, diceva ne «Il Gattopardo» il vecchio e disilluso principe di Salina davanti all’irruzione della modernità, «bisogna che tutto cambi, perché tutto resti come prima».
Ed è così che si operano grandiose trasformazioni del paesaggio, si costruiscono dighe altissime e perfette, come quella del Vajont, ma senza tenere in alcun conto l’impatto ambientale ed il contesto idrogeologico; oppure, come hanno fatto i governi francesi negli ultimi decenni, si realizzano decine e decine di impianti nucleari per la produzione di energia, e poi ci si trova costretti a chiuderli, per l’evidente sproporzione tra offerta e domanda energetica e altresì per l’evidente pericolosità da essi rappresentata.
Prima si agisce, poi ci si chiede se sia utile, necessario e intelligente; prima si irrora la terra con milioni di tonnellate di sostanze chimiche, diserbanti, antiparassitarie e fertilizzanti; poi ci si chiede se ne valeva la pena, davanti ai danni gravissimi - e forse irreparabili - provocati all’ambiente, all’ecosistema e alla stessa salute dell’uomo.
Ora, tornando al corpo umano, si direbbe che le dinamiche fondamentali siano esattamente le stesse, che sia in gioco, anche qui, la volontà di creare una nuova geografia, di disegnare una nuova realtà sensibile, in sostituzione di quella naturale, per affermare la capacità dell’uomo (e della donna) di farsi padroni incontrastati del proprio destino.
Così come quanti pianificano una linea ferroviaria ad alta velocità non si fanno scrupolo di traforare per chilometri e chilometri le più alte montagne, di compromettere la vita vegetale e animale di intere vallate, di turbare irreparabilmente l’equilibrio di antichi insediamenti umani, e ciò solamente per far viaggiare le merci con qualche ora di vantaggio rispetto alla viabilità precedente; allo stesso modo il praticante o la praticante di body building non esita a modificare drasticamente la propria struttura corporea, ad assumere, in dosi massicce, sostanze chimiche dannose per l’organismo, a sottoporsi a quotidiani, defatiganti esercizi che non recano salute al fisico, né serenità allo spirito, ma che potenziano in maniera esasperata, talvolta mostruosa, l’estetica del corpo, inseguendo la smania di agire, di manipolare, di affermare la propria signoria.
Ogni corpo ha una storia, certo; ma che storia è quella che possiamo leggere su di un corpo le cui masse muscolari siano state gonfiate oltre misura, fino a ridurlo ad una caricatura di se stesso; per non parlare di quei corpi femminili che sempre più vengono resi somiglianti a dei corpi maschili, pur se generose iniezioni di silicone, gonfiando abbondantemente il seno, tentano di correggere in parte, ma aggravando la disarmonia del’insieme, un tale effetto?
Non crediamo che abbia da raccontarci una storia moto felice: quante ore che si sarebbero potute dedicare all’amicizia, all’amore, alla creatività, alla cultura, all’arte, ad un sano movimento all’aria aperta, sono state invece sacrificate in un luogo chiuso, con tensione spasmodica, con accanimento compulsivo, con tristezza, forse, certamente con poca gioia: e tutto per realizzare un corpo sformato, disarmonico, sproporzionato, spesso addirittura repulsivo…
Inoltre, come non vedere che in questa aberrazione estetica, in questa incapacità di percepire la propria bruttezza, anzi, in questo gloriarsene ed ostentarla, si esprimono una grave perdita di consapevolezza di sé e della realtà, uno smarrimento di saggezza elementare, uno straniamento dal proprio equilibrio esistenziale?
In una famosa attrice ormai avanti negli anni, che si modella e rimodella il viso con pratiche chirurgiche sempre più invasive, fino a trasformarlo in una maschera deforme e ghignante, in una contraffazione di se stesso; in queste giovani - e meno giovani - fanatiche del bodybuilding, le quali, a forza di sviluppare le masse muscolari, trasformano la propria grazia naturale in deformità, la propria avvenenza in qualcosa di ripugnante, la propria femminilità in una versione sgradevole del corpo maschile, quanto è rimasto integro e quanto è andato perduto in termini di buon senso, di sano gusto estetico, di retta e fondata percezione di sé?
E quanto pesa la mancata accettazione dei limiti posti dalla natura, a cominciare dal processo di invecchiamento delle cellule; quanto pesa l’incapacità di vivere con serenità la propria condizione creaturale, finita, anche fragile, per certi aspetti, in luogo della quale si vogliono costruire dei Superman o delle Wonder Woman, che altro non sono se non la goffa e fasulla riproduzione di un originale ancor più fasullo, quello dei cartoni animati e della televisione?
Quanto pesa, in definitiva, la mancata accettazione di sé, del proprio essere, del proprio corpo, della propria interiorità?
«Ma perché non dovrei rifarmi il naso (o il seno, o il sedere, o magari i polpacci), se questo mi farà star meglio con me stessa?», si obietta; oppure: «Perché mai non dovrei cercar di assomigliare a Sylvester Stallone in personaggi grintosi e supermachi, come Rocky o Rambo, se questo mi aiuterà a migliorare la mia autostima?».
In fondo, siamo sempre lì: «Perché no?», «Pourquoi-pas?»: tale è lo slogan incessante della società consumista; se una cosa è fattibile, perché non farla? Il punto, però, non è questo: si tratta di una falsa domanda; il punto vero è piuttosto: se ho bisogno di rifarmi il naso per sentirmi bene, chi sono io veramente per me stesso e quanto sono capace di accettarmi e di volermi bene?