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Guatemala: memoria di un colpo di Stato

di Dagoberto Bellucci - 09/12/2011

Fonte: dagobertobellucci


 

 ”Quelli che hanno servito la causa della rivoluzione hanno arato il mare”
 

( Simon Bolívar )

 

 

 

 

 

 

 

La storia dell’America Latina degli ultimi due secoli appare significativamente speculare a quella dell’espansione continentale degli Stati Uniti rappresentando i paesi latinoamericani quel grande “cortile di casa” che la Dottrina Monroe aveva disegnato per i piani geopolitici e le coordinate strategiche del nascente imperialismo a stelle e strisce.

 

Alla fine del XIXmo secolo gli ultimi bastioni coloniali spagnoli sul continente, Cuba e Puerto Rico, cadranno anch’essi sotto il dominio statunitense.

 

Durante tutta la prima metà dell’Ottocento era ancora la Gran Bretagna a dominare il continente latinoamericano  malgrado alcuni tentativi di altri pretendenti europei fra i quali spiccava la Francia inseritasi all’epoca ad Haiti, nelle Antille, in Guyana e soprattutto in Messico.

 

“Gli USA – scrive Paco Pena (1) – cercarono invano durante la prima metà del XIX secolo di contrastare l’egemonia britannica. Si accontentarono –in mancanza dei mezzi per una politica più ambiziosa – dell’assorbimento dei territori adiacenti alla costa est. L’ora degli anschluss e degli interventi militari non era ancora arrivata.

Questa si sarebbe inaugurata nel 1835, quando l’ondata espansionistica statunitense inghiottì metà dei territori appartenenti al Messico. Il Texas si rese autonomo dalla corona di Spagna nel 1835 e aderì agli USA nel 1848. Quello stesso anno vennero annessi dagli USA la California e il Nuovo Messico. Gli USA si fecero poi cedere nel 1846 dal Regno Unito l’Oregon nel nordest e nel 1867 acquistarono l’Alaska dalla Russia.”

 

Il programma egemonico statunitense venne attuato durante tutto il XIXmo secolo sulla base della Dottrina fissata dal Presidente James Monroe. Questi, riprendendo un certo numero di idee già enunciate dai suoi predecessori Washington e Hamilton, annunciò che gli Stati Uniti si sarebbero astenuti dall’immischiarsi in qualunque conflitto fosse scoppiato tra le potenze europee riservandosi un atteggiamento di assoluta neutralità.

 

Come si vedrà, a partire dal XXmo secolo, anche questa “dottrina” verrà abbandonata.

 

In occasione del settimo messaggio annuale rivolto alle Camere riunite, il 2 dicembre 1823, Monroe mise deputati e senatori al corrente delle conversazioni avute con i rappresentanti di Russia e Gran Bretagna sostenendo che “Questi sono stati avvertiti che gli USA considerano le nazioni latinoamericane come libere e indipendenti e che di conseguenza non possono diventare oggetto di una futura colonizzazione da parte di alcuna potenza europea. Considereremmo ogni tentativo da parte loro di prendere qualche porzione di questo emisfero come pericoloso per la nostra pace e la nostra sicurezza.” (2)

 

Ovviamente Monroe si guardò bene dal dichiarare quelle che erano le reali intenzioni statunitensi e le mire che, da allora in poi, gli USA avrebbero riservato ai paesi latinoamericani i quali sarebbero ben presto diventati il principale bersaglio della politica estera a stelle e strisce.

 

Messico prima (una nazione “troppo lontana da Dio e troppo vicina agli Stati Uniti” come osservarono immediatamente i suoi abitanti) e paesi caraibici e sud America in sequenza caddero presto vittime dell’espansionismo di Washington.

 

I dirigenti della politica estera statunitense avrebbero trovato un “alleato” formidabile ed assieme uno strumento di pressione costante nei confronti dell’America Latina (e del resto del pianeta tra l’altro) nell’anticomunismo che, a cominciare dall’immediato secondo dopoguerra mondiale, diventerà il leit-motiv della strategia imperialista a stelle e strisce.

 

La “fobia” comunista assunse negli Stati Uniti i crismi di una autentica crociata ideologica – espediente grazie al quale Washington poteva continuare a mantenere sotto pressione gli Stati alleati e quelli considerati amici come avverrà per tutto il periodo della guerra fredda – raggiungendo il paradosso nella “caccia alle streghe” interna lanciata dal senatore Joseph Mc Carthy.

 

Il Maccartismo sul piano interno accrebbe negli americani la sensazione di sentirsi sotto costante minaccia: il pericolo comunista, utilizzato come una specie di virus letale, venne iniettato in massicce dosi nel corpo sociale dell’America provocando una autentica ondata reazionaria che darà alle amministrazioni gli strumenti per garantirsi una politica estera fondata esclusivamente sull’ingerenza palese, sull’esportazione del caos, sulla strategia della tensione più estrema  che ben presto si sarebbe palesata, soprattutto nei vicini paesi latinoamericani, attraverso il sistematico ricorso ai metodi della violenza politica, delle operazioni coperte, dei complotti orditi dalla CIA e dalle altre agenzie d’intelligence di Washington (*) non limitandosi ad influenzare con mezzi illeciti la vita politica delle nazioni ma utilizzando qualunque strumento pur di preservare al potere caste di politici o militari infeudati, corrotti e ricattabili, legati alla Casa Bianca.

 

La menzogna, il malaffare, le tangenti come arma di potere e infine la violenza politica, l’uso spregiudicato della repressione poliziesca e militare saranno sempre più spesso, durante tutti gli anni della Guerra Fredda, i principali sistemi usati dagli Stati Uniti per “normalizzare” l’America Latina; il tutto ovviamente utilizzando pretestuosamente il ricatto psicologico della “minaccia comunista” incombente.

 

Come sostenne chiaramente il Generale Douglas Mac Arthur – che nessuno potrà certamente sospettare di particolari “simpatie” comuniste -  in occasione di un discorso tenuto nel 1957: “Il nostro governo ci ha tenuti in un perpetuo stato di paura, tenuti in una continua esaltazione di fervore patriottico, al grido di una grave emergenza nazionale. C’è sempre stato qualche terribile male interno o qualche mostruoso potere straniero che stava per inghiottirci se non vi avessimo ciecamente fatto fronte fornendo gli esorbitanti fondi richiesti. Eppure, in retrospettiva,  questi disastri sembra non si siano mai verificati, sembra non siano mai stati veramente reali.” (3) 

 

Sarà proprio l’anticomunismo, questa vera e propria fobia, autentica febbre che contagiò improvvisamente un’intera nazione e che sarebbe stata instillata in dosi abbondanti tra i suoi abitanti dal Governo, a rendere la politica estera, da allora in poi, fautrice di qualunque azzardo politico nei confronti del resto del pianeta: si entrava in quella “zona d’ombra” di cui parlava spesso l’ex Segretario di Stato USA  Henry Kissinger riferendosi al mondo dei servizi, dei complotti, della politica “undercover”.

 

Il governo di Washington ricorrerà, specie in America Latina, sempre più spesso ai colpi di Stato per mantenere salde le proprie posizioni politiche, preservare i propri interessi economici e commerciali, mantenere in stato di sudditanza le nazioni ispaniche del Nuovo Continente.

 

Il colpo di Stato del Guatemala del giugno 1954 è, sotto molti punti di vista, da considerarsi come un esempio da manuale: la CIA intervenne per abbattere il legittimo governo progressista , eletto democraticamente tre anni prima, guidato da Jacobo Arbenz Guzmàn.

 

In Guatemala dieci anni prima (1944) una rivolta di studenti, contadini e ufficiali aveva rovesciato il governo dittatoriale di Jorge Ubico sostenuto da Washington e soprattutto dalla potente compagnia multinazionale della United Fruit ( “Mamita Yunai” come l’avevano ribattezzata i guatemaltechi).

 

La storia e i delitti commessi dalla United Fruit Company nel continente latinoamericano rappresentano chiaramente la vera faccia del capitalismo, i suoi fini e le sue strategie.

 

In proposito ha scritto John Kleeves: “Qualche parola sulla United Fruit: questa (che ora si chiama United Brands, in Italia commercializza le banane Chiquita) è la più famosa di quelle multinazionali statunitensi che con l’aiuto del loro governo hanno sbranato e annegato nel sangue l’America Latina e molte altre parti del mondo. Essa iniziò la sua carriera di azienda commerciale internazionale di giorno e di commissionatrice di delitti singoli e in massa di notte ordinando il famoso massacro dei raccoglitori in sciopero che avvenne in Colombia nel 1928, poi descritto da Gabriel Garcia Marquez in “Cent’anni di solitudine” (è a causa di questo libero, per inciso, che gli Stati Uniti a tutt’oggi non concedono il visto di ingresso a Marquez), e quindi andò avanti di quel passo, corrompendo funzionari governativi locali, scagliando la polizia locale e squadre di malviventi prezzolati contro dipendenti in sciopero, ottenendo vastissimi appezzamenti di terreno demaniale per cifre irrisorie, grazie a bustarelle elargite a ministri e funzionari, e così via, e quando il tutto non bastava chiedendo al suo governo di Washington di rovesciare i governi locali non abbastanza compiacenti.La United Fruit-United Brands ha usato, ed usa, gli stessi sistemi in tutti i paesi nei quali opera: in Europa Occidentale può adoperare solo il metodo della corruzione di funzionari governativi, e certamente lo fa. Fra le cose che si sono venute a sapere c’è la seguente che riguarda l’Italia: nel 1978 la United Fruit-United Brands versò 750.000 dollari in contanti ad alcuni alti esponenti del governo italiano per ottenere facilitazioni su quel mercato.” (4)

 

Questa ditta, installata a Boston – capitale e cuore del vecchio Massachusetts , l’America “profonda” – aveva un’anima tipicamente puritana ed uno spirito dichiaratamente improntato alla conquista di nuovi mercati . Rappresentava in tutto e per tutto la filosofia mercantile del capitalismo più estremo che non guardava in faccia a nessuno, non intendeva chinarsi di fronte a nessuna autorità extra-statunitense, non rispettava alcun accordo ma, soprattutto, pretendeva di dettare ordini e pretendere che fossero eseguiti ovviamente il tutto in sintonia con il governo degli Stati Uniti.

 

Negli anni 70 alla guida della United Fruit Company come direttore generale c’era un certo Eli M. Black, un rabbino ebreo che “nei ritagli di tempo tra uno scannamento e l’altro in America Latina e in Africa andava a insegnare la Torah nella sinagoga del quartiere (Black si uccise nel 1975, gettandosi dal suo ufficio situato al 44° piano di un grattacielo di Manhattan, perché l’azienda aveva perso soldi).” (5)

 

A decidere il bello ed il cattivo tempo in Guatemala era stata, per decenni, la multinazionale di Boston.

 

Le cose cominciarono a cambiare in seguito alla rivoluzione popolare che nel 1944 aveva portato al potere Juan Josè Arèvalo il quale fin dall’inizio aveva promosso un programma di riforme basato sulla ridistribuzione delle terre.

 

Jacobo Arbenz Guzmàn (Quetzaltenango, 14 settembre 1913 – Città del Messico, 17 gennaio 1971) – con un passato da ufficiale dell’esercito (nel 1937 era diventato colonnello) e poi da professore di storia all’Università di Guatemala City – era stato ininterrottamente per sette anni alla guida del ministero della Difesa del governo Arèvalo fino a quando, nel marzo del 1951, non decise di candidarsi alle elezioni presidenziali, che si svolsero democraticamente e senza particolari tensioni, presentando un programma fondato sull’indipendenza economica del Guatemala dagli Stati Uniti.

 

Arbenz venne eletto ottenendo il 60% dei voti trovando soprattutto sostegno tra le classi meno abbienti del paese.

 

La riforma principale che Arbenz intendeva portare avanti fu quella agraria, già avviata dal suo predecessore senza troppi successi, attraverso un progetto che rispondesse alle aspirazioni della classe contadina maggioritaria nel paese. 

 

Questa volontà di procedere all’espropriazione dei terreni andò immediatamente a scontrarsi contro la resistenza e la successiva reazione della United Fruit Company che a partire dal 1952, anno in cui venne annunciata la confisca dei terreni, si opporrà alla politica del nuovo presidente.

 

La multinazionale americana intendeva avvalersi delle leggi internazionali per mantenere i propri privilegi e inalterato lo status quo ed i rapporti di forza interni in Guatemala.

 

Ora è necessario ricordare che, in base alla legge internazionale, un giusto compenso deve essere corrisposto per tutte le proprietà straniere che vengono nazionalizzate. Arbenz pensò che un giusto compenso potesse essere calcolato in 600.000 dollari, basandosi sul valore sottostimato dei terreni che la stessa compagnia aveva dichiarato a suo tempo, quando li aveva acquisiti all’epoca in cui governava il dittatore Ubico. La United Fruit era ricorsa a questo sotterfugio a fini fiscali allo scopo di non pagare troppe tasse.

 

Ora che il nuovo governo rivendicava il diritto alla nazionalizzazione fissandone i parametri sulla base del valore, in verità bassissimo, pagato a suo tempo dalla compagnia questa si opponeva più per una questione di prestigio e di potere che non per altro: i terreni, anche se in Guatemala, appartenevano alla United Fruit e nessuno li avrebbe mai espropriati.

 

Questa era, d’altronde la linea generale seguita fino a quel momento dalla multinazionale statunitense che, ovunque andava, agiva in modo predatorio imponendosi sulle istituzioni e le leggi locali, queste ultime ritenute carta straccia da coloro che, volenti o nolenti, si ritenevano investiti di una sorta di “missione” civilizzatrice planetaria….

 

Era d’altronde questo il senso profondo della teoria del “Destino Manifesto” che aveva guidato le tappe dell’espansione degli Stati Uniti nel corso del precedente secolo: quello di essere la nazione-guida predestinata al dominio del mondo.

 

La United Fruit Company agiva oltretutto come una vera e propria quinta colonna commerciale del governo statunitense. Quando Arbenz assunse la carica di capo dello Stato in Guatemala tra gli amministratori della Compagnia figuravano, tra gli altri, i due fratelli , Foster e Allen , Dulles: il primo era Segretario di Stato, l’altro capo della CIA.

 

Immediatamente, si era in piena guerra fredda, i due fratelli Dulles cominciarono in seno all’Amministrazione USA ad agitare lo spauracchio della minaccia comunista e, in occasione della Conferenza Panamericana svoltasi nel marzo1954 a Caracas in Venezuela, Foster in qualità di responsabile della politica estera di Washington cercò di equiparare la presenza dei comunisti in un qualsiasi esecutivo dell’America latina ad una “aggressione extra-territoriale sovietica” oltre, naturalmente, a rappresentare una minaccia diretta contro la “sovranità nazionale degli Stati Uniti”.

 

Mentre Foster andava montando la grancassa mediatica contro il governo regolarmente eletto del Guatemala , suo fratello Allen, incominciava ad organizzare, con l’aiuto e la complicità del governo dell’Honduras, un’organizzazione mercenaria in vista di un colpo di stato.

 

I mercenari dell’autonominatosi esercito di “liberazione” del Guatemala vennero posti agli ordini del colonnello Castillo Armas, legato alla International Railways of Central America , filiale della United Fruit.

 

In realtà di comunisti al potere a Guatemala City non c’era nemmeno l’ombra.

 

Le accuse rivolte ad Arbenz di essere un comunista e di preparare insurrezioni in tutta l’America Centrale per esportare la rivoluzione non stavano in piedi: Arbenz tra l’altro era noto a tutti per essere un grande proprietario terriero che stava cercando di attuare semplicemente un programma di riforme destinato al miglioramento delle condizioni di vita dei suoi compatrioti.

 

Nei tre anni in cui fu al potere il governo riformista era infatti riuscito a creare le premesse per un vasto programma di riforme che includevano la sicurezza sociale, la riforma agraria, quella del lavoro, la ricostruzione di strade (fino a quel momento di competenza della United Fruit che deteneva il monopolio su tutti i trasporti del paese) e la costruzione di un nuovo porto che non fosse di proprietà della solita multinazionale di Boston.

 

Arbenz aveva inoltre avviato una imponente riforma scolastica, prodotto quella sanitaria, iniziato un vasto movimento per combattere la piaga dell’analfabetismo dilagante e introdotto maggiori diritti civili e libertà politiche.

 

In quanto ai comunisti questi erano ancora un piccolo partito, illegale fino a due anni prima.

 

Fu infatti nel 1952 che il Partito Comunista dei Lavoratori Guatemalteco venne legalizzato: ciò portò, come conseguenza, che i comunisti guadagnassero una certa influenza all’interno di alcune organizzazioni contadine, avessero maggior voce nei sindacati e intervenissero attivamente per stabilire la linea ed i programmi del governo dopo che Arbenz aveva deciso di allargare con loro la sua maggioranza parlamentare.

 

Il comunismo venne allora agitato pretestuosamente per abbattere il Presidente.

 

La CIA mise in piedi il suo colpo di stato: Arbenz era un comunista ed il suo governo andava abbattuto con ogni mezzo.

 

Per prima cosa l’agenzia iniziò a fabbricare finte prove di legami con paesi del blocco sovietico.

 

Furono senza dubbio uomini della CIA ad occultare all’interno di una nave diretta in Guatemala un lotto di armi di fabbricazione cecoslovacca per poi “scoprirlo” riattivando la campagna mediatica contro Arbenz.

 

I primi sorvoli di aerei statunitensi sul Guatemala cominciarono a metà maggio, poi arrivarono i bombardamenti veri e propri su Puerto Barrios e Puerto San Josè il mese successo.

 

Era iniziata quella che venne ribattezzata come “Operation Diablo”: il 19 giugno 1954 le prime bande mercenarie dell’esercito di “liberazione” di Carlos Castillo Armas passarono la frontiera dall’Honduras mentre aerei statunitensi privi di insegne cominciarono a colpire i principali edifici governativi e i quartieri popolari della capitale.

 

Il piano inoltre prevedeva la radiodiffusione di notizie false, mandate in onda da un’emittente clandestina appositamente installata dagli americani per l’occasione, “Radio Liberaciòn” , e messa in piedi dal funzionario della CIA David Philips, che servirono ad aumentare il caos e la confusione tra la popolazione civile.

 

Il governo Arbenz si rivolse inutilmente alle Nazioni Unite dove gli USA bloccavano qualunque risoluzione venisse presa in seno al Consiglio di Sicurezza sostenendo che si trattava di “faccende interne” del Guatemala.

 

Spudoratamente mentivano sapendo di mentire.

 

Mentre al Palazzo di Vetro gli americani mettevano il loro veto a Guatemala City l’ambasciatore americano , John E. Peurifoy, proponeva la costituzione di un nuovo esecutivo immediatamente affidato a Castillo Armas.

 

 Ai combattimenti per la difesa della capitale partecipò anche un giovanissimo , appena laureato, medico argentino, il suo nome era Ernesto Guevara de La Serna che il mondo imparerà a conoscere qualche anno più tardi con il nome di battaglia di ”Che” Guevara.

 

Il presidente legittimamente eletto, Arbenz Guzmàn, rassegnò le dimissioni il 27 giugno abbandonando il paese in un non propriamente volontario esilio.

 

Di riforme agrarie, espropriazioni di terreni e nazionalizzazioni da allora in Guatemala non si parlò più.

 

Dopo aver trovato rifugio per qualche anno nella Cuba castrista Arbenz Guzmàn raggiunse il Messico dove morì nel gennaio del1971 incircostanze misteriose: venne trovato esanime nel suo bagno ed il suo decesso fu dovuto o ad un annegamento o alle ustioni causate dall’acqua troppo calda. La dinamica, particolarissima, della morte ha destato numerosi sospetti e varie sono state le ipotesi che descrivono la sua scomparsa come un omicidio.

 

Un omicidio. Uno dei tanti, tantissimi, che insanguinarono l’America Latina.

 

La stagione dei colpi di stato militari era stata inaugurata e sarebbe proseguita insanguinando un intero continente: Brasile, Cile, Argentina, El Salvador, Perù…si potrebbe continuare, la lista è lunga, fino al tentativo di rovesciare il governo rivoluzionario bolivariano del Venezuela ed assassinare il suo leader, Hugo Chavez (12 Aprile 2002) , ripetuto in Ecuador nel settembre di un anno fa contro Raffael Correa. 

 

La repressione in Guatemala sarà particolarmente cruenta a partire dai primi anni Sessanta: centinaia di migliaia saranno i guatemaltechi caduti sotto il piombo della polizia, dei militari o delle squadre della morte paramilitari messe in piedi dalla seconda metà di quel decennio con l’ausilio e la consulenza della CIA  e l’assistenza sul campo di un migliaio di Berretti Verdi inviati da Lyndon B. Johnson, nel 1967, a fare “piazza pulita” dei “sovversivi”.

 

Si calcola che, all’epoca e per tutti gli anni Settanta, le uccisioni in Guatemala abbiano raggiunto una media di circa 20mila l’anno.

 

Nel periodo 1980/1988, all’epoca dell’amministrazione Reagan, i morti in Guatemala sarebbero stati oltre 100.000.

 

Questa è la “politica” estera degli Stati Uniti d’America.

 

Perché, come direbbero a Wall Street, “business is business” ed occorre sempre garantire, preservare e proteggere i propri affari… con qualunque mezzo.