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Due forme di terrorismo

di Andrea Berlendis - 12/12/2011


Facci dunque uno principe

di vincere e mantenere lo Stato:

e mezzi sempre fieno iudicati onorevoli

e da ciascuno saranno laudati;

perché el vulgo ne va preso con quello che pare

e con lo evento della cosa:

e nel mondo non è se non vulgo,

e pochi non ci hanno luogo quando

gli assai hanno dove appoggiarsi.”

 

Machiavelli ‘Il Principe’

1. Dal vertice sul panfilo Britannia al colpo di Stato giudiziario di Mani pulite in poi il problema per i dominanti Usa attraverso i subdominanti interni della GF&ID, è diventato non il machiavelliano ‘mantenere lo Stato’ nazionale italiano, ma  quello di modificarne la sua configurazione per inserirlo con una determinata (sotto)posizione in un dato ordine mondiale. A questo scopo è risultata sempre vera la massima del grande fiorentino secondo la quale tutti i “mezzi sempre fieno iudicati onorevoli”. A proposito di questi mezzi, in un recente articolo su questo blog La Grassa metteva per l’ennesima volta in luce come sia in atto una strategia “per attuare, in una crisi come questa, un imponente trasferimento di risorse – per il quale la finanza serve da strumento (anche di terrorismo oltre che di attuazione del programma) – verso i paesi europei più forti e più vicini agli Usa di Obama, oltre che verso questi ultimi.”[1] La finanza è quindi uno strumento per attuare di un programma avente come obiettivo quello di subordinare la formazione sociale italiana al ‘Washington consensus’ mediante lo smantellamento dei nostri settori strategici che consentono margini di autonomia. E nello stesso tempo la finanza è vista come uno strumento adatto per terrorizzare coloro che potrebbero mostrarsi indocili a quel programma, ad esempio mediante il terrorismo del debito pubblico. A proposito del significato del termine terrrorismo “In generale, si può però sostenere che con questa parola ci si riferisce all’uso (specie se sistematico) del terrore—in qualsiasi forma si presenti—al fine di ottenere un risultato politico. Si può infatti ricorrere al terrorismo tanto per conquistare un territorio quanto per proteggerlo, oppure per spingere alla capitolazione il proprio avversario, o almeno per disgregare la sua capacità di resistenza, o infine per indurlo a trattare e a fare delle concessioni, eccetra.”[2]

 

2. Il 12 dicembre di quarantatre anni fa avveniva la strage di Piazza Fontana, un evento, tra i diversi possibili, in  cui si manifesta l’essere lo Stato  un campo conflittuale tra strategie, strettamente intrecciate, interne ed esterne. La breve ricostruzione che propongo della tramatura politica in cui il tragico evento è inserito, non vuole solo essere un minimo atto di memoria storica, ma far riflettere sul nostro presente. In un testo pubblicato per la prima volta nel 1978 utilizzando uno pseudonimo ed ispirato da una fonte interna all’intelligence inglese l’autore ipotizza a quell’epoca l’esistenza di una “strategia voluta dall’inquilino del Quirinale, in piena concordanza con il consigliere di maggior spicco del presidente Nixon, Kissinger.”[3] Secondo questa strategia ”i vertici della Dc del Partito socialdemocratico si stavano preparando a dare il via alla fase fina del ‘piano Saragat’: lo scioglimento delle  Camere e le elezioni anticipate in clima da crociata anticomunista, con la programmata proclamazione dello ‘stato di pericolo pubblico’.”[4] La probabilità di riuscita era fondata sulla valutazione fattuale secondo la quale “ ‘il partito del presidente’ fosse in larga maggioranza nel paese, potendo  contare su forze politiche, economiche e dell’apparato dello Stato.”[5]  Questo scenario è confermato dal generale Maletti ,allora capo del servizio di controspionaggio del SID, che il un libro-intervista ha affermato: “Lo dico chiaro e tondo. C’era in atto, in Italia, una precisa strategia americana: sono certo che sia il capo dello Stato sia Andreotti ne fossero al corrente.

Intervistatori: Questa è un’affermazione molto grave. Si tratta di due altissime figure istituzionali. Giulio Andreotti era un leader della Dc, uno dei massimi esponenti dell’ala destra del partito. Era stato undici volte ministro. A piazza Fontana morirono diciassette cittadini italiani. Il nostro paese era un paese democratico, con venticinque anni di libere elezioni alle spalle.

Risposta: “Attenzione: entrambi erano a conoscenza della strategia di fondo, ma non potevano certo prevedere l’esatto susseguirsi degli eventi.”[6] Quindi continua l’alto ufficiale: “Saragat era senza dubbio un uomo d’ordine. La piega che stavano prendendo gli avvenimenti, in Italia, non gli piaceva per nulla. Certamente era in contatto diretto con Nixon, e certamente era a conoscenza delle varie manovre  della Cia.  C’era un rapporto, molto probabilmente, anche di tipo operativo. Si incontravano e si dicevano: ‘Che facciamo adesso?’ .  Questo mi sembra possibilissimo.”

Intervistatori: Quando Lei dice che Saragat era a conoscenza delle ingerenze americane, si riferisce probabilmente anche a Piazza Fontana?

Sì, certo: mi riferisco a Piazza Fontana.[7]

Riguardo ai modi di operare dei centri strategici statunitensi e dell’effettivo svolgersi della catena di azioni precisa: “Ma bisogna capire questo: Washington, probabilmente, non conosceva il bersaglio. Gli americani, cioè, non avevano idea dove la bomba sarebbe esplosa. Questa scelta spettava ai gruppi italiani. Non credo che gli statunitensi potessero puntare il dito contro la Banca Nazionale dell’Agricoltura, o contro qualsiasi altro obiettivo. La cernita delle provocazioni era riservata esclusivamente ai terroristi. Gli americani, insomma, non eseguivano il lavoro sporco: mi pare ovvio. Quello toccava agli indigeni: agli italiani, ai cileni, ai greci.”

 

Secondo gli autori del volume sottotitolato ‘La verità politica sulla strage di Piazza Fontana’, i vertici dei diversi apparati statali trovarono un punto di mediazione sul come procedere, per cui  “Fu un’intesa politica siglata il 23 dicembre 1969 tra il ministro degli Esteri, Aldo Moro, e il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, a impedire che si arrivasse in breve tempo ai responsabili della strage di Piazza Fontana. Dietro quell’intesa la necessità di tutelare ‘Il segreto della Repubblica’. Cioè il tentativo di golpe istituzionale, messo in atto  con il sostegno degli americani e duramente osteggiato dall’intelligence inglese.”[8]

Quanto al raggiungimento delle finalità prefissate è chiarificatore richiamare un volume, dedicato ad una figura legata a quegli eventi, l’agente Z, Guido Giannettini, nella cui parte documentaria si trova un appunto d’epoca che  così recita perentoriamente:  “gli attentati del 12 dicembre 1969 favorivano unicamente il mantenimento dello status quo, cioè la formula Saragat/Rumor (cfr. I/D). In ordine a questa finalità, si dimostravano tremendamente efficaci.”[9]

 


[1] La Grassa ‘Non bastano i denti’ 30 novembre 2011

[2] Gambino ‘Esiste davvero il terrorismo?’ Fazi editore pag. 13

[3] Bellini ‘Il segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fonatana’ Selene edizioni pag. 32

[4] Bellini ‘Il segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fonatana’ Selene edizioni pag.32

[5] Bellini ‘Il segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fonatana’ Selene edizioni pag.33

[6] Seresini, Palma, Scandaliato ‘Piazza Fontana, noi sapevamo. Golpe e stragi di Stato. Le verità del generale Maletti.’ Aliberti editore pag. 103

[7] Seresini, Palma, Scandaliato ‘Piazza Fontana, noi sapevamo. Golpe e stragi di Stato. Le verità del generale Maletti.’ Aliberti editore pag. 101

[8] Bellini ‘Il segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fonatana’ Selene edizioni

[9] Pace’Piazza Fontana. L’inchiesta: parla Giannettini.’ Armando Curcio editore pag. 81