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Conferenza sul clima? Risultati inconsistenti

di Luca Mercalli - 13/12/2011



La notte bianca della conferenza sul clima ha dato alla luce un accordo sufficiente per non dichiarare il fallimento di dodici giorni di negoziati. Dato il rischio che i delegati di 190 governi se ne tornassero a casa con un nulla di fatto, è un bicchiere mezzo pieno. Ma considerando che questa è la diciassettesima conferenza delle parti (Cop) voluta dalla Convenzione quadro delle nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), che ogni volta si chiude con decisioni sofferte e mai all’altezza delle aspettative, allora il bicchiere è ancora mezzo vuoto. È dal primo incontro tenutosi a Berlino nel 1995 che il mondo cerca di assumere provvedimenti incisivi per ridurre il rischio climatico. Nel 1997 la Cop3 di Kyoto emanò almeno il noto protocollo, ora in scadenza, ma a causa del rifiuto degli Stati Uniti toccò attendere il 2005 perché entrasse in vigore con l’adesione della Russia. Vi fu pure un’edizione italiana della Cop, la numero nove, nel 2003 a Milano, chiusa con risultati modesti. La burrascosa Cop15 del dicembre 2009 a Copenhagen aveva creato vivaci attese e terminò senza raggiungere un accordo vincolante. La Cop16 messicana dell’anno scorso a Cancùn si accontentò di confermare il finanziamento del fondo di adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo. E ora Durban riesce a portare a casa un impegno concreto per un nuovo accordo di riduzione delle emissioni legalmente vincolante entro il 2015. Una buona prospettiva, ma che fatica!

Dal 1992, quando a Rio de Janeiro venne stilata l’Unfccc, il clima ha fornito tutti gli avvertimenti utili a confermare i coraggiosi scenari teorici di allora e ad accelerare i negoziati. I tredici anni più caldi delle osservazioni globali iniziate nel 1850 saranno tutti registrati dopo il 1996, nell’estate 2003 l’ondata di calore in Europa causerà 36.000 vittime, nel 2007 si raggiungerà la minor estensione nota della banchisa artica, nell’estate 2010 l’ondata di caldo in Russia si porterà via 56.000 vite, i ghiacciai di tutte le montagne del mondo batteranno in ritirata come non mai, senza contare tutte le alluvioni, gli uragani e le tempeste in cinque continenti. Eppure più sono andate accumulandosi le anomalie climatiche, più le pastoie della diplomazia internazionale e gli interessi di cartello sono andati intensificandosi, a riprova che la capacità dell’uomo di guardare lontano e stabilire priorità politiche efficaci contro catastrofi annunciate - e quindi evitabili - è ancora nella sua infanzia.

Ciò non significa che in questi anni il mondo sia stato fermo ad aspettare le decisioni della conferenza delle parti. Una transizione silenziosa che guarda all’ambiente come a un irrinunciabile bene comune è in corso in Europa e in moltissimi altri Paesi, e vede decine di migliaia di iniziative individuali, locali e nazionali che puntano sullo sviluppo delle energie rinnovabili, sull’efficienza energetica degli edifici, sulla riduzione dei rifiuti, l’ottimizzazione dei trasporti, l'abbattimento degli sprechi, il recupero delle filiere corte, l’educazione nelle piazze e nelle scuole, la ricerca scientifica e la formazione di nuove professioni. Un formicolare di attività che attendono solo un quadro normativo più solido e credibile per sbocciare in un nuovo paradigma economico mondiale, basato sulla consapevolezza dei limiti fisici del pianetino su cui abitiamo in sette miliardi nonché sull’utilizzo delle nuove tecnologie non al servizio dell’irrealizzabile dogma della crescita infinita dei consumi, bensì dell’equo soddisfacimento delle necessità primarie dell’uomo. Lasciando ovviamente spazio alla crescita della conoscenza e dei valori morali e spirituali dell’umanità, che non alterano il clima.