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L’etica atea di Fernando Savater non è che una mescolanza di stoicismo e cristianesimo

di Francesco Lamendola - 13/12/2011



 
Quando è uscito in libreria, vent’anni fa, il libro di Fernando Savater «Etica per un figlio», il mondo venne messo a rumore come se, finalmente, la cultura laica avesse trovato quel testo fondamentale che le mancava e che da sempre andava inseguendo, per vincere i propri inconfessabili complessi di inferiorità nei confronti dell’etica religiosa.
L’Autore, docente di Etica all’Università dei Paesi Baschi, autore di quattro romanzi e di alcune opere teatrali, scrivendo il suo saggio come se fosse indirizzato realmente a suo figlio, e dunque con un linguaggio semplice e con uno stile accattivante, come si addice ad un adulto che parla a un adolescente e che dismette idealmente i panni del professore universitario per indossare quelli, più umili e quotidiani, del semplice padre di famiglia, venne acclamato come colui che aveva realizzato il vecchio sogno del pensiero ateo e laicista: offrire un manuale di morale puramente razionale, secondo l’insegnamento di Kant, nonché libertaria, secondo il modello di Kropotkin.
Un manuale nel quale l’uomo si facesse misura a se stesso, rifiutando tanto la morale del prete che quella del poliziotto (ma quando mai la polizia ha preteso di fondare una morale?, semplicemente di far rispettare le leggi: e tale è la sua ragion d’essere) e, senza debiti nei confronti di due millenni di etica cristiana, ridisegnasse la mappa dell’agire umano secondo coscienza e secondo giustizia, come si addice al cittadino dell’incipiente terzo millennio, che non crede più alle favole religiose e che non si lascia né allettare dalla prospettiva dei premi, né intimorire dalla minaccia delle sanzioni altrui, in questa vita o nell’altra.
Insomma, il perfetto prontuario del’uomo libero: libero, si capisce, non tanto per fare qualcosa, ma, semplicemente, libero da qualcosa: intendendo il concetto di libertà, nella migliore (o peggiore) traduzione illuminista, in senso sostanzialmente negativo, cioè come libertà nei confronti di qualcuno o di qualcosa, come affrancamento da vincoli e servitù e non come una preziosa responsabilità, dalla quale discendono precisi doveri nei confronti del mondo e di se stessi.
Inoltre, per essere un’etica del terzo millennio, essa appare oltremodo datata per il fatto che si concentra esclusivamente sul valore dell’uomo, sulla dignità dell’uomo, sui diritti dell’uomo, tanto è vero che il suo prediletto modello di riferimento è lo stoicismo dell’imperatore Marco Aurelio; un’etica, perciò, esclusivamente antropocentrica, nella quale sembra che l’unico soggetto degno di essere preso in considerazione sia l’uomo.
Dei diritti degli animali, della responsabilità dell’uomo nei confronti di tutta la realtà non umana, sembra che non vi sia bisogno di parlare; e non è affatto strano: la prospettiva di Savater  si colloca in pieno nella tradizione razionalista che, da Francis Bacon e Cartesio in poi, in nome della tanto sbandierata ragione, non ha saputo vedere nelle piante, negli animali, nella natura non umana, nient’altro che materiale da saccheggiare indiscriminatamente e discarica per i prodotti di rifiuto del proprio progresso, della propria scienza e della propria tecnica.
E tutto questo in un’epoca, quale è la nostra, nella quale non solo i filosofi di professione, come Savater, ma anche i comuni uomini della strada hanno acquisito un minimo di consapevolezza delle responsabilità umane legate al degrado sempre più drammatico dell’ambiente terrestre e alla concreta prospettiva di una catastrofe ecologica, forse irreparabile.
E infatti: quando, in Catalogna, si è accesa una vivace polemica pro e contro la persistenza della corrida, Savater si è affrettato a levare la sua voce a favore di essa, sostenendo che si tratta di uno spettacolo ricco di cultura e molto più apprezzabile di una partita di calcio; nessuna pietà per il toro, dunque, nessuna sensibilità per la sofferenza degli animali, a conferma del fatto che Savater intende l’etica come una faccenda riguardante esclusivamente le creature umane.
Quella che è stata salutata come un’operazione culturale estremamente moderna e innovativa, pertanto, si configura invece come una stanca riproposizione di schemi e atteggiamenti mentali di gran lunga superati e che poco hanno da dire al cittadino della tarda modernità.
Scrive, a proposito dell’atteggiamento da tenere verso gli altri esseri umani, Fernando Savater nella sua «Etica per un figlio» (traduzione Einaudi, Torino, 1991):

«Per quanto gli uomini possano essere simili non si può sapere in anticipo qual è il modo migliore di comportarsi con loro. L’atteggiamento di Robinson non potrà essere lo stesso se l’impronta nella sabbia appartiene a un membro di una tribù di cannibali che vuol mangiarselo bollito o se invece l’orma è quella del mozzo della nave che viene finalmente a riprenderselo.
Proprio perché gli altri uomini mi somigliano molto possono risultare più PERICOLOSI  di qualsiasi animale feroce o terremoto.» Non c’è peggior nemico di un nemico intelligente, capace di studiare piani particolareggiati, di tendere tranelli, d’ingannarmi in mille modi. Forse allora sarà meglio attaccare per primo, tenerli a bada con la violenza o sorprenderli con un’imboscata, come se fosse già sicuro che si tratta di nemici…
Tuttavia questo atteggiamento non è tanto prudente come sembra a prima vista: se mi comporto da nemico con i miei simili senza dubbio aumento la possibilità che anche loro diventino miei nemici; perdo l’occasione di conquistarmi la mia amicizia oppure di conservarla nel caso che fossero disposti a offrirmela.
Di fronte ai nostri simili pericolosi c’è un altro comportamento possibile. Marco Aurelio fu imperatore di Roma e filosofo, il che è piuttosto singolare perché in genere i governanti non si interessano molto alle questioni che non siano indiscutibilmente pratiche. Marco Aurelio amava annotare delle conversazioni con se stesso in cui si dava consigli e si rimproverava. […]
Per Marco Aurelio la cosa più importante non è stabilire se la condotta degli altri uomini mi sembra conveniente, ma sapere che - in quanto esseri umani - mi corrispondono e questo non devo mai dimenticarlo quando ho a che fare con loro. Per cattivi che siano, la loro umanità corrisponde alla mia e la rafforza. Senza di loro potrei forse anche vivere ma non potrei vivere umanamente. Anche se ha qualche dente finto e due o tre carie, all’ora di pranzo è conveniente poter contare su una mandibola inferiore che aiuti la superiore. […]
Nessun animale per quanto affettuoso potrà darmi quanto mi dà un altro essere umano, persino se è un po’ antipatico. Certamente gli esseri umani vanno trattati con CAUTELA, il più delle volte. Ma questa “cautela” non va intesa come diffidenza o malizia, piuttosto è quell’attenzione che si mette nel maneggiare le cose fragili, anzi le cose più fragili… perché non sono semplici COSE. Il rispetto e l’amicizia che ci legano agli altri esseri umani sono per me (che sono un essere umano) la cosa più preziosa al mondo e quando ho a che fare con gli uomini devo pensare soprattutto a salvaguardare e persino COCCOLARE quel legame, se mi passi l’espressione. Neppure quando si tratta di salvare la pelle questa priorità va dimenticata completamente.
Marco Aurelio, che era imperatore e filosofo ma non imbecille, sapeva molto bene una cosa che sai anche tu: esiste gente che ruba, che mente e che uccide. Naturalmente non pensava che per comportarsi bene con il prossimo si dovessero favorire questi comportamenti, però aveva abbastanza chiare due cose che mi sembrano importanti.
Primo: chi ruba, mente, tradisce, violenta, uccide o abusa in qualsiasi modo dell’altro non per questo cessa di essere UMANO. Il linguaggio inganna, perché attribuisce un appellativo corrispondente all’infamia (“questo è un ladro”, “quella una bugiarda”, “il tale è un criminale”) e ci fa dimenticare in qualche misura che si tratta sempre di esseri umani, che senza sommettere di esserlo, si comportano in modo poco raccomandabile. Chi è diventato qualcosa di detestabile, siccome continua a essere un uomo, può sempre ritornare a essere ciò che più ci conviene, ciò di cui non possiamo fare a meno…
Secondo:una delle caratteristiche principali di tutti gli esseri umani è la nostra capacità di IMITAZIONE. Perlopiù copiamo i nostri comportamenti e i nostri gusti dagli altri. Per questo siamo educabili e non smettiamo mai di acquisire le conquiste fate da altri nel passato o in latitudini remote. Quello che chiamiamo “civiltà”, “cultura”, eccetera, contiene un po’ dì’invenzione e moltissima imitazione. Se non fossimo tanto copioni ognuno dovrebbe sempre ricominciare da zero.
Per questo è così importante l’ESEMPIO che diamo ai nostri pari: è quasi certo che nella maggior parte dei casi ci tratteranno esattamente come noi trattiamo loro. Se distribuiamo inimicizia a destra e a manca, anche se in modo dissimulato, è probabile che in cambio avremo altra inimicizia. E so bene che per quanto uno dia il buon esempio gli altri hanno sempre davanti agli occhi troppi cattivi esempi da imitare. Perché allora darsi pena e rinunciare ai vantaggi immediati che le canaglie ottengono sempre? Marco Aurelio risponderebbe così: “Ti sembra prudente aumentare il numero già alto dei cattivi, dai quali puoi aspettarti realmente tanto poco di positivo, e scoraggiare la minoranza dei migliori che invece possono fare tanto per aiutarti a vivere bene? Non sarebbe più logico seminare quello che vuoi raccogliere anziché l’opposto, (pur sapendo che la zizzania può rovinare il tuo raccolto)? Preferisci comportarti volontariamente da pazzo piuttosto che sostenere i vantaggi del buon senso?”.
Vediamo di studiare un po’ più da vicino come si comportano quelli che chiamiamo “cattivi”, quelli cioè che trattano gli altri esseri umani come nemici invece di cercarne l’amicizia. […]
Si comportano in modo ostile e disumano con i loro simili perché hanno paura, si sentono soli, oppure perché sono privi di cose necessarie che molti altri possiedono. […] Oppure patiscono la disgrazia peggiore di tutte, quella di vedersi trattare dalla maggior parte della gente senza amore e rispetto. […] Non conosco nessuno che sia cattivo perché così è felice, né qualcuno che martirizzi il prossimo per manifestare la sua allegria. […]
Dunque: se è vero che più uno si sente felice  tanto meno avrà voglia di essere cattivo, , non sarà prudente cercare di far felici gli altri anziché renderli infelici e quindi propensi al male? Quello che si dà da fare per la rovina degli altri e on fa niente per evitarla.. se la sta cercando. Dopo non deve protestare per tutti i problemi che vengono fuori!
[…] In che consiste trattare le persone come persone, ossia umanamente? Risposta: consiste nel TENTARE DI METTERSI AL LORO POSTO. Riconoscere qualcuno come un nostro simile implica soprattutto la possibilità di comprenderlo DAL DI DENTRO, di adottare, per un momento, il suo punto di vista.»

Ci sarebbe molto da obiettare sul razionalismo ingenuo che spinge Savater ad affermare che nessuno gode ad essere malvagio e che nessuno martirizza il prossimo perché vi provi piacere: il minimo che si possa dire è che l’autore di simili pensieri non deve avere una gran conoscenza di quegli uomini ai quali si rivolge ed ai quali vuole trasmettere una “nuova” etica.
Questa sua caratteristica incapacità di comprendere gli abissi della malvagità umana, della malvagità gratuita, è la conseguenza non solo di un errore psicologico, ma soprattutto di un errore ontologico: egli misconosce il mistero che c’è nell’uomo e pensa che, con lo strumento della ragione, tutto possa divenir chiaro, così le luci come le ombre, e tutto possa tornare a posto nel migliore dei modi.
Con Rousseau, egli mostra di credere alla bontà originaria dell’uomo; e, con gli illuministi, abbraccia fideisticamente la dottrina della continua perfettibilità dell’uomo, dopo aver abbracciato la dottrina dell’accumulazione del sapere.
E non ammette che vi sia alcun mistero nell’uomo per il semplice fatto che se vi fosse, la sua “etica” puramente umana, puramente razionale, non basterebbe più: egli dovrebbe riconoscere che l’uomo non può fare tutto; che non può darsi delle norme, e tanto meno rispettarle, sulla base della sola ragione; e, soprattutto, che non potrebbe perdonarsi né riconciliarsi con se steso, qualora non vi fosse una istanza superiore, capace di garantire il perdono in funzione di un principio trascendente di giustizia, ma anche di misericordia.
Ci sarebbe parecchio da dire anche sulla impostazione utilitaristica del problema morale: è intelligente comportarsi bene verso il prossimo, dice Savater - anzi, lo fa dire al suo amato Marco Aurelio - per prevenire la sua eventuale malvagità nei nostri confronti; dato che, a suo dire, il malvagio è infelice, e spesso è infelice perché trattato male dagli altri.
Quanti stereotipi “buonisti”, quante zuccherosità illuministe, quanta demagogia a buon mercato in questo modo di impostare il problema della malvagità umana: come se ci fosse ancora qualcuno disposto a credere che gli uomini, purché trattati bene, sono naturalmente buoni, e che diventano cattivi solo, o quasi solo, allorché vengono trattati in modo ingiusto e crudele.
E poi, utilitarismo per utilitarismo: se, trattandoli male, io potessi ottenere comunque un risultato soddisfacente per me, ad esempio quello di costringerli ad agire bene verso di me, perché dominati dalla paura: perché allora non dovrei infierire contro di essi?
Se quello che conta  è il risultato e non l’intenzione, allora basta garantire il risultato, ossia che gli altri non agiscano in modo pericoloso nostri confronti: questa è logica e, una volta stabilite le premesse, non si ha il diritto di scandalizzarsi per le conseguenze che se ne possono trarre. Del resto, queste cose le aveva già dette Machiavelli, e in modo assai più logico e consequenziale..
Marco Aurelio e lo stoicismo, dunque, vengono citati esplicitamente da Savater per costruire la sua proposta etica (privati, peraltro, di quanto è essenziale al pensiero stoico: l’idea della Provvidenza); ma c’è un altro vistoso debito, nel suo pensiero, che egli sottace: quello verso il cristianesimo.
Quando raccomanda a suo figlio di  mettersi sempre nei panni dell’altro; quando lo esorta a vedere le cose non solo dal proprio punto di vista, ma di assumere il punto di vista dell’altro, egli non fa che dire - molto meno bene, in verità - quel che Gesù aveva predicato, dicendo: «ama il tuo prossimo come te stesso».
La disonestà intellettuale consiste nel servirsi del pensiero altrui, senza rendergliene debitamente atto; anzi, pretendendo di aver detto una cosa radicalmente nuova, addirittura in polemica e in radicale alternativa con quel pensiero che non viene citato, ma di cui si è debitori.
Lo stesso concetto che sta alla base dell’etica di Savater è stato affermato nel corso di duemila anni di cristianesimo; certo, anche tradito sul terreno pratico: ma qui non stiamo parlando della storia, bensì della filosofia (anche le ideologie laiche hanno molti scheletri nell’armadio da nascondere, quanto alle loro applicazioni pratiche).
La filosofia cristiana ha sempre sostenuto la necessità di basare l’etica su di una relazione altruistica con il proprio simile; tuttavia lo aveva detto meglio di quanto faccia Savater, perché l’esortazione di quest’ultimo a “mettersi nei panni” dell’altro, ad assumere il suo punto di vista, è, puramente  e semplicemente, una impossibilità logica, e sia pure ammantata dalle migliori intenzioni di questo mondo; senza contare che è un salto logico rispetto al precedente utilitarismo.
Che cosa vuol dire che io devo entrare nel punto di vista dell’altro? Questo non sarà mai possibile: io sono io e tu sei tu; nessuno può entrare nella pelle dell’altro, fosse pure del più intimo amico o della persona più cara; nessuno può vedere, sentire e pensare come vede, sente e pensa un altro essere umano; e, quand’anche - per assurdo - ciò fosse possibile, ci mancherebbe ancora la cosa essenziale: la storia pregressa, tutto il bagaglio delle vicende che hanno fatto di ciascun individuo quel che egli effettivamente è diventato.
Quando io penso all’altro, invece, come se pensassi a me stesso, secondo l’esortazione evangelica, allora sì che riesco ad assumere un punto di vista che mi permetta di evadere dal carcere della mia soggettività; la cosa è terribilmente chiara: «ama il prossimo tuo come te stesso»; e questo è possibile, questo è alla portata di tutti, non richiede alcuna irrealistica astrazione.
Ma c’è un altro aspetto dell’etica di Savater su cui vorremmo soffermarci brevemente: la sua dimensione pedagogica. L’etica del filosofo spagnolo non è un’etica generale, ma un’etica specifica: indirizzata a un figlio, a un ragazzo, a un adolescente; e, come tale, si basa su una profonda, ottimistica fiducia, diremmo quasi socratica, nella trasmissibilità del sapere e nella perfettibilità della natura umana.
Come tutte le forme di ottimismo antropologico, tuttavia, anch’essa presenta un limite evidente: la negazione di valori assoluti, di una dimensione trascendente, rendono  assai problematica la definizione di un orizzonte etico condiviso; difficoltà resa ancor più marcata dalla già citata propensione a intendere la libertà umana in senso prevalentemente negativo, ossia come libertà nei confronti di qualcosa e non come riconoscimento di un percorso di verità.
Emblematico, in proposito, il plauso con cui il libro di Savater è stato accolto da un filosofo come Gianni Vattimo:
 
«Non è vero che un'etica laica, senza assoluti e senza miti, non può fornire modelli educativi efficaci. Savater lo dimostra: la moralità è autonomia, capacità di non sottomettersi, amore di sé nel senso migliore del termine. Un libro intenso ma anche amichevole, che genitori e maestri dovrebbero leggere e commentare insieme ai loro figli, discepoli, amici adolescenti.»
 
Ritorna in questo giudizio l’apprezzamento della libertà e della moralità soprattutto come capacità dell’individuo di “non sottomettersi”: in senso negativo, appunto. Viene in mente il motto bakuniano «né Dio, né Stato», che sventolava anche sulle bandiere del ’68: una filosofia ottocentesca, ingenuamente ottimistica, perché convinta di poter rifare il mondo, ma senza riflettere che nessun mondo nuovo può sorgere dalle mani di un uomo vecchio.
Una filosofia vecchia, dunque, perché non c’è niente di più  superato che il pretendere di versare del vino nuovo in otri vecchi.
Una filosofia che non tiene in alcun conto il mondo delle creature non umane; che non sa dire una parola di orientamento nella giungla della clonazione, della creazione di chimere, della produzione degli organismi geneticamente modificati, della fecondazione extrauterina, della manipolazione illimitata del Dna.
Una filosofia che non sa cosa dirci a proposito della distruzione della natura, del mutamento climatico in atto, del modello economico basato sullo sviluppo e sul saccheggio delle risorse, sul consumismo e sullo spreco, sulla preponderanza della finanza rispetto al lavoro produttivo, sull’urbanizzazione incontrollata.
Una filosofia che ancora soggiace ai miti più logori e screditati del repertorio neo-illuminista e neo-positivista: la ragione, la scienza, il progresso eretti al rango di valori assoluti.
Una filosofia, dunque, ed un’etica che, a nostro parere, non hanno nulla da dire all’uomo d’oggi, dotato di ben altra sensibilità, proiettato verso ben altre dimensioni dell’essere, verso ben altri problemi esistenziali, verso ben altri timori, speranze e necessità, che non quelli di un laicismo ateista, tanto presuntuoso quanto datato e velleitario.