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Rasputin: The Healer. La Russia degli Zar tra documenti e falsi miti

di Cristina Bardella - 14/12/2011

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Uno dei prossimi eventi del panorama cinematografico internazionale sarà senza dubbio “Rasputin: The Healer”, l’attesissimo film che la regista francese Rose Bosch ha girato a San Pietroburgo.
Il ruolo principale è sostenuto da Jean Reno, attore intenso quanto popolare, che in varie interviste ha di fatto rivelato la prospettiva adottata da regia e sceneggiatura per tratteggiare la figura del sulfureo staretz: una riabilitazione, se non addirittura la raffigurazione di una sorta di vittima sacrificale eliminata da una classe che era espressione di un sistema oramai agonizzante, ma che non tollerava corpi estranei provenienti dal basso ed assurti ai più alti livelli del potere.
Ignoriamo quali siano le fonti storiografiche attinte dalla Bosch, ma risulta assai probabile che fondamentali documentazioni coeve – pure riedite in Francia negli anni scorsi – non siano state prese in considerazione. Ci riferiamo, ad esempio, a “Le crépuscule des tsars” (Mercure de France, 2007), il diario tenuto tra 1914 e 1917 dall’ambasciatore Maurice Paléologue, miniera di informazioni di primissima mano riguardanti l’ultimo periodo dello zarismo, la Grande Guerra e lo scoppio della Rivoluzione Russa, informazioni tanto più rilevanti perché il diplomatico non fu un semplice spettatore, o mero cronista.
Testimone privilegiato di eventi cruciali, Paléologue tenne un diario giornaliero che pubblicò tra 1921 e 1923, suscitando una tempesta di polemiche dal momento che la comparsa di una simile opera, a pochi anni dai fatti, era giudicata di gran lunga prematura. In realtà Paléologue, che aveva rifiutato l’ambasciata di Londra e si era ritirato a vita privata, intendeva rispondere a gravi accuse che gli erano state rivolte: prima fra tutte quella di non avere comunicato immediatamente al suo governo, il 31 luglio 1914, l’ordine di mobilitazione generale dell’esercito russo.
All’epoca in cui apparvero i diari dell’ambasciatore si contavano ancora i milioni di morti e si subivano le enormi conseguenze sociali di un conflitto che aveva cambiato il corso della storia; ci si interrogò sulle cause, soffermandosi sulla successione dei fatti dell’estate 1914, occorsi in una manciata di giorni, che avevano fatto precipitare la situazione.
Dai telegrammi scambiati tra lo zar Nicola di Russia e il Kaiser Guglielmo di Germania, il punto di non ritorno sembra essere stato proprio l’ordine di mobilitazione generale dato da Nicola; suo cugino, sino ad allora “il caro Willy”, gli chiese di sospenderlo, o almeno di effettuare una mobilitazione parziale. “Nicky” rispose che per motivi tecnici era impossibile fermare, in un paese tanto vasto, le operazioni: al che vi fu l’ultimatum tedesco.
Già prima del trattato di Versailles - che avrebbe addossato le responsabilità del conflitto alla Germania -, colui che era stato l’ambasciatore tedesco a San Pietroburgo (e che, ironia della sorte, portava un nome francese, Pourtalès), aveva affermato che l’ex-collega Paléologue, in virtù dell’alleanza franco-russa ed ancora di più per gli assurdi meccanismi delle sfere decisionali zariste, era stato messo a conoscenza dell’ordine di mobilitazione addirittura prima del Ministro della Guerra russo; per cause a tutt’oggi non chiarite – pare per disposizioni segrete del Presidente francese Poincaré, suo intimo amico nonché acerrimo nemico della Germania -, Paléologue ritardò i tempi della vitale informazione invocando a posteriori la difficoltà di comunicazione con la Francia, che entrò in guerra il 3 agosto.
La Russia del 1914 era legata all’alleanza con Francia e Gran Bretagna a causa degli enormi interessi finanziari e commerciali – l’ingentissimo prestito francese e la fornitura degli armamenti inglesi della Vickers – intervenuti dopo la disastrosa guerra con il Giappone del decennio precedente; tuttavia la zarina Alessandra, che influenzava non in minima parte le decisioni del consorte, era risolutamente contraria alla guerra contro la Germania alla pari di una corrente formata da elementi di corte, del governo e della Chiesa (“il partito germanofilo”).
I diari dell’ambasciatore francese contengono ogni genere di notizia concernente la vita in Russia durante la Grande Guerra. Oltre a notazioni derivate da colloqui diretti con gli stessi Nicola ed Alessandra, esponenti dello Stato maggiore, ministri, granduchi, e con gli scambi di informazioni ed opinioni tra altri plenipotenziari, Paléologue disponeva di una rete capillare di validi informatori, anche in ambiti da lui definiti “avanzati”, vale a dire negli ambienti dove si preparava la Rivoluzione: già il 17 ottobre 1914 scriveva diffusamente di un “adepto di Marx” che dalla Svizzera predicava la sconfitta, poichè “la disfatta militare della Russia è il preludio necessario della rivoluzione e la condizione stessa del suo successo”, esortando perciò “il proletariato russo a facilitare con ogni mezzo la vittoria tedesca”.
L’ “adepto di Marx” era naturalmente Lenin. Quanto al morale degli strati superiori della società, un altro informatore ragguagliava, già il 4 settembre 1914 (la guerra era stata dichiarata l’1 agosto), che le speranze di vittoria erano ben poche perchè lo zar “era perseguitato dalla sfortuna, per sé e per gli altri”.
Ma le notizie che tenevano banco erano quelle concernenti Rasputin, lo staretz irsuto che chiamava i sovrani “Papka” e “Mamka” e che aveva in pugno cariche dell’esercito, del governo e persino del Santo Sinodo. Lungi dall’essere dotato di poteri paranormali, Rasputin procurava emorragie allo zarevic Alessio – che peraltro non era portatore di emofilia, bensì di trombocitopenia – facendo somministrare da una confidente della zarina divenuta sua accolita forti dosi di acido salicilico o di chinidina, le cui controindicazioni erano ben note al santone conoscitore delle proprietà degli estratti di salici e pioppi. Una volta sospesa tale somministrazione lo staretz poneva in essere la rappresentazione del “miracoloso” flusso mistico-ipnotico capace di arrestare le emorragie.
Non solo: per mezzo della zarina Rasputin faceva inviare a Nicola II impegnato al fronte “erbe medicamentose” fornite dal suo socio, il famigerato Badmaev che si diceva depositario dell’antica sapienza tibetana, ovvero misture di giusquiamo nero (un potente alcaloide) ed hashish che annebbiavano le facoltà intellettive ed inibivano la capacità di volere dello zar. Senza contare il ruolo del santone come agente al servizio del governo tedesco, a cui faceva pervenire via Svezia informazioni vitali, oltre ad oro ed ingenti capitali da lui accumulati.
Si comprendono quindi agevolmente le preoccupazioni dell’ambasciatore francese, anche perché la Russia era divenuta l’anello debole dell’Intesa. L’assassinio di Rasputin, avvenuto la notte del 30 dicembre 1916, è riferito con dovizia di particolari appena il 6 gennaio successivo, cioè ben prima dell’inchiesta della polizia (oltre tutto segreta). Oggi, per inciso, grazie ad un recente studio pubblicato in Inghilterra, siamo a conoscenza del fatto che, lungi dall’essere una mera congiura di palazzo dai risvolti sapientemente evocati come torbidi quanto equivoci da ricostruzioni riferite ad una complessa operazione di “intossicazione” effettuata da Kerenskj nel 1928 in Francia, l’eliminazione dello staretz fu concertata con i servizi militari britannici con il trait d’union del principe Yussupov, ufficialmente l’uccisore di Rasputin.
Il diario di Paléologue termina il 17 maggio 1917, quando lo stesso con altri diplomatici attraversa la Finlandia, sulla via del ritorno nei rispettivi Paesi; in senso inverso arriva un convoglio di feriti gravi russi provenienti dalla Germania, sempre via Svezia.
I mezzi di soccorso tardano ed i feriti, coperti miseramente, vengono posti nelle lettighe sul ghiaccio: è l’ultima immagine, ed una potente rappresentazione simbolica della fine dello zarismo.