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La poltrona del re

di Mario Grossi - 21/12/2011


Fabrizio Rinaldini, di cui avevo letto il primo romanzo pubblicato: In morte di un collega, ha dato alle stampe un’opera seconda La poltrona del re (Edizioni Agemina) che, come la prima, è catalogata tra i “gialli”. In realtà l’ordine di pubblicazione dovrebbe essere invertito: questo secondo romanzo, in realtà, è la sua opera prima.

Questa volta la storia ha un antefatto che risale alla guerra civile. Siamo nel 1944 e i luoghi sono quelli che circondano Firenze. I partigiani, a cui si sono uniti anche altri poco raccomandabili figuri, lottano con i fascisti e con i tedeschi in un crescendo di imboscate e rappresaglie.

Su questo fosco sfondo prendono le mosse i fatti che cinquant’anni dopo affioreranno drammaticamente in una serie di eventi che cominciano con un suicidio di un partigiano amico del protagonista e con una serie successiva di morti, apparentemente scollegati dai fatti passati e senza connessione tra di loro.

Sarà Simone, il protagonista, inizialmente solo, poi affiancato da Gianna, nipote del partigiano presunto suicida e che diverrà la sua compagna, e da un giornalista alle prese con uno scoop, che metterà in fila poco alla volta, sollevando una cappa morbida e impenetrabile, i fatti e smaschererà l’impensabile autore di tutta la macchinazione, proprio mentre si appresta a partecipare a una campagna elettorale che, se vinta, lo porterebbe a diventare uno stimato parlamentare della Repubblica.

La storia nella sua stringata essenza (non dico di più per non togliere il gusto della lettura) è tutta qua: un antefatto, un fatto apparentemente ovvio e scollegato dal passato, una serie di appendici al contorno, un occhio acuto e scrutante che alla fine metterà in logica sequenza tutto e farà affiorare una verità a lungo sottaciuta.

L’immagine che mi si condensa davanti, dopo la lettura di questo romanzo, è un quadretto familiare della mia infanzia. Strano ma vero, visto che la lettura di un giallo dovrebbe indurre sentimenti più sanguigni e virulenti, che ci sono, ma che passano in secondo piano rispetto al ricordo infantile.

Mi rivedo bambino seduto al tavolo della cucina mentre faccio i compiti. Mia madre, poco distante, è indaffarata a preparare una torta. Alzo la testa dal quaderno e, mentre lei dispone in bell’ordine gli ingredienti, le faccio: “Quando posso mangiarne una fetta?”. Lei sorride e mi fa presente che ci sarà da aspettare un po’, visto che non ha neanche iniziato a impastare.

Uova, farina, un cucchiaio di zucchero, un pizzico di sale, l’impasto è pronto e viene disposto nella teglia mentre il forno acceso spande un tepore che mi fa quasi appisolare sul libro. I vetri si stanno appannando quando la teglia viene infilata nel forno.

“Quando sarà pronta ma’?”. Bisogna aspettare.

Poi inizia una lenta prelibata tortura. Un primo sentore di dolce comincia ad uscire dal forno e titilla le mie narici. Ormai i compiti sono un ricordo. Inseguo quel profumo che ha catalizzato tutta la mia attenzione.

“Ecco, ci siamo” penso soddisfatto quando il forno si apre e la torta viene posta vicino alla finestra.

“Me ne dai una fetta, adesso?”. Le papille gustative ormai grondano desiderio.

“E’ troppo calda ancora, devi aspettare”.

Alla fine, quasi stremato da quel tempo che non passa mai, ricevo la mia fetta di torta e, pezzo dopo pezzo, la inglobo sapientemente.

Leggendo La poltrona del re mi è tornata alla mente questa scena che si collega saldamente a quella che è la vera e più importante cifra del romanzo, o meglio del suo stile.

È l’attesa che ne costituisce il pregio. È il senso costante di sospensione che mai prende corpo, o sembra prendere corpo, ma solo nella testa e nelle elucubrazioni che appaiono, all’inizio, un po’ paranoiche del protagonista.

È uno stile splendidamente sottrattivo. Rinaldini scrive per non dire. Dice tutto quando la sua descrizione resta appesa al silenzio tra una frase e l’altra. È questo fiato rattrappito che permette il dispiegarsi della narrazione che prende la forma di un vento impetuoso che trascina tutti dietro di sé.

È uno stile per quanti d’energia, pacchetti in movimento che trovano la loro stupefacente continuità nel vuoto che li distanzia.

È una cifra che è tutta rappresentata già nell’antefatto, quando viene raccontato un agguato: “Il “Nebbia” era calmissimo, ne era certo, anche se lo vedeva solo di spalle. Pronto a scattare quando quell’altro fosse apparso, ma calmo.

Erano lì da quasi venti minuti e gli unici movimenti che aveva fatto erano stati per sistemarsi meglio sotto il giubbotto lo Schmeisser M.P.41.

“Ghigo” aveva freddo, invece, e anche un po’ di paura.

Quel figlio d’un cane di fascista sarebbe già dovuto uscire da un pezzo dalla casa della sua amante.

Qualcuno doveva averli già visti. Sicuramente li avevano sentiti arrivare.”

È un tempo che si ferma, nulla esiste più se non dei corpi quasi pietrificati, ribollenti d’umori ma immoti. Il fiato si fa corto, le pulsazioni si azzerano.

È l’attesa che, logorante, stende la sua caligine su tutta l’azione. Nulla succede e invece accade.

È un clima che si ripete nei lunghi silenzi tra Simone e Gianna, forieri di scoppi umorali che squarciano la calma apparente dell’inane.

Sono silenzi che introducono questa continua sospensione che aleggia carica della sua mefitica presenza. Impalpabile e pesantissima.

È una sospensione che nuota in un brodo, quello della quieta e tranquilla provincia fiorentina (metafora di tutte le province italiane), che è una salsa d’ipocrisia ininterrotta.

Anche qui entra con vigore questo senso di sospensione un po’ angosciante.

Simone scopre, suo malgrado, che i volti noti, incontrati tutti i giorni, le facce pulite dei suoi concittadini, le limpide carriere degli stimati professionisti, le buone parole del clero, la specchiata onestà dei benpensanti non sono altro che una melassa appiccicosa, stesa a bella posta per permettere che nessun giudizio di verità possa mai districarsene.

Ci vuole fegato per inoltrarsi in una palude tanto maleodorante, quanto fintamente profumata.

Ci riusciranno, e non è un caso, Simone e Gianna, totalmente altro da questo, marginali per volontà e per storia personale rispetto a questo quadretto edulcorato che si replica continuamente in una falsa rispettabilità in cui tutti si crogiolano.

Gianna, per tutti una puttana, che ha subìto, quasi bambina, una violenza sessuale messa a tacere con molteplici complicità e silenzi mafiosi.

Simone, all’epoca giovane adulto, che subisce la violenza di una devastante perquisizione casalinga, da parte delle forze dell’ordine che brutalmente gli invadono casa arrestandolo, per poi accusarlo di un crimine mai commesso.

Due violati, in modo diverso, che conservano però dentro di sé quella forza, un po’ folle, che gli proviene da un’interiorità integra e scevra da qualsiasi volontà di compromesso.

La verità alla fine deve essere provata. E non è importante che sia giudizialmente provata, quello è un accessorio.

Simone affronterà, di fronte a testimoni, il responsabile della lunga serie di misfatti che costellano la storia, per porre di fronte al suo abisso di nefandezza il colpevole, che poi questo farà i conti con la Giustizia è fatto secondario e irrilevante.

È un romanzo in cui, tra le cupezze, fa breccia una speranza mai doma di luce, in cui le nuvole nere che solcano l’orizzonte, prima o poi, saranno squarciate.

Come dice Battiato “le nuvole non possono offuscare il sole”. E’ su questa certezza che si fonda la forza interiore di Simone e Gianna.

E poi quando si ha al fianco un amico come Ezio, grande, enorme, burbero e buonissimo, sempre pronto a dare una mano senza chiedere niente in cambio, ho l’impressione che si possa andare sulla Luna.

Spunta ancora questa consapevolezza che, anche se maledetti, rifiutati, reietti, violati ci si può cimentare nell’agone della vita con speranza rinnovata se saldo e profondo è il vincolo che ci lega all’amico.

E in un territorio geografico e umano sfigurato può ancora vivere un drappo lacerato che saldamente resta ancorato a valori profondi.

Dall’angosciosa sospensione stilistica stilla magicamente una linfa che mi spinge a consigliare la lettura di questo romanzo che, nella sua stratificazione, è giallo nel racconto e nell’intreccio, rosa nella delicata ma forte storia d’amore tra Simone e Gianna, verde nell’incombente presenza di Merlino, il gatto del protagonista descritto nel suo carattere felino, cinico e amorevole nel contempo, nero nell’ipocrita grigiore della provincia che fa da sfondo plumbeo alla narrazione.

Per chi poi volesse iconograficamente immergersi un po’ di più nell’humus narrativo è sufficiente scrutare la fotografia della Cappellina di S. Lucia, presa dallo stesso Rinaldini e messa in copertina, che, con i suoi mattoni scrostati e quelle porte murate, restituisce plasticamente tutto quello che fino a qui ho tentato di esprimere a parole.