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Nord Corea, la minaccia è Usa

di Michele Paris - 21/12/2011

 
    


L’annuncio ufficiale della morte del dittatore nordcoreano, Kim Jong-il, ha scatenato nei media occidentali una serie infinita di commenti nei quali si sottolinea fino alla noia la possibilità di azioni provocatorie da parte di un impenetrabile regime impegnato in un delicatissimo processo di transizione. Di fronte al rischio di un conflitto nella penisola coreana, Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone avrebbero perciò già innalzato il livello di guardia per contrastare eventuali mosse di Pyongyang; anche se, a ben vedere, le maggiori minacce alla stabilità della regione sembrano venire proprio da Washington e dai suoi alleati in Estremo Oriente.

Per quanto quello presieduto fino a qualche giorno fa dal 69enne Kim Jong-il sia innegabilmente un regime stalinista dittatoriale al servizio di una ristretta cerchia di potere, a contribuire in buona parte alla segretezza e alla presunta provocatorietà del governo nordcoreano in questi decenni - così come alle continue tensioni in questa porzione di Asia orientale - è stato precisamente l’atteggiamento aggressivo degli Stati Uniti. Proprio per questo, appare più che probabile che nel prossimo futuro siano gli USA a cercare di sfruttare la situazione precaria in Corea del Nord in seguito al decesso del “Caro Leader” allo scopo di destabilizzare il regime.

Ripercorrendo brevemente la storia della penisola coreana negli ultimi due decenni, appare evidente come, a partire almeno dagli ultimi anni di vita del fondatore della Repubblica Democratica Popolare di Corea, Kim Il-sung, le varie amministrazioni che si sono succedute a Washington abbiano oscillato tra promesse mancate di dialogo e aperte provocazioni. Una strategia volta a esercitare pressioni sul regime, col fine ultimo di provocarne la caduta, quasi sempre sfruttando l’annosa questione del programma nucleare nordcoreano.

Dopo il crollo nel 1991 dell’Unione Sovietica, primo sponsor della Corea del Nord, Kim Il-sung inviò segnali di distensione all’Occidente, acconsentendo alla firma del Trattato di Non Proliferazione in cambio di aiuti economici e dell’uscita dall’isolamento diplomatico. Da allora i negoziati con gli Stati Uniti hanno proceduto a singhiozzo, con questi ultimi che quasi mai hanno intrapreso serie iniziative per alleviare il senso di paranoia comprensibilmente diffuso ai vertici del regime di Pyongyang.

Nel 1994, poi, sulla questione del nucleare si giunse sull’orlo di un nuovo conflitto, evitato probabilmente per i timori delle conseguenze devastanti che ne sarebbero derivate. Dalla guerra sfiorata si arrivò invece ad una sorta di accordo, suggellato nello stesso anno dalla visita nella capitale nordcoreana dell’ex presidente Jimmy Carter, inviato da Bill Clinton per incontrare Kim Il-sung.

Con la morte di quest’ultimo poco dopo, toccò al figlio Kim Jong-il finalizzare l’accordo con gli USA. Il nuovo leader s’impegnava a smantellare le installazioni nucleari a fini militari nel paese in cambio di aiuti per sviluppare il settore civile e ristabilire relazioni diplomatiche con l’Occidente. Ancora una volta, però, da Washington non ci fu il rispetto degli accordi presi con i nordcoreani.

Le speranze di una distensione tra le due Coree ebbero un nuovo impulso quando nel 1998 a Seoul venne eletto alla presidenza Kim Dae-jung. Il nuovo presidente sudcoreano, lanciando la cosiddetta “Sunshine policy”, rappresentava in realtà quegli ambienti del suo paese interessati all’apertura dell’arretrato vicino settentrionale, visto come fonte di manodopera a basso costo. Il disgelo nella penisola coreana portò allo storico incontro tra i due Kim a Pyongyang nel giugno del 2000 e alla successiva visita del Segretario di Stato americano, Madeleine Albright, sul finire del secondo mandato dell’amministrazione Clinton.

Le speranze di pace subirono tuttavia una brusca frenata con l’arrivo alla Casa Bianca di George W. Bush, il quale congelò sul nascere i rapporti con la Corea del Nord. Nel 2002, poi, la nuova amministrazione repubblicana incluse il regime di Kim Jong-il nell’asse del male - assieme a Iran e Iraq - e lo accusò di avere avviato un programma segreto di arricchimento dell’uranio. Per tutta risposta, la Corea del Nord uscì dal Trattato di Non Proliferazione, espulse gli ispettori dell’ONU e rimise in moto le proprie installazioni nucleari.

Tramite la mediazione della Cina, principale partner nordcoreano dopo la fine dell’URSS, successivamente gli Stati Uniti accettarono comunque l’avvio di nuovi colloqui con Pyongyang, con il coinvolgimento anche di Russia, Corea del Sud e Giappone. Con le guerre in corso in Afghanistan e Iraq, infatti, l’amministrazione Bush non era disposta a fronteggiare un ulteriore conflitto in Asia orientale. I “colloqui a sei”, in ogni caso, non impedirono alla Corea del Nord di testare il primo ordigno nucleare nel 2006, seguito poi da un secondo nel 2009, poco dopo l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca.

Il presidente democratico, da parte sua, in questi tre anni ha in sostanza proseguito la stessa tattica dei suoi predecessori, alternando caute aperture ad aperte provocazioni nei confronti di Pyongyang. Un atteggiamento che s’inserisce in una strategia più ampia promossa dall’amministrazione Obama per contenere l’espansione in Asia orientale della Cina, a sua volta interessata invece al mantenimento degli equilibri esistenti nella penisola di Corea.

Sul fronte interno nordcoreano, in ogni caso, alcuni commentatori sembrano prevedere una possibile lotta di potere tra le varie fazioni del regime dopo la morte di Kim Jong-il e in vista di un complicato passaggio di consegne ad un inesperto successore, il figlio nemmeno 30enne Kim Jong-eun. Altri, al contrario, sostengono che le élite della Corea del Nord finiranno per allinearsi dietro l’erede della famiglia Kim, così da garantire la loro sopravvivenza e quella del regime stesso.

Quel che è certo è che il 26enne o 27enne Kim Jong-eun si ritrova improvvisamente alla guida di un complesso sistema di potere senza aver ricevuto il necessario addestramento previsto dal padre malato. Kim Jong-il aveva iniziato a introdurre il suo terzogenito ai vertici dello stato nordcoreano nel 2008, dopo essersi ripreso da un ictus, come raccontano i resoconti dei media.

Lo scorso anno, l’erede del dittatore venne poi fatto generale e nominato alla vice-presidenza della Commissione Militare Centrale, l’organo più potente del paese. Parallelamente, Kim Jong-eun iniziò anche ad essere oggetto della propaganda ufficiale del regime.

Secondo alcune speculazioni, per il nuovo giovane leader nordcoreano sarebbe prevista una sorta di reggenza, verosimilmente formata da alcune delle figure più vicine a Kim Jong-il, come la sorella Kim Kyong-hui e il marito Jang Song-taek, già considerato il numero due in Corea del Nord, ma anche il fidato generale Ri Yong-ho. Quasi unanime è l’opinione che il compito più arduo per Kim Jong-eun sarà consolidare il proprio potere nei prossimi anni, all’interno di una cerchia costituita da esperti (e spesso anziani) ufficiali militari e membri del Partito dei Lavoratori.

Proprio alla luce di questo scenario, appare dunque improbabile che un regime alle prese con un delicato processo di transizione decida di avventurarsi in atti provocatori che scatenerebbero la dura reazione di Stati Uniti o Corea del Sud.

Più plausibile sembra piuttosto il contrario, cioè - sempre che le élite nordcoreane abbiano effettivamente già accettato la successione del giovane Kim - un qualche gesto di distensione verso i nemici di sempre per guadagnare tempo e stabilizzare la situazione interna, proprio come fece Kim Jong-il alla morte del padre nel 1994, quando ratificò il già citato accordo per lo stop delle attività nucleari nel paese.

Questa eventualità non sembra però sfiorare gli Stati Uniti e i loro alleati. Se pure Washington ha finora riposto con cautela alla morte di Kim Jong-il, le decisioni della Casa Bianca sul possibile invio di aiuti economici alla Corea del Nord e sulla ripresa dei negoziati sono state congelate.

Allo stesso tempo, USA e Corea del Sud a partire da lunedì hanno avviato una serie di consultazioni frenetiche, così come hanno fatto anche USA e Giappone da una parte e Corea del Sud e Giappone dall’altra.

Una intensa attività diplomatica e militare da parte dei tre alleati che rappresenta forse la reale minaccia alla stabilità della regione, nonostante, per stessa ammissione degli osservatori americani e sudcoreani, non sia giunta per il momento nessuna iniziativa ostile né alcuna dichiarazione bellicosa da parte di Pyongyang dopo la morte improvvisa del “Caro Leader”.