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Vendicare l’onore di Romilda? Gli storici alle prese con la cavalleria verso le donne

di Francesco Lamendola - 21/12/2011





Nel 610 gli Avari invadono il Friuli, sconfiggono i Longobardi e uccidono il duca Gisulfo II, che cade in battaglia nel vano tentativo di difendere il suo territorio; subito dopo pongono l’assedio alla capitale, Cividale, sulle rive del fiume Natisone.
A Cividale si sono rifugiati la vedova del duca, Romilda, e un certo numero di persone non combattenti, soprattutto donne e bambini; le speranze di resistere sono poche, stante la schiacciante superiorità del nemico; per cui ben presto la duchessa decide di intavolare trattative e di addivenire a una resa patteggiata, forse con la promessa di risparmiare il saccheggio alla città e la riduzione in schiavitù degli abitanti.
Invece gli Avari, una volta entrati in Cividale, non risparmiarono né cose, né persone; rubano tutto ciò che trovano, incendiano la sventurata città e conducono via, schiavi, perfino i figli di Romilda, quattro maschi e quattro femmine; i primi riusciranno poi a fuggire dalla Pannonia e a tornare in Friuli, le seconde si sottraggono allo stupro con un’astuzia.
La loro madre, comunque, subisce la sorte peggiore: dopo essere stata torturata e violentata, a turno, da ben dodici guerrieri, viene impalata alla presenza del re nemico, Cacano, il quale, dopo averla posseduta per una notte, non si trattiene dallo schernirla con parole insultanti, mentre la condanna al tremendo supplizio.
A raccontarci la tragica conclusione dell’assedio è lo storico longobardo Paolo Diacono, nel quarto capitolo della sua celebre «Historia Langobardorum», nostra fonte principale per la conoscenza di quel periodo; il quale, forse sulla scorta di una tradizione relativa a disastrosi “inviti” femminili nei confronti del nemico (valga per tutti il caso della principessa Onoria, figlia di Galla Placidia e sorella di Valentiniano III, al re unno Attila, perché la sposasse e pretendesse come dote la metà dell’Impero Romano), precisa che Romilda aprì le porte di Cividale agli Avari spinta unicamente da una infame libidine nei confronti del re nemico, del quale si era invaghita e dal quale avrebbe ottenuto l’ingannevole promessa di sposarla.
Così, mentre veniva atrocemente suppliziata, l’infelice duchessa si sarebbe sentita apostrofare dal re avaro con queste raccapriccianti parole, riferite al palo sul quale venne infilzata: «Talem te dignum est maritum habere!», ossia: «Questo è il marito degno di te!».
Riportiamo l’intera vicenda nel racconto di Paolo Bosio, il quale si rifà, appunto, alla cronaca di Paolo Diacono e vi aggiunge qualche riflessione storica in chiave critica (in: L. Bosio, «Cividale del Friuli, la storia», Casamassima Editore, Udine, 1977, pp. 58-60):

«… Gli Avari poi, scorso l’intero Friuli e messo a fuoco e a ruba ogni cosa, strinsero d’assedio la città di Cividale, cercando con tutte le loro forze di espugnarla,. Ora avvenne che, mentre il loro re Cacano girava con gran seguito di armati intorno alle mura,  per esplorare il sito e per vedere da che parte potesse più facilmente attaccare la città, Romilda lo adocchiasse dall’alto delle mura; e, vedendo, quell’infame bagascia, ch’egli era nel fiore dell’età giovanile, da libidine accesa, gli mandò a dire, tramite un messaggero, che, se avesse acconsentito a prenderla in moglie, ella gli avrebbe consegnato la città con tutti quelli che v’erano dentro. Ciò udito, il re barbaro, con un malizioso inganno, non solo promise, ma addirittura giurò di secondarla e di farla sua sposa; ond’ella, senza frapporre indugi, aprì le porte della città e, per disgrazia sua e di tutta la gente ivi raccolta, fece entrare il nemico. Entrarono gli Avari con il loro re e devastarono e rubarono tutto ciò che riuscirono a trovare: e poi, data la città stessa alle fiamme, trascinarono schiavi quanti ivi presero, falsamente promettendo ai medesimi, tuttavia, che li avrebbero riportati nei territori della Pannonia  donde erano usciti (“Hist. Lang.”, IV, 38). Il racconto di paolo continua con il ritorno degli Avari alle loro sedi e con il disegno di uccidere tutti i maschi maggiorenni. Accortisi di ciò, i quattro figli di Gisulfo, che erano fra i prigionieri, riuscirono a fuggire. Il piccolo Grimoaldo però fu raggiunto da un Avaro e ripreso:;il giovinetto non si perse d’animo, uccise il suo carceriere e riuscì a riunirsi ai fratelli. Ma fu Romilda, sempre secondo lo storico longobardo, a pagare più di tutti e in modo feroce e barbaro per il suo tradimento. Il re degli Avari, dopo aver trascorsa una notte con lei, la lasciò alle voglie di dodici dei suoi e quindi “fatto piantare u palo in mezzo al campo, comandò che fosse infilzata per la punta del medesimo aggiungendo inoltre queste ingiuriose parole: “Ecco il marito che fa per te!”. Così la malvagia traditrice della patria s’ebbe questa fine, lei, che pensò piuttosto alla propria libidine che alla salvezza dei cittadini e dei famigliari” (“Hist. Lang.”, IV, 38). Ma le figlie di Romilda seppero riscattare l’onore delle donne longobarde, sottraendosi alle cupidigie degli Avari con uno strattagemma: nascosero, sotto le vesti, della carne che, putrefatta dal caldo, cominciò ad emanare un tale fetore da tener lontano ilo pretendente più acceso.
Dobbiamo credere a tutto quello che qui racconta Paolo Diacono e le cose sono proprio andate in questo modo? Non vi è dubbio che la distruzione della città da parte degli Avari fu completa. Ovunque si scavi oggi nel centro storico, si incontra sopra lo strato romano una larga fascia combusta di 40-60 centimetri, che chiaramente parla di incendio e di rovina. Invece mi sento di sollevare molti dubbi sul tradimento di Romilda e sui motivi che lo determinarono. La duchessa, lo dice Paolo, aveva otto figli, dunque non doveva essere proprio giovanetta; inoltre aveva perduto da pochi giorni il marito e si trovava con la sua gente tagliata fuori da ogni aiuto. Le cose poi non dovevano andare troppo bene a Cividale, presa alla sprovvista dall’improvvisa incursione degli Avari, tanto che Gisulfo era riuscito a raccogliere solamente pochi dei suoi. Infine, con che forze si poteva difendere la città e quanto era possibile resistere all’assediante? Questi pensieri certo dovettero passare per la mente di Romilda che probabilmente fu portata a scegliere il male minore: arrendersi al nemico a discrezione chiedendogli clemenza per sé e per i suoi. Gli Avari accettarono il patto, diedero la parola che poi non mantennero e fu la distruzione per la città, la fine per gli abitanti e per Romilda.
Viste così le cose, il tradimento della duchessa e soprattutto il motivo che lo determinò diventano assai discutibili, anzi molto improbabili. Ed allora perché questa recisa presa di posizione di Paolo nei confronti di Romilda? Lo storico si riferisce molto probabilmente a quel “ciclo di leggendari racconti”, come dice il Leicht, che aveva ascoltato quand’era ancor ragazzo, aggiungendovi qualcosa di suo, almeno la dura riprovazione e il commento. E questi racconti con il tempo dovevano aver snaturata la realtà dei fati, anche perché questi offrivano diversi punti oscuri sulla condotta degli stessi Longobardi che, nel momento del pericolo, si erano rifugiati nei “castra”, abbandonando al loro destino il duca e la capitale e mettendo in tal modo in dubbio la tanto esaltata fierezza del loro popolo. Così si trovò la scusa del disastro e del poco onorevole comportamento di tanti Longobardi nella passione peccaminosa di Romilda ed il tradimento giustificò la sconfitta, come accade da sempre. Paolo Diacono dovette far sua questa posizione sia perché longobardo, sia perché direttamente interessato alla faccenda:il suo antenato Lopichis si trovava fra gli assediati di Cividale. Naturalmente egli si preoccupò di opporre alla disonestà della madre il coraggio dei figli e la verecondia delle figlie e questo ristabilì l’onore longobardo, condannando però per sempre la malcapitata Romilda.»

Sì, è perfettamente vero: il racconto di Paolo Diacono convince poco, è scarsamente verosimile; e, come se non bastasse, esistono ragioni per pensare che egli lo abbia gonfiato, se non addirittura inventato di sana pianta, per un interesse personale, ossia per riscattare la memoria di un suo antenato coinvolto nella ingloriosa caduta di Cividale sotto i colpi degli Avari.
Queste considerazioni, tuttavia, sono sufficienti per escludere totalmente che quanto narrato nella «Historia Langobardorum» sia la verità o, almeno, una buona approssimazione di essa?
Qui ci sono sul tappeto almeno due questioni di ordine generale, con le quali la storiografia deve fare i conti, per quanto scomode possano apparire e, soprattutto, per quanto risultino imbarazzanti e politicamente scorrette.
La prima è se un evento storico attestato dalle fonti, per quanto poco verosimile, debba essere scartato a priori, solamente perché non si accorda con l’idea che noi moderni ci siamo fatta di ciò che è probabile e di ciò che non lo è; questione, dunque, che ha a che fare con il razionalismo ormai imperante nella nostra società e nella nostra cultura.
La seconda è se un evento che mette in cattiva luce il membro di una comunità o di un gruppo sociale che ha subito a lungo delle discriminazioni, debba essere “assolto” a priori da accuse che sembrano scaturire appunto dalla mentalità dominante, responsabile, a suo tempo, di quelle discriminazioni.
Ebbene, se si riflette in maniera spassionata su entrambe le questioni, non si può che rispondere negativamente sia all’una, che all’altra; e tanto peggio per la verosimiglianza, o per ciò che a noi sembra verosimile, nonché per gli stereotipi culturali, o meglio per ciò che a noi sembra nascere unicamente da stereotipi culturali.
Vogliamo dire che un evento non può essere escluso in partenza solo perché ci sembra poco probabile, oltretutto quando si tratti di un evento passato, inscrivibile in un paradigma culturale diverso dal nostro (in cui diverso, evidentemente, era anche il concetto di ciò che è verosimile e di ciò che è probabile). Per esempio, non si può escludere che le streghe siano esistite, e magari che siano state capaci di manifestare dei poteri preternaturali, solo perché ci piace pensare che la caccia alle streghe in Europa, essendo stata inumana, sia stata anche fondata sul nulla, cioè su reazioni puramente isteriche a delle calamità naturali o, peggio, sulla deliberata ricerca di un capro espiatorio sul quale scaricare la tensione sociale.
E vogliamo anche dire che, allo stesso modo, un evento non può essere escluso a priori solo perché sembra confermare certi stereotipi culturali, dal momento che può succedere che, una volta tanto, gli stereotipi culturali coincidano con la realtà dei fatti. Per esempio, non si può affatto escludere, in via di principio, che alcuni gruppi di Ebrei praticassero il sacrificio rituale a danno di bambini cristiani, solo perché, avendo gli Ebrei molto sofferto a causa dell’antisemitismo, ci piace pensare che tutte le accuse loro rivolte fossero sempre e comunque il frutto di esagerazioni, di pregiudizi, di ignoranza o, peggio, di una criminale volontà di far loro tutto il male possibile, ad ogni occasione che si presentasse.
Opinare diversamente, significherebbe cadere nella forma mentale più antistorica che si possa immaginare: quella ideologica, secondo la quale sono i fatti a doversi accordare con le teorie, e non queste ultime a dover scaturire da un esame spassionato dei fatti.
E adesso veniamo a Romilda. Che avesse superato l’età in cui si provano robusti appetiti sessuali, solo perché aveva avuto otto figli, è una sciocchezza. A quel tempo le nobildonne longobarde, e non loro soltanto, si sposavano molto giovani, anche a quattordici anni, dopo di che le gravidanze si succedevano a distanza ravvicinata; per cui Romilda poteva avere avuto benissimo otto figli e nondimeno essere ancora piuttosto giovane, magari sotto la trentina. E poi, quale squinternato psicologo si è mai sognato di affermare che, passata una certa età, è una legge di natura che il desiderio sessuale scenda in caduta libera e scompaia addirittura?
Certo, si fa fatica a pensare che la duchessa abbia tradito i suoi concittadini e i suoi stessi familiari solo per darsi a un nemico, intravisto dall’alto delle mura di Cividale; e questo appena pochi giorni dopo che le avevano ammazzato il marito.
Tuttavia, per le ragioni appena esposte, che si faccia fatica ad accettare certi fatti passati i quali ci sono stati narrati da altri, è un problema nostro, non della storia; così come è un problema degli scienziati quello di non poter ammettere che delle impronte di piedi umani siano state rinvenute su alcune rocce antiche di milioni di anni, solo perché il nostro attuale paradigma scientifico afferma che l’uomo, a quella data, non esisteva affatto.
Ricordiamo, ancora una volta, l’aurea massima dell’autentico ricercatore della verità: sono le teorie che devono accordarsi ai fatti; coi fatti non si litiga, mai; bisogna soltanto riuscire a interpretarli nel modo giusto, però senza forzarli e, soprattutto, senza far finta di non vedere quelli che non si accordano con le nostre idee.
Certo, ci sembra più accettabile l’idea che Romilda abbia pensato anche, e soprattutto, alla salvezza della città, o che abbia pensato a quella solamente: ma come escludere che, dopo la resa, sia entrata in intimità con il re degli Avari, magari da lui costretta, e che se ne sia invaghita? Sono cose che succedono; abbiamo visto, anche dalle cronache recenti, che, talvolta, la vittima di un rapimento si innamora del proprio carceriere. Ma può succedere anche di più: per esempio, come narrato da Liliana Cavani nel film «Il portiere di notte», che la vittima di una estrema violenza, come quella che è stata perpetrata nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale, si innamori perdutamente del suo carnefice e rimanga a lui legata, per la vita e per la morte, anche quando la guerra è finita da moltissimo tempo e, con essa, le circostanze eccezionali che li avevano messi l’una di fronte all’altro.
Ma, si obietta, Paolo Diacono aveva le sue buone ragioni, sia di stirpe che familiari, per gettare su Romilda una luce del tutto negativa: vendicare l’orgoglio ferito dei Longobardi e proteggere la memoria del suo avo Lopichis. Inoltre, aggiungono le solite femministe (dare un’occhiata a Internet per rendersene conto), il suo racconto è sin troppo conforme alla bieca mentalità maschilista del “buio” e “incivile” Medioevo, così scandalosamente digiuno in fatto di diritti dell’uomo, della donna, delle minoranze, degli omosessuali e chi più ne ha, più ne metta.
Insomma, gira e rigira, torniamo sempre lì: al pregiudizio ideologico; al «non può essere vero, perché non mi piace»; o, peggio ancora, alla freudiana cultura del sospetto, al «deve esserci sotto qualcosa, sicché le cose devono stare al contrario di come appaiono».
Sembra quasi che gli storici (uomini), in casi come questo, si sentano in colpa verso il sesso femminile e vogliano farsi perdonare le passate prepotenze esercitate sulle donne da parte degli uomini, per cui si fanno in quattro ad escludere, a negare, a contestare; e, in ciò, entra pure un elemento caratteristico della nostra cultura: il ricatto morale e la dittatura invisibile esercitata dalle vittime, o magari dai loro lontanissimi discendenti, nei confronti degli altrettanto lontani  discendenti dei carnefici di quelle stesse vittime.
Ma la storia è ricerca del vero, puramente e semplicemente; se ne infischia dei nostri sensi di colpa, più o meno giustificati, così come dei nostri ricatti morali e di tutte le storture psicologiche e culturali che caratterizzano il nostro tempo.
Lo storico non ha amici ma, in compenso, innumerevoli nemici; non guarda in faccia a nessuno, va dritto per la sua strada.
Con questo, vogliamo solo dire che non possiamo escludere che, nel caso di Romilda, e in alcuni altri casi, le cose siano andate proprio come ci sono state tramandate, per quanto ciò possa fare a pugni con quello che noi riteniamo verosimile e, magari, moralmente giusto; ma non siamo neppure in grado di affermarlo con certezza.
E qui cade un altro grosso mito della sedicente scienza storica: quello di poter conoscere con un sufficiente grado di certezza la verità degli eventi, per quanto lontani nel tempo, per quanto attestati da fonti scarse, avare e, per giunta, tutt’altro che obiettive e rigorose.
Poco sappiamo e molto crediamo di sapere, questo è il fatto; dovremmo imparare un po’ più di umiltà, specialmente quando studiamo la storia di molti secoli fa.
Che Romilda ci perdoni e che ci perdonino tutte le anime belle che vorrebbero sempre innocenti le vittime, e sempre razionali le vicende umane.
Forse ella fu davvero innocente del crimine di tradimento verso la sua gente; o forse ebbe realmente la debolezza di innamorarsi del nemico, dal quale sperava di ricevere un trattamento umano e di veder mitigata la sorte dei suoi familiari: ma certo non è vero che una donna non sia capace di tradire le cose più sacre, tanto quanto lo è un uomo, compresi i suoi figli.
Sarà poco cavalleresco, ma vogliamo ricordare ugualmente il gesto e le parole di Caterina Sforza assediata in Forlì, cui i sudditi ribelli minacciavano di uccidere i sei figli, presi prigionieri: alzando le gonne dall’alto delle mura e mostrando i genitali, ella gridò in faccia ai nemici: «Uccideteli pure; ho qui lo stampo per farne degli altri!».