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Se anche la Cina è alle prese con i subprime

di Mauro Bottarelli - 27/12/2011

Fonte: Il Riformista




La Cina, per la quarta volta quest’anno, si è detta pronta ad aiutare l’eurozona: ma Pechino è ancora il grande e credibile player mondiale che ha trascinato la crescita degli ultimi anni? Il ministro per il Commercio cinese ha reso noto che gli investimenti diretti stranieri in Cina a novembre sono calati per la prima volta dal 2009: gli 8,8 miliardi di dollari totali rappresentano infatti una diminuzione del 9,8 per cento rispetto all’anno precedente. In particolare, quelli dagli Stati Uniti sono scesi del 23 per cento a 2,74 miliardi di dollari.
Di più, sempre dati governativi parlano di un trend tutt’altro che ottimistico per l’export cinese nel 2012, della diminuzione del margine di crescita commerciale in dicembre, del calo del 2 per cento dell’export cinese in ognuno degli ultimi tre mesi di quest’anno, a fronte di un aumento delle importazioni del 5 per cento rispetto all’export. Quindi, il deficit commerciale comincia a fare capolino anche in Cina, la locomotiva del mondo rallenta e rimanda sinistri scricchiolii.
Sempre in novembre, la massa monetaria M2 è calata del 12,7 per cento, il peggior arretramento da dieci anni a questa parte. I nuovi prestiti sono calati del 5 per cento sulla basa mese-su-mese e la Banca centrale ha allentato di molto la cinghia, tagliando nettamente le richieste di riserva per le banche per la prima volta dal 2008. Insomma, anche in Cina comincia a scarseggiare la liquidità. Lo confermava ieri il China Daily, che dava notizia del fatto che i due principali creditori provinciali del paese, la Hunan Provincial Expressway Construction Group e la Guangdong Provincial Communications Group stanno ritardando i pagamenti di 3,11 miliardi di yuan di interessi, mentre il totale accumulato da parte dei principali 11 debitori del paese è di 30,16 miliardi, nonostante all’inizio di novembre 55 province cinesi fossero tornate sui mercati di capitale per racimolare fondi. La Borsa di Shanghai ha perso il 30 per cento da maggio ad oggi e addirittura il 60 per cento dai picchi del 2008, in termini reali più o meno quanto perso da Wall Street tra il 1929 e il 1933.
Insomma, il grande capo dei Brics non scoppia affatto di salute ma il mercato non sembra prezzare in maniera seria questa situazione e sottovaluta la probabile reazione dei Brics all’avvitarsi della crisi: ovvero, scaricare merci e innescare uno shock deflazionario per il resto del mondo. Tanto più che, a dispetto delle richieste statunitensi, Pechino sta pensando a una svalutazione dello yuan il prossimo anno, a fronte del continuo apprezzamento in area 4 per cento di quest’ultimo trimestre. E, in effetti, a fronte di riserve per 3,2 triliardi di dollari, la Cina conosce da tre mesi un continuo calo, nonostante il surplus commerciale: insomma, i soldi cominciano a prendere il volo verso l’estero. E le riserve non possono essere reintegrate per stabilizzare il sistema bancario interno, poiché significherebbe rimpatriare denaro ora investito in debito Usa e dell’eurozona e così spingere ulteriormente al rialzo lo yuan. I consumi sono scesi dal 48 al 36 per cento del Pil dalla fine degli anni Novanta, mentre gli investimenti sono cresciuti del 50 per cento: un tasso insostenibile che ora reclama il conto. I ricchi cinesi, non potendo investire all’estero e con gli interessi bancari al -3 per cento in termini reali, compravano due, tre appartementi come investimento per immobilizzare il loro capitale.
Ora però, a fronte di una ratio tra stipendi e costo delle vita al livello mortale di 1:18, molti di quegli appartamenti, quasi sempre sfitti, stanno gonfiando una bolla interconnessa direttamente con il sistema bancario. Si svende quindi, soprattutto nelle città costiere. Per l’Fmi i prestiti sono raddoppiati raggiungendo il 200 per cento del Pil negli ultimi cinque anni, inclusi quelli fuori bilancio: stiamo parlando di un intensità di crescita del credito doppia rispetto a quella dei cinque anni che precedettero la bolla dell’indice Nikkei a fine anni Ottanta o quella legata ai subprime tra il 2002 e il 2007 negli Stati Uniti.
E, infatti, nella nuova classifica mondiale degli istituti bancari in base al loro market cap, si scopre che le prime tre sono cinesi: ICBC, CCB e Agricoltural Bank of China hanno surclassato tutti, con i due giganti Usa Wells Fargo e JP Morgan rispettivamente al quarto e sesto posto.
Accadde così anche al Giappone nel 1991, poi fu crisi nera.