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Irak, è l’ora della guerra interna

di Michele Paris - 27/12/2011



A soli pochi giorni dal ritiro ufficiale delle ultime truppe statunitensi dall’Iraq, il travagliato paese mediorientale sembra essere già precipitato nel caos. Con il fragile governo di unità nazionale sull’orlo della crisi e il rischio concreto di nuove violenze settarie, dopo quasi nove anni di occupazione la popolazione irachena si ritrova a dover fronteggiare nuovamente gli spettri della dittatura e della guerra civile, con la possibilità tutt’altro che remota di un ritorno delle forze armate americane.

La fine delle operazioni USA in Iraq è stata festeggiata con una cerimonia ufficiale giovedì scorso, mentre il contingente militare residuo ha lasciato il paese nel fine settimana. Pochi giorni prima, il presidente Obama aveva ricevuto a Washington il premier, Nuri Kamal al-Maliki, al quale aveva espresso tutto il suo apprezzamento per i progressi fatti dal sistema politico iracheno, saldamente avviato verso un futuro democratico. Gli stessi elogi verso il governo di Baghdad sono stati espressi da Obama anche nel suo discorso tenuto di fronte ai militari rientrati dall’Iraq, ovviamente senza citare l’illegalità della guerra scatenata nel 2003 e la totale devastazione del paese causata dall’invasione americana negli anni successivi.

La vera faccia della realtà irachena, al di là delle lodi dell’amministrazione democratica di Washington, è tuttavia apparsa in tutta la sua evidenza proprio in seguito ad una nuova serie di azioni messe in atto da Maliki per consolidare il suo potere a spese degli avversari politici. Da tempo la gestione del primo ministro è d’altra parte oggetto di dure critiche, soprattutto da parte della minoranza sunnita nel paese, tanto che venerdì scorso il blocco parlamentare Iraqiya aveva preso la decisione di boicottare l’attività del governo dopo la presentazione in Parlamento da parte della maggioranza sciita di una mozione di sfiducia contro il vice-premier sunnita, Saleh al-Mutlaq, responsabile di aver bollato Maliki come “dittatore” nel corso di un’intervista televisiva.

Domenica scora, poi, i servizi segreti agli ordini di Maliki hanno arrestato sette guardie del corpo del vice-presidente iracheno, il sunnita Tariq al-Hashimi, perché accusate di terrorismo. A far precipitare la situazione è stato infine il mandato d’arresto emesso il giorno successivo ai danni dello stesso Hashimi, a sua volta accusato di aver ordinato una serie di attacchi terroristici nel paese contro gli sciiti, tra cui un tentativo di assassinare il primo ministro.

Il mandato di cattura per Hashimi era stato preparato da un’altra iniziativa più consona ad un regime dittatoriale che ad una nascente democrazia, vale a dire la trasmissione in TV delle confessioni di alcune ex guardie del corpo del vice-presidente, le quali hanno ammesso di aver portato a termine attentati terroristici ordinati dal loro autorevole superiore. Per sfuggire all’arresto, Hashimi si è rifugiato nella regione settentrionale semiautonoma del Kurdistan iracheno, dove le forze di sicurezza di Baghdad non hanno giurisdizione.

La vicenda che coinvolge Hashimi è solo il più recente sviluppo di una strategia messa in atto negli ultimi mesi da Maliki per mettere a tacere i propri oppositori interni e che comprende ondate di arresti di sunniti accusati di aver fatto parte del partito Baath di Saddam Hussein ed ex ufficiali che avrebbero complottato per rovesciare il governo centrale. Quest’ultima accusa trae origine dalle informazioni passate a Maliki dal nuovo governo libico, il quale avrebbe a sua volta scoperto documenti segreti a Tripoli che documentano come Gheddafi avesse finanziato e incoraggiato una rivolta sunnita contro il premier sciita dopo l’addio dei soldati americani all’Iraq.

Che il primo ministro non abbia alcuna intenzione di fare marcia indietro lo si è visto anche in una lunga intervista alla TV irachena andata in onda mercoledì, nella quale Maliki ha minacciato, tra l’altro, di rendere pubbliche nuove prove in suo possesso che implicherebbero alcuni avversari politici in attentati terroristici.

In questo scenario, il governo guidato da Maliki appare in grave pericolo, se non già formalmente in crisi. L’esecutivo guidato dal premier sciita era nato grazie al raggiungimento di un faticoso accordo nel dicembre 2010 dietro le pressioni americane e a distanza di ben nove mesi dalle elezioni parlamentari. Maliki aveva potuto così conservare la carica di primo ministro, anche se le altre formazioni politiche rappresentanti le minoranze curda e sunnita avevano ottenuto cariche importanti. L’accordo di governo si fondava soprattutto sulla collaborazione di Iraqiya, di cui fa parte il vice-presidente Hashimi e che dopo l’emissione del mandato di cattura ha annunciato invece il ritiro dei propri ministri dal gabinetto.

Il riesplodere del settarismo in Iraq dopo la parziale uscita di scena degli Stati Uniti è da attribuire in primo luogo ai leader politici espressione dei vari gruppi religiosi, che sfruttano le divisioni nel paese anche per cercare di distogliere l’attenzione degli iracheni dalla situazione disastrosa seguita all’invasione americana del 2003 di cui hanno ampiamente beneficiato. Il profondo malcontento che attraversa la popolazione è testimoniato infatti dalle numerose manifestazioni di protesta esplose in varie località del paese nei mesi scorsi sull’onda della Primavera Araba.

In questo quadro di tensioni settarie si inseriscono anche i malumori delle province a maggioranza sunnita che stanno cercando una qualche autonoma da Baghdad, sul modello della regione curda. Particolarmente delicata appare la situazione nella provincia orientale di Diyala, dove i leader sunniti hanno chiesto maggiori poteri al governo centrale. A queste richieste ha fatto seguito però la dura reazione di Baghdad, concretizzatasi con una serie di manifestazioni organizzate dai partiti locali alleati di Maliki che hanno causato la fuga del governatore sunnita - anch’egli rifugiatosi nel Kurdistan iracheno - sostituito dal suo vice, di fede sciita.

La domanda di una maggiore autonomia da parte di queste province deriva dai timori diffusi per l’eccessiva vicinanza all’Iran di Maliki e del suo governo, laddove i sunniti desidererebbero invece una maggiore affinità con l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo.

Da qui l’apprensione del primo ministro che l’uscita di scena degli USA possa rinvigorire i sunniti, contro i quali si scaglia denunciando ipotetiche trame per rovesciare il suo governo e ristabilire un regime simile a quello di Saddam. Per questa ragione, Maliki continua anche a rifiutarsi di condannare il regime di Assad in Siria, poiché una sua caduta potrebbe avere effetti nefasti per Baghdad. Un nuovo governo a maggioranza sunnita e anti-iraniano a Damasco darebbe infatti un’ulteriore impulso alle rivendicazioni sunnite in Iraq.

Per gli iracheni, in ogni caso, una nuova guerra settaria nel paese avrebbe conseguenze catastrofiche. Il conflitto causato dall’occupazione americana ha già causato centinaia di migliaia di morti tra i civili, soprattutto tra il 2006 e il 2008, nonché abusi, atrocità diffuse e più di quattro milioni di profughi. A ricordare la precarietà della situazione in Iraq, giovedì mattina nella capitale sono state varie esplosioni che hanno provocato più di sessanta morti e centinaia di feriti.

La crescente instabilità nel paese è seguita infine con grande apprensione dagli Stati Uniti, da dove l’amministrazione Obama si sta muovendo per cercare di calmare gli animi a Baghdad. Nei giorni scorsi, ad esempio, il vice-presidente Joe Biden ha avuto colloqui telefonici con Maliki e con il presidente iracheno, Jalal Talabani, per spingere le parti verso un compromesso. Allo stesso tempo, nonostante le imminenti festività natalizie, il presidente democratico ha rispedito in Iraq sia l’ambasciatore USA, James Jeffrey, che il direttore della CIA, David Petraeus, nel tentativo di evitare che la situazione possa sfuggire definitivamente di mano.