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Contro la cultura moderna

di Leonardo Petrocelli - 02/01/2012

Fonte: centrostudiparadesha

La più bella ricostruzione etimologica della parola cultura fa riferimento al babilonese “Culto di Ur”, qui inteso come Culto della Luce, sentiero immateriale che conduce ad una vivificazione della natura divina insita in ogni uomo, eppure solo da pochi declinabile in un sentiero progressivo di illuminazione. Nulla a che spartire, quindi, con sofisticate alfabetizzazioni e cattedratiche lezioni, impartite da scranni di accademie profane ad allievi desiderosi di aumentare la propria erudizione in un crescendo meramente quantitativo di nozioni prive di una qualsivoglia utilità sostanziale. Quest’ultimo modus operandi è quello della cultura moderna, nata dal basso, da una domanda di emancipazione delle classi mercantili, le quali, avendo in spregio quella sapienza di cui non riuscivano a cogliere neppure il minimo riflesso, ne hanno imposta una diversa, addomesticata, depotenziata ed indubbiamente assai meno pericolosa della precedente per il mondo che si preparavano ad edificare. La marcia di tale “conquista” è andata tragicamente avanti. Eppure, finanche nel Novecento, potrebbe capitare di imbattersi in un ragionamento eterodosso come quello che segue: “Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma bruta di recipiente da empire e stivare di dati empirici, di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura [...] serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne una barriera. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore [...] che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e vaneggiatori, più deleteri per la vita di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi.”.
Ci siamo concessi una così lunga citazione – contravvenendo a tutte le norme del ben scrivere – non tanto per il valore dei suoi contenuti, che avremmo potuto esplicitare anche senza servirci del virgolettato, ma a cagione dell’autore di tale brano. Non si tratta di un fascinoso metafisico o di un irriducibile tradizionalista, bensì del laico e materialista Antonio Gramsci che nel 1916 dalle colonne de Il Grido del Popolo tuonava contro la cultura illuminista e le sue nefaste conseguenze. Naturalmente, da par suo, ad essa opponeva il mito dell’operaio specializzato, della fattuale abilità modernista e produttivista, cercando faticosamente di salvar qualcosa delle rivoluzioni del ’79. È forse inutile dilungarci nello spiegare perché tale prospettiva rovini la brillante critica iniziale, facendo rientrare il discorso in un’alcova proletaria e dunque non meno materiale di quella borghese. Le due facce della medaglia si elidono e riportano la questione a zero. Una tabula rasa che citiamo non casualmente perché proprio di “zero” cultura, intesa in senso modernista, ha bisogno l’uomo per elevarsi verso vette trascendenti, necessitando per l’impresa solo di una naturale predisposizione e, qualora i tempi lo permettano, di una guida capace di condurlo sul giusto sentiero. Null’altro occorre, essendo già il contadino analfabeta che vive in ciclica simbiosi con la propria terra molto più vicino al divino, e dunque alla verità, di quanto non lo sia un poeta maledetto rigonfio di assenzio e di sofisticati pensieri. E qui giova ricordare quella storiella zen dell’illuminato che versò al neo-discepolo il tè in una tazza già colma, sentenziando, mentre il liquido debordava, che per ospitare la sapienza egli avrebbe dovuto svuotare se stesso da tutte le sciocchezze apprese nel corso della sua vita profana, altrimenti per il vero non ci sarebbe stato spazio. La quantità di cultura iniettata in un popolo potrebbe essere quindi presa come metro di valutazione per misurare la sua lontananza dalla sapienza primordiale. Non a caso, nelle epoche in cui la cultura fiorisce l’uomo decade spaventosamente. Scrive Guénon a proposito del Rinascimento: “La civiltà occidentale moderna appare nella storia come una vera e propria anomalia; fra tutte quelle che sono più o meno completamente conosciute, questa civiltà è la sola a essersi sviluppata in un senso puramente materiale, e questo sviluppo mostruoso, il cui inizio coincide con quello che si è convenuto chiamare Rinascimento, è stato accompagnato, come fatalmente doveva, da una regressione intellettuale corrispondente”. E, quasi a completamento, ecco l’Evola di Rivolta definirne i tratti essenziali: “Il potenziale raccoltosi in precedenza (nel Medioevo, nda) sulla direzione verticale – verso l’alto come nel simbolo dei duomi gotici – si scarica ora sulla direzione orizzontale, verso l’esterno producendo, per super- saturazione di domini subordinati, fenomeni atti a far colpo sull’osservatore superficiale: nella cultura il prorompere tumultuoso di forme molteplici di una creatività quasi del tutto priva di ogni elemento tradizionale o comunque simbolico, quindi profana e sconsacrata.”. E qualche riga più avanti: “Nella Rinascenza la ‘paganità’, in realtà, valse essenzialmente a sviluppare la semplice affermazione dell’uomo, a fomentare una esaltazione dell’individuo, il quale passa ad inebriarsi delle produzioni d’arte, di una erudizione e di una speculazione prive di ogni elemento trascendente e metafisico”.
Il periodo su cui indugiamo perché universalmente ritenuto foriero di collettivi risvegli in virtù di una notevole esplosione culturale, si rivela così essere l’incipit del disastro, avendo esso distrutto il sapiente ordine medievale e posto al centro di tutto non più il divino, bensì l’umano con tutto ciò che ne consegue. Peraltro, la suddetta fase inaugurò un sistema, giunto fino a noi dopo secoli di perfezionamento, in virtù del quale la presunta elevazione dell’individuo dovrebbe procedere da compravendite di oggetti (libri), iscrizioni ad istituzioni a pagamento (scuole, università, circoli), intuizioni imprenditoriali, mecenatismi non privi di finalità di profitto e, soprattutto, da un processo di emancipazione sociale ed economica che consenta l’accesso a tutto questo. Invece di essere libera come i suoi proclami suggeriscono, la cultura moderna è vincolata alla disponibilità di denaro e risorse e, soprattutto, fatalmente connessa ad un processo che tutto ingloba nel meccanismo produzione/consumo. Per cui essa si qualifica non come una via di fuga dalle meschinità del materialismo contemporaneo, ma semplicemente come un ennesimo anello della catena, la milionesima rotella perfettamente inserita nell’ingranaggio. Paradossalmente, pur conformandosi ad una dottrina che non conosce democrazie, rancori sociali ed egualitarismi di sorta, il Culto della Luce si segnala anche per la sua gratuità, la sua perfetta aderenza alla più intima natura del singolo e, soprattutto, per la sua capacità – qualora le qualificazioni dell’individuo in questione lo consentano – di spingere quest’ultimo oltre la soglia fatale, quella che nulla di ciò che appartiene a questo mondo potrà mai far intravedere.