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Le prove logiche dell'esistenza di Dio da Anselmo d'Aosta a Kurt Gödel

di Giovanni Tateo - 02/01/2012

Fonte: centrostudiparadesha




Si può essere del tutto certi che in epoche molto remote, e per ciò stesso irraggiungibili dagli storiografi, gli uomini non avessero alcun dubbio sull'esistenza dell'Essere Supremo. Come certamente intuì Walter F. Otto, l'uomo arcaico possedeva un'esperienza diretta della Divinità – ed è infatti da questa che nacquero tutte le forme del Sacro, un contatto talmente immediato e potente, da fornire di Essa un'evidenza assoluta e totale. Purtroppo tale stato di grazia non potè tuttavia perdurare ed il contatto immediato col Divino divenne privilegio di pochissimi tra tutti coloro che dedicavano la propria esistenza alla conoscenza. Dalla conoscenza immediata della Divinità si passò quindi ad una sua indagine indiretta: dall'illuminazione spirituale alla ricerca razionale. In verità, quest'ultima nacque come traduzione, adeguata per quanto era possibile, nel linguaggio del pensiero umano, di tutte quei misteri divini ed ineffabili, che in origine brillavano solo come folgorazioni nella coscienza degli eletti. Solo molto più tardi la ragione ed i suoi metodi osarono distaccarsi dalla propria fonte sovrarazionale, rischiando di conseguenza di perdere i propri stessi presupposti, invalidando irrimediabilmente le proprie affermazioni (la crisi dei fondamenti nella filosofia e nelle scienze). Tutto ciò che un tempo era evidente come la luce del Sole divenne talmente oscuro da necessitare di un'indagine ardua e costellata da innumerevoli pericoli. Il Sacro Graal era andato perduto e bisognava ritrovarlo con gli unici mezzi rimasti a disposizione dei volenterosi: filosofia e teologia. È solo a partire da questa drammatica situazione che prende avvio l'opera in questione, la quale appunto traccia la storia sin qui compiuta dei tentativi di dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio, e delle obiezioni mosse alle affermazioni prodotte da quegli stessi sforzi. Tutto quanto abbiamo detto precedentemente non è presente nel testo, ma spiega molto bene quel che evidenzieremo più avanti.
Lo studio in oggetto si presenta quindi come una storia della filosofia, a partire dalla nascita del pensiero filosofico cristiano, considerata dalla prospettiva del problema fondamentale dell'essere divino in sé e per sé; era indispensabile, infatti, fornire di volta in volta una sintesi minima del pensiero dei diversi filosofi o teologi impegnati nel dibattito sul tema.  
L'autore, filosofo e teologo, ci offre dunque una straordinaria panoramica di tutte le posizioni assunte nella storia del pensiero occidentale rispetto al più capitale degli interrogativi filosofici, coniugando un'esposizione ed un'analisi accurate degli argomenti ad un linguaggio chiaro ed efficace.
Nella sezione conclusiva dell'opera vengono riassunte tutti gli elementi di maggiore problematicità della tesi dimostrativa: 1) il passaggio, implicito nella costruzione della dimostrazione, dal piano  logico a quello ontologico, ossia il salto dal concetto di Dio alla prova della sua esistenza effettiva; 2) la distinzione tra la possibilità di Dio e la sua necessità, secondo cui la realtà divina è unica nel suo genere, e pertanto non può essere dimostrata al pari di qualunque altro ente particolare; 3) una concezione astratta di Dio che presta il fianco all'obiezione ateistica che afferma che l'essere eterno ed infinito è la materia stessa.
Per quanto riguarda il primo punto, la critica al salto effettuato, a ben vedere, metterebbe in crisi la validità intrinseca del pensiero umano quale attività conoscitiva, giacché è solo l'intelletto a giudicare e ad ammettere oppure no l'esistenza “fattuale” degli enti. Al di fuori del pensiero e della coscienza non si dà alcuna percezione o conoscenza della realtà. Nel XX secolo, ad esempio, è stato Titus Burckhart ad  affrontare la questione con chiarezza ed efficacia esemplari nei suoi due saggi: Cosmologia perennis e Scienza non saggia, entrambi contenuti nel suo Scienza moderna e saggezza tradizionale (Borla), ma su questo ritorneremo.
È abbastanza strana e sorprendente, dal nostro punto di vista, data la concezione tradizionale dell'Essere Supremo, l'obiezione all'affermazione della sua assoluta necessità, e nel contempo unicità: l'intuizione di tutto ciò dovrebbe essere del tutto immediata e semplice da qualunque punto di vista se ne consideri il contenuto: non è possibile affermare gli esseri prima di aver affermato l'Essere, o non si possono concepire  le realtà prima di aver innanzitutto concepito la Realtà.
In terzo luogo, certamente la pecca di molti tra coloro che si sono impegnati nella dimostrazione è di aver dimenticato che le tradizioni sacre hanno sempre affermato Dio quale supremo Vivente, anzi, come la stessa Vita perfetta ed eterna, e come somma Intelligenza. Solo in virtù di tali idee è possibile respingere la tesi della materia quale realtà universale, infinita ed eterna; senza contare che essa è soggetta al tempo, cosa che invece si nega completamente del vero Essere eterno; infatti, anche se si ammettesse l'infinità del tempo, questa non sarebbe assolutamente paragonabile a quella dell'Eternità, e pertanto l'entità che perdurasse per tutto questo tempo infinito, sarebbe comunque cosa totalmente altra rispetto all'essere che sussiste nell'Eternità.
Ritorniamo ora alla conclusione della nostra introduzione: lo studio di Timossi non fa alcun riferimento alla filosofia greca, e certamente sarebbe stato invece estremamente utile farlo, sopratutto perché - e questo è per noi il grande problema di fondo legato a tutte le obiezioni più forti ai vari tentativi di dimostrazione – tutte le difficoltà di ordine gnoseologico (è lecito considerare la dimostrazione logica della Divinità come prova valida del suo esistere?) non tengono in alcun conto la questione circa l'origine stessa della conoscenza, e quindi anche della logica quale strumento conoscitivo, giacché essa o possiede validità ed efficacia in tal senso, oppure, cosa assurda, essa è del tutto inutile. In effetti, anticamente, questo problema fu già affrontato dai sapienti greci: Parmenide di Elea, che fu tra i primi veri protagonisti dell'avventura della filosofia occidentale, infatti fissò i due capisaldi primari sia dell'ontologia che della logica: 1) “l'essere è ed il non-essere non è”, ossia, da un lato: la realtà è e la non-realtà non è; dall'altro: ogni essere è se stesso e non è altro da sé (A = A e A è diverso da non A), in pratica affermando il principio di non contraddizione; 2) “sono la stessa cosa l'essere ed il pensiero”, infatti la vera realtà è quella intelligente, intelligibile, immutabile ed eterna, non quella corporea e diveniente. In questo modo logica ed ontologia sono tutt'uno: ciò che è logicamente vero lo è anche realmente. Infine, ciò che è ancor più straordinario ed esemplare in Parmenide è la fonte della sua conoscenza: nel suo Poema sulla Natura  è dichiarato esplicitamente che la sua non è una comune attività intellettuale, ma l'esperienza misterica del contatto diretto con la verità, che non è affatto un'astrazione del pensiero, ma una divinità a tutti gli effetti (la dea che gli insegna ciò che egli ci trasmette in poesia). Questo, come direbbe Peter Kingsley – che a Parmenide ha dedicato lo straordinario Nei luoghi oscuri della saggezza (Tropea) -, è il grande “rimosso” della coscienza e del pensiero – non solo filosofico o teologico – occidentale, l'ostacolo più insormontabile alla nostra effettiva consapevolezza. Quello che ci impedisce di possedere l'immediata evidenza dell'Essere, la certezza semplice ed assoluta dell'esistenza di Dio.