Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Israele e Iran verso una prova di forza?

Israele e Iran verso una prova di forza?

di Annalisa Perteghella - 02/01/2012

Fonte: geopolitica


 
Israele e Iran verso una prova di forza?

Nuovi venti di guerra sembrerebbero spirare su una delle aree geopolitiche più strategiche del macrocontinente eurasiatico. Secondo voci sempre più insistenti, esplicitate dallo stesso Primo Ministro Benjamin Netanyahu, Israele starebbe infatti per lanciare un attacco preventivo verso l’Iran per mettere definitivamente la parola fine ai progetti atomici della Repubblica Islamica. Fermo restando che quella di un attacco preventivo israeliano è una voce che circola da diversi anni, probabilmente più come ballon d’essai che come vera e propria dichiarazione di guerra, quello che rende le dichiarazioni israeliane dei giorni scorsi particolarmente preoccupanti è la particolare congiuntura temporale nella quale esse vengono pronunciate. Esse arrivano infatti nel periodo in cui l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica rilascia il proprio rapporto annuale sul programma nucleare iraniano, ma soprattutto nel periodo in cui la Repubblica Islamica sembra mostrare i segni di una profonda crisi di legittimità che rischia di ridurne giorno dopo giorno il capitale politico.

 
Dilaniata dai contrasti interni alla leadership – frutto avvelenato del carattere duale della struttura istituzionale post 1979 – e impegnata sul piano del confronto con l’acerrimo nemico saudita per l’egemonia regionale, la Repubblica Islamica potrebbe apparire vulnerabile agli occhi di Tel Aviv, esattamente come essa apparve a Saddam Hussein nel settembre 1980, quando il leader iracheno decise di muovere guerra all’odiato vicino persiano ancora sconvolto dalle convulsioni rivoluzionarie, nella pia illusione che si sarebbe trattato di una guerra lampo. Per valutare la credibilità della minaccia israeliana è necessario indagare due ordini di questioni. In primo luogo, è fondamentale comprendere le motivazioni che potrebbero risiedere dietro la presunta intenzione iraniana di dotarsi dell’arma atomica; in secondo luogo, è necessario interrogarsi sulla credibilità o meno della minaccia israeliana e soprattutto sulla desiderabilità della sua esplicitazione. Ricordiamo infatti che, affinchè la minaccia di un Paese A su un Paese B abbia effetto, è necessario che il Paese B ritenga che il Paese A abbia tanto l’intenzione quanto l’effettiva capacità di dare applicazione alla minaccia. Solamente dopo aver ragionato su questi punti, si può tentare di formulare delle ipotesi circa le conseguenze di un attacco preventivo.

Perchè l’Iran dovrebbe volere la bomba?

Che cosa sappiamo circa l’effettiva intenzione iraniana di dotarsi dell’arma atomica? Con sicurezza, nulla. Fonti diverse e accreditate danno però per certo il perseguimento da parte iraniana di un programma nucleare per uso militare, ammettendo che l’unica variabile non sarebbe il se ma il quando. Secondo il rapporto AIEA rilasciato lo scorso 9 novembre, la Repubblica Islamica sarebbe stata impegnata fino al 2003 in attività rilevanti per lo sviluppo di un ordigno esplosivo nucleare nell’ambito di un programma preciso e ben strutturato. La sospensione del programma, avvenuta a seguito dell’intervento statunitense in Iraq per timore di essere il prossimo sulla lista dei regimi da cambiare, sarebbe stata tuttavia un provvedimento temporaneo, anche se la scarsità delle informazioni disponibili rende difficile stabilire con obiettività se la Repubblica Islamica abbia effettivamente ripreso il proprio programma. Niente di nuovo sul fronte mediorientale, insomma, soprattutto se si considera che già dallo scorso anno è noto alla comunità internazionale che il governo iraniano avrebbe deciso di incrementare la propria capacità di arricchimento dell’uranio da un livello del 3,5% – necessario per la tecnologia nucleare civile – ad un livello del 20% – necessario alla conversione in isotopi per la cura dei pazienti affetti da tumore. Questi dati erano suonati allarmanti dal momento che la percentuale di arricchimento necessaria per lo sviluppo di una bomba atomica è del 90%, ma anche e soprattutto in virtù del fatto che l’Iran aveva deciso di spostare i propri centri di arricchimento nucleare dal sito di Natanz all’impianto di Fordow, un’ex base militare costruita all’interno di una montagna.
Assumendo dunque l’ineluttabilità del programma nucleare, la domanda cruciale diventa: la leadership iraniana ritiene che dotarsi dell’arma atomica possa rappresentare la soluzione ai propri problemi politici e di sicurezza? Questo ci rimanda ad alcune nozioni fondamentali di strategia nucleare. Se si pone come assunto la razionalità del decisore politico, si può affermare che il fine ultimo del possesso dell’arma nucleare sia il suo non utilizzo. Nessun attore razionale mirerebbe infatti alla costruzione dell’arma atomica per poi utilizzarla contro il suo nemico, a meno che non sia sicuro di possedere first strike capability. Nel caso specifico iraniano, il possesso dell’arma atomica servirebbe esclusivamente gli scopi della deterrenza verso le altre due potenze nucleari e ostili dell’area, ovvero Stati Uniti e Israele. Il nucleare pakistano sembrerebbe infatti non rappresentare al momento una minaccia per Teheran, data la sua natura di deterrente verso l’India, così come non costituirebbero pericolo gli arsenali di Russia e Cina, tra i pochi Paesi che in questo momento Teheran può considerare dalla propria parte. Vi è chi fa notare che, quando si parla di governo iraniano, l’assunto della razionalità non sarebbe affatto da dare per scontato, sottolineando anzi come le energiche provocazioni a cui il Presidente della Repubblica Ahmadinejad ci ha abituati possano essere addotti come sintomo di un possibile utilizzo irrazionale dell’arma. Fermo restando che l’irrazionalità del decisore politico, così come la percentuale di errore tecnico, non possano mai scomparire dal panorama delle probabilità per qualsiasi stato nucleare, non solo per i cosiddetti “stati canaglia”, bisogna considerare che l’arsenale militare verrebbe posto sotto il comando del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, che rispondono alla Guida Suprema. Il fatto che, paradossalmente, quest’ultimo rappresenti la componente moderata della diarchia Khamenei-Ahmadinejad, insieme al fatto che fin dall’indomani della morte dell’ayatollah Khomeini i diversi leader che si sono succeduti al potere hanno saputo dimostrare un certo pragmatismo in politica estera, lascerebbe presagire un utilizzo savio dell’arma nucleare, ovvero un non utilizzo. Certo, non si possono basare i propri calcoli strategici sulla mera speranza che l’avversario compia scelte non contrarie agli interessi della parte in causa, ma dato il carattere di emergenza della questione, e la tendenziale irreversibilità della decisione iraniana di continuare il proprio cammino sulla strada del nucleare, occorre riconoscere che l’Iran, per quanto “Stato canaglia”, non sia uno stato suicida.
Un secondo importante motivo, accanto a quello della deterrenza, per il quale l’Iran potrebbe desiderare dotarsi dell’arma nucleare è l’affermazione della propria potenza regionale. Obiettivo, quest’ultimo, caro alla Persia da qualche migliaia di anni. Se nel decennio khomeinista tale obiettivo veniva esplicitato tramite l’utilizzo della lotta armata in continui tentativi di esportazione della rivoluzione, con la morte dell’ayatollah e l’avvento al potere dei tecnocrati di Rafsanjani la Repubblica Islamica ha inaugurato una stagione di politica estera più cauta, all’insegna del pragmatismo, allo scopo di riabilitare il nome della Repubblica Islamica dopo un decennio di radicalizzazione e violenza rivoluzionaria, ed evitare in questo modo il grande spauracchio della solitudine strategica. Nessun comportamento di Teheran può essere infatti adeguatamente compreso se non guardato attraverso gli occhi di un Paese che si considera l’erede e il depositario delle tradizioni e della cultura di una delle civiltà più raffinate e più potenti che il mondo del passato abbia conosciuto. L’Iran avrebbe pertanto una “vocazione naturale”, una sorta di diritto storico, all’egemonia dell’area; il fatto di essere un’isola persiana e sciita in mezzo ad un oceano arabo e sunnita non fa altro che acuirne il senso di urgenza.

Le possibili conseguenze di un attacco israeliano

In virtù delle considerazioni effettuate finora, è opportuno dunque domandarsi quali sarebbero la portata e la natura della minaccia di un Iran nucleare per Israele. È possibile affermare che la minaccia reale non sia tanto di natura militare – l’Iran infatti non è un attore suicida, ed è conscio che in caso di utilizzo dell’arma nucleare la rappresaglia sarebbe insostenibile – quanto di natura strettamente geopolitica. L’ingresso della Repubblica Islamica nell’Olimpo dei Paesi nucleari altererebbe infatti in modo stabile e potenzialmente duraturo il precario equilibrio di forza nell’area mediorientale. Esso scatenerebbe inoltre una pericolosa corsa agli armamenti da parte dei Paesi circostanti, che a fronte dell’ascesa dell’Iran al rango di potenza regionale vedrebbero diminuire la propria influenza. È pertanto in questo contesto che occorre chiedersi se per Israele sia conveniente condurre un attacco preventivo agli impianti iraniani.
Quali sono gli elementi che Israele dovrebbe iscrivere alla voce “costi” da contrapporre ai labili benefici ottenibili, per valutare se l’ipotesi di un attacco sia in ultima analisi razionale e conveniente? In primo luogo, Tel Aviv dovrebbe mettere in conto il fatto che qualsiasi attacco preventivo non sarebbe in ogni caso in grado di azzerare in modo definitivo il programma nucleare iraniano. Al più, esso potrebbe rallentarlo, riportando l’orologio nucleare indietro di circa due-tre anni, ma in nessun caso potrebbe annullarlo. Il livello di sviluppo tecnologico raggiunto, così come la probabile dislocazione di materiali e macchinari in siti segreti, rendono del tutto probabile la ripresa del programma già all’indomani dell’attacco, con l’aggravante di essere questa volta motivati da una necessità di difendere il Paese da ingerenze esterne e attacchi fuori legge. L’attacco israeliano si prefigurerebbe infatti come un atto di palese violazione del diritto internazionale e marcherebbe il fallimento del Non Proliferation Treaty. Tale attacco costituirebbe, infatti, un’azione militare unilaterale da parte di uno Stato non membro – Israele – nei confronti di uno Stato membro – l’Iran – al quale è permesso sviluppare tecnologia nucleare almeno fino a quando non venga riscontrata un’aperta violazione dei parametri del trattato. Solamente nel caso in cui si riscontrino palesi violazioni, l’AIEA potrebbe deferire la Repubblica Islamica al Consiglio di Sicurezza, il quale potrebbe continuare sulla strada delle sanzioni così come, ipotesi lontana ma non escludibile dal tavolo delle opzioni disponibili, decidere per un intervento militare. Solamente in quel caso, dunque, un intervento armato potrebbe essere ritenuto legittimo, ma il marchio di legittimità non basterebbe in ogni caso a scongiurare effetti potenzialmente disastrosi.
Una volta attaccato, lo scenario peggiore vedrebbe infatti l’Iran optare per l’escalation, in modo tale da “salvare la faccia”, compattare le forze politiche interne e conquistare i cuori delle piazze arabe. Andiamo per ordine. L’opposizione a Israele è uno dei pochi punti che accomuna le diverse fazioni politiche iraniane, nonché una delle leve maggiori di cui la Repubblica Islamica dispone per proporsi come leader regionale anche nei confronti dei Paesi arabi. Un attacco da parte di Tel Aviv servirebbe dunque in primo luogo a compattare le forze politiche iraniane – al momento fortemente divise al loro interno – e a dare loro un assist vincente nel denunciare una volta di più “il nemico sionista”; se, al più, un attacco israeliano all’Iran potrebbe essere segretamente ben visto dai leader arabi sunniti, non sarebbe così semplice convincere le masse in fermento della bontà del fine ultimo israeliano. Fermo restando che un Iran nucleare fa paura a tutti, l’utilizzo dello strumento militare da parte di Israele – uno Stato che non gode certo di popolarità nelle piazze arabe – potrebbe scatenare effetti perversi.
Dal punto di vista interno alla politica iraniana, la conseguenza più probabile accanto al compattamento delle diverse fazioni politiche sarebbe il rafforzamento delle componenti più radicali del Paese, così come ciclicamente avvenuto nei periodi di maggiore tensione tra la Repubblica Islamica e l’altro grande nemico, gli Stati Uniti. Si assisterebbe inoltre ad un effetto di rally around the flag che coinvolgerebbe potenzialmente l’intera popolazione, comprese le fasce che normalmente si oppongono al regime, tra cui gli appartenenti alla cosiddetta “Onda verde”.
Un’incognita ulteriore che Israele non può non considerare nella propria equazione di sicurezza è il ruolo degli Stati Uniti. Malgrado le forti parole di condanna dell’atteggiamento iraniano pronunciate dall’establishment presidenziale, ciò che appare certo per ora è l’assoluta riluttanza statunitense a lasciarsi coinvolgere in un’ulteriore prova di forza sul palcoscenico mediorientale. Il forte ruolo giocato dall’Iran presso gli sciiti iracheni – ruolo chiave per la pacificazione dell’Iraq così come, al contrario, per la sua ricaduta nel caos – lascia supporre che non sia affatto desiderio degli Stati Uniti provocare l’improbabile alleato iraniano, soprattutto dopo essere riusciti a completare il disimpegno dal teatro di guerra iracheno. Se pertanto appare estremamente difficile che gli Usa possano dare il loro consenso ad un’azione unilaterale israeliana, resta da vedere cosa succederebbe nel caso in cui Tel Aviv decidesse di agire senza il consenso statunitense, ponendo Washington di fronte al fatto compiuto. Ma può, Israele, in un momento in cui la propria popolarità è ai minimi storici, e in un momento in cui, per effetto degli sconvolgimenti in corso nei Paesi arabi dell’area, esso appare sempre più isolato, permettersi di agire in maniera unilaterale? O sarà proprio la sensazione di isolamento e accerchiamento a spingerlo ad agire in maniera irrazionale?
Un ultimo elemento che Israele dovrebbe ponderare con estrema attenzione è la possibilità di scatenare un’ennesima crisi energetica. Il blocco dello stretto di Hormuz da parte iraniana farebbe difatti impennare il prezzo del greggio, in un periodo di già pessima congiuntura economica che vede in particolare difficoltà le democrazie occidentali. La leva energetica è proprio una delle armi più convincenti di cui dispone oggi la Repubblica Islamica; ricordiamo infatti che l’amicizia con Russia e Cina – giganti affamate di energia e membre, tramite l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, di una partnership strategica con Teheran – è ciò che in questo momento pone Teheran al riparo da punizioni più severe da parte del Consiglio di Sicurezza.

Conclusioni

Viste le considerazioni effettuate finora, che, ricordiamo, sono basate sul peggior scenario possibile, quello dell’escalation, ciò che traspare è la scarsa profittabilità di un attacco preventivo da parte israeliana. La linea scelta in questi giorni dall’amministrazione statunitense, così come da Francia, Germania e Regno Unito, è ancora una volta quella delle sanzioni, volta a isolare ulteriormente la Repubblica Islamica in modo tale da costringerla a scendere a patti. Quello che è auspicabile è una ripresa del negoziato, che offra però incentivi credibili e metta in conto la definizione di un accordo omnicomprensivo che preveda una sorta di riconoscimento regionale per l’Iran. Anni di politiche ostili e di sterili prese di posizione hanno tenuto in ostaggio il processo negoziale, finendo per esaurirne la potenziale spinta propulsiva. Quello che serve oggi è un rilancio di tale processo, dettato dalla consapevolezza che, paradossalmente, solamente togliendosi il “paraocchi nucleare” e allargando il tavolo negoziale a questioni di più ampio respiro che possano ad esempio contribuire ad alleviare l’Iran dalla grave crisi economica che sta attraversando sarà possibile isolare le componenti più radicali del regime e reinserire il programma nucleare entro i binari dell’utilizzo civile. Al contrario, qualsiasi scelta di dura intransigenza nei confronti della Repubblica Islamica, avrà solamente l’effetto di rinvigorire e accelerare un progetto che è ormai dato come irrinunciabile.

*Annalisa Perteghella è dottoranda in Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano