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Nessuno, per Leopardi, diventa uomo senza aver fatto l’esperienza rivelatrice di se stesso

di Francesco Lamendola - 09/01/2012

   

Quando si diventa uomo, quando si diventa donna, non a livello sessuale, ma in quanto esseri umani pienamente maturi e responsabili?

È chiaro che quello dell’età anagrafica è un criterio estremamente rozzo e inadeguato; può andare per le esigenze di ordine giuridico, ma al prezzo di una inaccettabile semplificazione nei confronti della concreta realtà psicologica, intellettuale e morale di ciascuna singola persona. Vi sono, infatti, degli adulti che sono meno maturi di un bambino, e bambini divenuti precocemente maturi: non esiste una età con cui tracciare la linea di separazione tra infanzia e maturità.

E allora, invece di domandarsi “quando” si diventa uomini e donne, sarebbe meglio domandarsi “in conseguenza di quali eventi”: perché la maturazione è il frutto della consapevolezza, di sé e degli altri; e la consapevolezza, a sua volta, non nasce dal nulla, ma da qualche modificazione che si opera nella struttura della coscienza.

Ebbene: quali sono le condizioni in cui si verifica una simile modificazione, capace di dischiudere una nuova vista e una nuova percezione della realtà, tale da sostituire, per così dire, una visione tridimensionale ad una che era solo bidimensionale?

Le società tradizionali avevano una risposta ben precisa a questa domanda: invece di aspettare che un qualche evento esterno provocasse la presa di coscienza di sé da parte dei loro membri, gli andavano incontro e lo provocavano essi stessi; ed era la cerimonia dell’iniziazione, mediante la quale il bambino e la bambina venivano introdotti, attraverso delle prove e la trasmissione di un insegnamento segreto, alla condizione di individui adulti.

Non aspettavano che un ragazzo compisse una certa età per dichiararlo adulto, come avviene nella nostra società; facevano in modo che il ragazzo DIVENTASSE adulto, sotto la guida dello sciamano, imponendogli dei riti e delle prove cui doveva sottoporsi con animo forte; ed erano quei riti e quelle prove che assicuravano, contemporaneamente, la trasmissione della cultura, dei valori, della religione del gruppo e, quindi, la sua stabilità nel succedersi delle generazioni, nonché il suo legame con i defunti e, quindi, con il mondo degli spiriti.

Oltre a ciò, in tutte le società tradizionali era la vita stessa a contribuire potentemente e quotidianamente all’esperienza fondamentale della rivelazione dell’anima a se stessa: l’accudire i fratelli minori, il contribuire al lavoro domestico, alla cura degli animali, alle attività dell’orto e dei campi, per non parlare della caccia e della pesca, nelle società che le praticavano: tutto questo favoriva la maturazione degli individui e, automaticamente, la presa di coscienza di sé, della stima delle proprie forze, della valutazione realistica dei propri mezzi.

Il problema, nella civiltà moderna, è che le persone arrivano a venti, a trenta, a quarant’anni ed oltre, senza avere mai fatto la prova con se stesse del proprio valore, delle proprie attitudini, delle proprie capacità; senza sapere quanto valgano come esseri umani, quanto possano contare su se stesse, a quali mete possono aspirare nella vita: e questo perché mani troppo sollecite hanno sistematicamente rimosso ogni ostacolo dal loro cammino, agevolandolo artificialmente e coltivando in esse una percezione illusoria del proprio sé.

Per i membri della civiltà moderna, l’unica maniera di scoprire se stessi e di fare ragionevole stima del proprio valore non è costituita dal precoce fardello di responsabilità imposte dall’esterno, ma da qualche evento interiore, per esempio dall’esperienza di un forte sentimento, capace di mettere in crisi le certezze abitudinarie e di mostrare il mondo sotto una luce affatto nuova.

Così rifletteva Giacomo Leopardi nell’LXXXII dei suoi «Pensieri», tratti da Antonio Ranieri al vastissimo materiale dello «Zibaldone» (in: Leopardi, «Pensieri», La Biblioteca Ideale Tascabile, Milano, 1995, a cura di Marilena Salvarezza, p. 49):

 

«Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso,  determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita.

A questa grande esperienza, insino alla quale nessuno nel mondo riesce da molto più che un fanciullo, il vivere antico porgeva materia infinita e pronta; ma oggi il vivere dei privati è sì povero di casi, e in universale di tal natura, che, per mancamento di occasioni, molta parte degli uomini muore avanti all’esperienza ch’io dico, e però bambina poco altrimenti che non nacque. 

Agli altri il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire  o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte, e per lo più dall’amore,  quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amare.

Ma accaduta che sia, o nel principio della vita,  come in alcuni, ovvero più tardi, e dopo altri amori di minore importanza, come pare che occorra più spesse volte, certo  all’uscita di un amor grande e passionato, l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desideri intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi, conosce ab espero la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze; e oramai può far giudizio se e quando gli convenga sperare o disperare di sé e, per quello che si può intendere del futuro qual luogo gli sia destinato nel mondo.

In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non più felice, ma per dir così, più potente di prima, cioè più atto far uso di sé e degli altri.»

 

Insomma, Leopardi sostiene che il vero discrimine fra maturità (e consapevolezza) e infantilismo (e inconsapevolezza), il quale ultimo è cosa ben diversa dall’infanzia, è dato dalla rivelazione dell’anima a se stessa; e aggiunge che molti esseri umani non arrivano mai a farla, per cui vivono la loro intera esistenza come in un’infanzia artificiosamente protratta.

Crediamo vi sia una notevole verità in questa osservazione; così come in quella che quanti hanno fatto una simile esperienza non saranno mai più quelli di prima: perché essa è di natura tale da mutare radicalmente e irrevocabilmente la coscienza di una persona.

Naturalmente, aggiungiamo noi, è di somma importanza che tale rivelazione dell’anima a se stessa avvenga nelle circostanze più idonee a promuovere la stima e la fiducia che ciascuno di noi desidera poter riporre in sé; perché, qualora la rivelazione avvenga in negativo, ad esempio mediante un trauma che sia stato vissuto con paura, vergogna o impotenza, l’anima ne resterà marchiata per sempre e non riuscirà più a risalire la china della sfiducia in se stessa.

Infatti, ciascuno di noi, in base all’esperienza fondamentale di cui parla Leopardi, sa, più o meno, che cosa sia alla sua portata e che cosa no; a che cosa egli possa aspirare e a che cosa debba rinunciare; fino a dove possa spingersi avanti e dove debba fermarsi, rinunciando a ulteriori progressi o miglioramenti, siano essi di tipo affettivo, o di condizione sociale, o di qualsiasi altra  natura.

La fiducia che noi conquistiamo in noi stessi, oppure che perdiamo nei confronti di noi stessi, attraverso l’esperienza della rivelazione interiore, è quella che deciderà della nostra vita futura; il lavoro che faremo, le amicizie, gli amori, il matrimonio, i rapporti con i nostri figli: tutto, tutto dipenderà da essa in misura essenziale.

Se una persona, ad esempio, non si ritiene in grado di puntare verso determinati obiettivi, finisce per sprecare le occasioni favorevoli e per accontentarsi di quel che le sembra alla sua portata: ad esempio, rinuncerà a cercare l’amore ideale e si accontenterà di quello del primo essere umano che la corrisponderà, costruendosi, così, con le proprie mani, un destino scialbo e deludente.

Oppure un atleta che non abbia sufficiente sicurezza in se stesso non riuscirà a conseguire la vittoria: sarà bloccato inconsciamente dalla propria sfiducia in se stesso, lascerà cadere le occasioni propizie, sprecherà energie preziose per rincorrere il secondo o il terzo posto, mentre, forse, avrebbe potuto ambire al podio più alto.

Lo abbiamo già detto in altre occasioni: ci vengono incontro quelle situazioni, quegli eventi e quelle persone che sono in sintonia con le nostre aspettative e con il nostro livello complessivo di consapevolezza, sia nel bene, che nel male; e chi sempre si aspetta delusioni e insuccessi, fatalmente se li vedrà venire incontro; chi, invece, si sentirà pronto per vivere esperienze belle e gratificanti, quasi certamente finirà per incontrarle.

Le cose, infatti, sono già tutte davanti a noi, quelle positive e quelle negative: è la nostra sensibilità che ci rivela le une oppure le altre e che fa in modo che esse ci vengano incontro, affinché noi le attraversiamo e ci confrontiamo con esse; e ciò vale anche per la salute, se è vero, come è vero, che studi e ricerche hanno dimostrato come sia più alta la percentuale delle guarigioni fra quei malati che hanno la ferma volontà e la radicata fiducia di riprendersi e guarire.

Le cose, però, sono meno semplici di quel che possa apparire, perché, come abbiamo detto, la nostra aspettativa del reale è il prodotto dell’esperienza fondamentale con cui ci siamo rivelati a noi stessi: e, se è possibile agire nel corso del tempo, con la riflessione e l’esercizio, in modo da migliorare e rendere più fiducioso il nostro atteggiamento verso la vita, non è però possibile eliminare del tutto il primo impatto, provocato in noi dalla qualità, positiva o negativa, della nostra esperienza fondamentale, in genere verificatasi nell’infanzia o nella prima adolescenza.

Mentono e sono profondamente ingannevoli, pertanto, quei manuali psicologici a un tanto il chilo e quei sedicenti corsi di consapevolezza spirituale che promettono salute, successo e felicità a quanti seguano diligentemente determinate tecniche di autosuggestione, ripetendo come dei mantra le parole del successo e sforzandosi di mettere in pratica le formule della consapevolezza: come se tutto ciò potesse avere efficacia qualora nasca da semplice imitazione e non da un movimento profondo e autonomo dell’anima, protesa a cercare e trovare se stessa.

Questo non significa che si debba scivolare nel pessimismo e rassegnarsi al fatto che, se l’esperienza fondamentale è stata di segno negativo, noi non potremo fare altro che vivere con rassegnazione una vita da perdenti, piena di frustrazioni e di rimpianti; l’importante, infatti, è che l’esperienza fondamentale, anche se negativa (ad esempio, un lutto straziante subito nell’infanzia), sia vissuta con gli strumenti che ne rendano possibile l’attraversamento e, quindi, che favoriscano comunque la crescita interiore.

Diremo di più: l’anima non cresce quando le esperienze che essa vive sono tutte positive, ma quando riesce a trasformare in positive anche quelle che, di per sé, sarebbero negative, quali il dolore, la perdita, l’insuccesso; e vi riesce quando riesce a trovare in se stessa, magari con l’aiuto di genitori amorevoli e intelligenti (le due cose non sempre coincidono), che non badano sempre e solo a proteggere i loro bambini, ma che li aiutano ad elaborare gli strumenti per padroneggiare il dolore, la perdita e l’insuccesso.

Ecco, allora, che l’esperienza fondamentale cessa di apparirci alla stregua di un idolo enigmatico e potenzialmente ostile, per rivelarsi nella sua autentica dimensione di preziosa opportunità, mediante la quale noi acquistiamo fiducia in noi stessi e nella bontà della vita, nonostante tutte le situazioni difficili che potrebbero frapporsi sul nostro cammino.

È questo che Leopardi non riusciva a vedere: che il male non è un dato concluso in se stesso, ma che può divenire occasione di consapevolezza, di progresso interiore e quindi, in definitiva, di bene; in altre parole, che il male non è qualcosa di statico, ma di dinamico; e che esso può, a determinate condizioni, rivelarsi meno negativo di quel che ci era sembrato inizialmente.

Questa è la vera saggezza della vita; questa è anche la sua bellezza: una bellezza talora aspra, come lo è quella di una giornata di gran vento in riva all’oceano, con l’odore di salsedine e gli spruzzi delle onde che vengono a infrangersi sulla scogliera; ma che possiede un fascino impareggiabile, capace di rivelarsi a quanti sappiano spingere lo sguardo un poco oltre le apparenze.

E saper vedere oltre le apparenze, in verità, significa saper vedere non le singole parti, ma il tutto…