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Un dissenso sociale tutto da inventare

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 09/01/2012

 

 1) La manifestazione degli indignados si è tramutata in un problema di ordine pubblico. L’assalto dei black block ha monopolizzato l’attenzione dei media, oscurando i significati di una manifestazione contro la dittatura del sistema finanziario e la schiavitù del debito creati da una UE concepita come una istituzione finanziaria promotrice di uno sviluppo capitalista globale che si impone agli stati. Il movimento degli indignados quindi, appare come l’erede designato dei movimenti no global e del pacifismo ideologicamente globalista che monopolizzò la protesta contro le guerre imperialiste americane. Gli indignados dovrebbero essere allora anche gli eredi legittimi dello stesso fallimento della protesta del movimento no global, che anzi, nel caso dell’aggressione alla Libia, che ha visto i suoi più autorevoli esponenti schierarsi dalla parte degli invasori della Nato. La protesta sociale viene dunque metabolizzata dal sistema capitalista globale, come un fenomeno congenito al malcontento e al disagio che si generano in concomitanza di eventi epocali (crisi economiche, rivolgimenti sociali), che determinano la evoluzione di un sistema capitalista, i cui sviluppi progressive producono nuovi equilibri economici e sociali. Infatti, i massimi esponenti del capitalismo globale (da Draghi a Soros), sembrano condividere le motivazioni degli indignados. Il capitalismo è un sistema che nella storia ha saputo rigenerare più volte se stesso, sposando spesso le ragioni dei suoi avversari, contribuendo in tal modo, a vanificare gli obiettivi della protesta e svuotando di contenuto le motivazioni dei suoi nemici. Non esiste oggi una cultura del dissenso sociale, non si è cioè manifestata una chiara visione degli obiettivi da perseguire, perché tale protesta è scaturita dalla condizione di precarietà e marginalità di masse di giovani e meno giovani che si ritrovano in piazza i nome di un essere - contro dinanzi a un sistema globale non identificabile in specifici obiettivi da abbattere. La protesta degli indignados è un fenomeno di risulta, che unisce una massa di individui sulla base della loro condizione di esclusi e/o espulsi da un sistema: un fenomeno derivato da una causa esterna non può che rivelarsi alla lunga organico interno alla causa stessa. Se il capitalismo è globale, globale è anche una protesta, che, estraniata dalle specificità delle situazioni nazionali e/o continentali specifiche, non può non dissolversi nella genericità delle sue motivazioni, nella inadeguatezza delle sue proposte, nella frammentarietà della sua organizzazione strategica.

 

Leggo che dai un giudizio moderatamente ma inequivocabilmente negativo e scettico sui possibili esiti del movimento detto degli “indignati”. In linea di massima sono d’accordo, anche se bisogna essere cauti sulle possi­bili “ricadute” di questo movimento in termini di cultura politica genera­le. In proposito, cercherò di chiarire le ragioni in base alle quali anch’io sono purtroppo scettico sulle prospettive “strategiche” di questo movimento.

Distinguerei prima di tutto questo movimento, per ora declamatorio, lamento­so, petizionistico e politicamente inespressivo, da una cosa completamente diversa, e cioè dai cosiddetti black bloc. Questi ultimi non sono affatto riducibili ad un’ala estremistica, violenta ed illegale di un pacifico, pe­coresco, belante e “gioioso” movimento apprezzato persino da Soros e da Dra­ghi (il cui apprezzamento o è pura ipocrisia o segnala una possibile divi­sione tattica fra i gruppi strategici dominanti - propendo purtroppo per la prima alternativa). Questi ultimi sono un gruppo informale a parte, che non si relaziona affatto con lo  stato o con il potere, con argomenti presi più o meno da Foucault, Deleuze e Negri, ma esclusivamente con il cir­co mediatico, che ignora i belati pecoreschi ritmati e le petizioni mora­listiche, ma per sua stessa natura evidenzia soltanto tre tipi di spettaco­li, lo spettacolo sportivo, lo spettacolo pornografico o infine lo spettacolo violento. I black bloc attirano i media come il miele attira gli orsi o la merda gli insetti. Chi di loro ritiene razionalmente in buona fede che nell’odierna società dello spettacolo che solo in questo modo si può attirare l’attenzione della “gente” oppure far paura ai potenti (ed in questo modo, proprio sulla base di questa paura, ottenere di più delle semplici ostensio­ni ritualizzate di pecoroni con il viso dipinto, o secondo la nuova moda in maschera) credo si sbaglino. E si sbagliano non certo perchè facendo paura alla gente comune portano acqua alla eterna “destra” (questo è l’eterno argomento ipocrita dalla sinistra di regime), ma perchè i dati strategici delle scelte delle oligarchie sono legati a fattori macroeconomici, macropolitici e macrogeopolitici del tutto esterni ed indifferenti rispetto all’ir­rilevante teatrino dei cassonetti bruciati e dei vetri infranti. Se la violenza dei black bloc servisse, bisognerebbe favorirla ed auspicarla, e non certo scoraggiarla, perchè comunque sarebbe sempre diecimila volte minore di quella dei criminali che hanno distrutto la Libia e minacciano la Siria e l’Iran. Ma purtroppo non serve, come del resto non servono assolutamente a nulla i riti cosiddetti “pacifisti” o “altermondialisti”, luoghi di reclutamento per futuro ceto politico di manipolazione e di intermediazione.

Torniamo ora al tuo giudizio sul movimento degli “indignati”. Come tu dici chiaramente (ed io concordo), si tratta di un movimento di facilissima metabolizzazione e neutralizzazione da parte del sistema capitalistico, esattamente come si è trattato per i suoi due ridicoli predecessori, il movimento pacifista ed il movimento altermondialista, che in vent’anni hanno ottenuto zero risultati, o come direbbe José Mourinho, “Zero titu1i”. In proposito, sono forse utili due riferimenti teorici complessivi e generali.

In primo luogo, bisogna prima di tutto prendere atto che il grande movimen­to del comunismo storico novecentesco è finito irreversibilmente (altra co­sa è il comunismo inteso come tendenza storica e metastorica al comunita­rismo sociale solidale, che non può avere date di scadenza per il semplice fatto che non ha mai neppure avuto date di inizio), ed ogni gesticolazione di galvanizzazione testimoniale estremistica è prima di tutto inutile per gli stessi scopi che soggettivamente si prefigge. Oggi all’ordine del giorno non c’è il comunismo, comunque declinato e comunque definito, ma soltan­to un possibile recupero di sovranità dello stato nazionale e un possibile orientamento geopolitico. Altro in questo momento non mi sembra sia all’ordine del giorno. Deglobalizzazione economica, sovranità politi­ca dello stato nazionale, riorientamento geo-politico preferibilmente eurasiatico, superamento culturale di tutte le forme di post-moderno e di apologia neoliberale dei diritti umani come pretesto per un interventismo detto “umanitario” ed in realtà imperialistico; altro proprio og­gi non si può decentemente perseguire, non certo i “castelli in aria” dei programmi immediati di socialismo e di comunismo. La fine miserabile dei micropartitini italiani di Diliberto e Ferrero, ridotti a mendicare un posto a tavola a Bersani per rientrare in parlamento e salvare le sorti del loro pezzente ceto politico professionale, ne sono un triste esempio, in quanto il loro richiamo identitario ed innocuo al “comunismo” deve essere unito alla loro promessa a Bersani di non rifare mai più gli scherzetti di Bertinotti e di Turigliatto, e cioè far cadere il governo commissionato dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale.

Bisogna purtroppo dare ragione a Gianfranco La Grassa ed alle tesi esposte nel suo ultimo notevole saggio (cfr. Oltre l’Orizzonte, Besa editrice, Lecce 2011). La Grassa sostiene che in questo momento storico l’iniziativa strategica della riproduzione sociale complessiva è pienamente, completamente ed integralmente nelle nani delle classi dominanti, e le classi domi­nate sono pienamente a rimorchio, e lo sono al cento per cento. E’ ovviamen­te un peccato che La Grassa accompagni questa razionale constatazione con frasi ripugnanti ed inaccettabili contro la filosofia, l’idealismo e 1’umanesimo, e con dichiarazioni metastoriche per cui la storia non è mai stata storia di lotte di classe fra dominanti e dominati, ed è invece sempre stata lo scenario immutabile di strategie e di conflitti fra le sole classi dominanti. Da vecchio professore anche di storia potrei dimostrare che non è così, ma dovrei scrivere una storia generale alternativa dell’umanità in migliaia di pagine con esempi e commenti, e comunque La Grassa non starebbe neanche a sentire, ma risponderebbe con bizzarre e pittoresche invettive che non bisogna perdere tempo, e che lui parla solo con quelli che sono preliminarmente d’accordo con lui. Ma queste sono solo note psicologiche personali poco rilevanti.

E’ invece rilevante il fatto che La Grassa, al netto delle sue fastidiose invettive, ha ragione nell’essenziale. Oggi il “pallino” è esclusivamente in mano alle classi dominanti, e del resto tu lo dici con chiarezza, definendo gli indignati un “fenomeno di risulta”. Tu scrivi (ed io lo sottoscri­vo integralmente) che “il capitalismo è un sistema che nella storia ha saputo rigenerare più volte se stesso, sposando spesso le ragioni dei suoi avversari, contribuendo in tal modo a vanificare gli obiettivi della pro­testa e svuotando di contenuto le motivazioni dei suoi nemici”. Perfetto, è veramente così. Soltanto la cultura di sinistra europea, una delle più stupide dell’intera via lattea, ha potuto autodefinire se stessa come “progressista” e la cultura borghese-capitalistica come “conservatrice”. Ma è inutile infierire contro gli idioti, che in genere si riuniscono da soli con la loro idiozia. Dopo il Sessantotto il capitalismo ha “sposato” le ragioni dei suoi avversari, ed ha risposto con il benessere consumistico e con il temporaneo allargamento del welfare nei riguardi delle classi po­polari, salariate e proletarie e con la liberalizzazione del costume nei riguardi del miserabile ceto degli intellettuali piccolo-borghesi. George Sorel è stato il. solo intellettuale che a suo tempo ha almeno in parte compreso le linee generali di questo processo, allora appena iniziato, ma ha potuto farlo soltanto nella misura in cui ha distinto la causa della emancipazione sociale e comunitaria dalla mefitica cultura “di sinistra” del tempo, che era peraltro mille volte più dignitosa e sensata di quella com­pletamente degenerata di oggi.     

Di fronte al conflitto sociale le classi dominanti, titolari oggi esclusive del sapere complessivo della riproduzione strategica, selezionano sempre il ricevibile e l’irricevibile. Il ricevibile viene contrattato, limitato, alleggerito, e l’irricevibile viene invece inesorabilmente respinto in to­to. Facciamo l’esempio del referendum contro la stangata proposto dal premier­ greco Papandreu qualche tempo fa, ed immediatamente respinto da tutta l’oligarchia mondiale ed europea concorde, i cui giornali hanno peraltro sfaccia­tamente rilevato che non si chiede il parere democratico dei tacchini se siano o no d’accordo con il pranzo di Natale. Al posto del referendum, la cui natura di pericolosa delegittimazione delle manovre d’impoverimento sociale era evidente, si sono controproposte le elezioni, sapendo perfetta­mente che in un’epoca di integrale commissariamento oligarchico chi vince e chi perde le elezioni è del tutto indifferente ed intercambiabile (Berlusconi, Casini e Bersani in Italia, Pasok e Nea Demokratia in Grecia, Popo­lari e Socialisti in Spagna, Sarkozy o Hollande in Francia, eccetera). Ma se questo è vero, alle miserabili classi dominate resta solo partire dalla analisi di ciò che è insopportabile per i dominanti, e chiedere ap­punto questo, e solo questo. Ma una protesta genericamente globale, che accet­ta la premessa del mercato mondiale e delle sue regole di funzionamento, limitandosi a belare richieste generiche di umanità rivolte proprio ai lupi, è non solo inutile, ma anche ridicola. Oggi le classi dominanti non sopportano la sovranità dello stato nazionale, la deglobalizzazione, il riorientamento geopolitico. Questo bisogna chiedere, o meglio organizzarsi per ottenere, non belare con richieste globali megagalattiche o fare con­gressi filosofici internazionali sulla “idea” di comunismo (Badiou, Zizek, Negri, Hardt, e tutta l’oligarchia accademica di “sinistra”).

 

2) La gente è tornata in massa sulle piazze. Rispetto alla contestazione novecentesca e alla protesta antiamericana dei primi anni 2000, vi sono però delle notevoli differenze. Le manifestazioni attuali infatti non scaturiscono da motivazioni ideologiche, né hanno per obiettivi proteste internazionaliste contro l’imperialismo, che si traducono alla fine in mere condanne moralistiche (per es. l’antiamericanismo risoltosi in pacifismo anti Bush). Il degenerare della crisi economica, l’impoverimento generalizzato, gli sconvolgimenti sociali prossimi venturi di equilibri consolidatisi da decenni, sono fenomeni che hanno indotto migliaia di persone a portare in piazza le proprie situazioni sociali disagiate e le proprie tensioni dinanzi a un futuro incerto. Si è quindi espressa una protesta sociale che manifesta la realtà di una società in disfacimento, perché privata, oltre che delle certezze di un relativo benessere, anche dei propri paradigmi morali e politici. Tale dissenso sociale ha fornito lo spunto per interpretazioni ideologiche della protesta. Trattasi però, di riproposizione di una politica estremista novecentesca, ormai inadeguata a comprendere l’attuale momento storico, che oggi, più che fornire contenuti politici al dissenso, rappresenta una buona occasione per il riciclaggio della vecchia sinistra radicale ormai marginalizzata e impotente dinanzi ad una realtà estranea agli schematismi ideologici. I messaggi ideologici infatti, sembrano sortire effetti consolatori sulla minoranza dei fedelissimi, ma non in grado di coinvolgere le masse emergenti. Il dissenso sociale è formato per lo più da giovani: il loro futuro appare seriamente compromesso dalla assenza di prospettive di ogni genere. Il riproporsi nelle piazza di vecchi slogan e comportamenti propri dell’estremismo velleitario del ‘900, deriva dalla assenza di cultura politica riscontrabile nei giovani odierni. Di personaggi politici eminenti del ‘900 italiano sia di destra che di sinistra (es. Berlinguer e Almirante), se ne rammenta appena il nome. Occorre comunque osservare che la storia nel suo incessante divenire emette le sue inappellabili sentenze: sulla seconda parte del ‘900 è caduto l’oblio della storia perché la politica di quegli anni non è riuscita ad essere storia, in quanto si è dimostrata impotente dinanzi alle grandi trasformazioni economiche e politiche, si è rivelata incapace di fare storia. La progressiva scomparsa delle masse dalla politica fin dai primi anni ’80 ha determinato la fuoriuscita dell’Italia e dell’Europa dalla storia. La mancanza di cultura politica dei giovani è inoltre il risultato delle condanne apodittiche della cultura ideologica novecentesca, che, insieme agli estremismi ha determinato la scomparsa della stessa memoria storica. Nessuno, sia la destra che la sinistra che il cattolicesimo, può comunque rallegrarsi della fine delle ideologie in funzione della morte del proprio nemico storico; la fine del male assoluto avviene quando il bene non più ragione di essere. Il nuovo secolo ci ha insegnato che quando si verifica la morte del diavolo, la morte di Dio è avvenuta già da tempo.

 

Fra gli stimoli contenuti in questa tua seconda domanda ne vorrei, subito raccogliere due, per poterli adeguatamente sviluppare. Il primo è contenuto nella tesi per cui “nella seconda metà del Novecento è caduto l’oblio della storia perchè la politica di quegli anni non è riuscita ad essere storia, e si è rivelata incapace di fare storia”. Il secondo, immensamente più impor­tante del primo, consiste in una diagnosi infausta, per cui saremmo in pre­senza di una società in disfacimento. Analizziamoli separatamente, prima l’uno e poi l’altro.

Se parliamo dell’Italia della seconda metà del Novecento e di questo primo decennio del Duemila, è assolutamente vero. Fenomeni come il cosiddetto “terrorismo” o il balletto triangolare DC-PSI-PCI sono stati puri “inciden­ti di percorso” ed epifenomeni irrilevanti della storia italiana degli ul­timi sessanta anni, anche se hanno riempito le cronache politiche e le identità politico-sportive degli italiani. Da un punto di vista storico, il so­lo ed unico fenomeno rilevante non è stato per nulla “storico”, ma solo economico e di costume, il boom economico iniziato dal 1958 e la modernizzazione e liberalizzazione dei costumi iniziata a partire dal 1968, anzi dal Sessantotto come anno simbolico della fine della vecchia Italia. Ma appun­to si è trattato di due fenomeni non “storici”, a meno che sulla scorta delle Annales francesi il concetto di storia venga allargato in modo indiscrimina­to, ed infatti oggi fioriscono le storie dell’immondizia, degli odori e del sesso orale. Ma questo allargamento indefinito ed infinito del concetto di storia, lungi dal segnalare una maggiore consapevolezza sui tempi lenti della storia, segnala al contrario l’accettazione interiorizzata della man­canza di sovranità decisionale sulle strategie di riproduzione della so­cietà. In una notte in cui tutte le vacche sono nere Mike Bongiorno ed Aldo Moro divertano intercambiabili ed irrilevanti.

Questo è dovuto però esclusivamente alla mancanza di sovranità politica, militare e geopolitica dell’Europa dopo il 1945. Gli europei sono diventa­ti “popolo senza storia”, e la storia si è fatta soltanto e Mosca o a Washington, con la sola parziale eccezione di un grande “sovranista” come Charles de Gaulle, che dovendolo fare indicherei come il solo grande uomo di stato europeo della seconda metà del Novecento.

In mancanza di sovranità la politica non può diventare storia, e non solo l’Italia ma l’intera Europa sono stati luoghi senza storia. I due soli elementi “storici” rilevanti sono stati, da un lato, il progressivo allargamento economico, politico e culturale dell’americanismo anglosassone e del suo modello di capitalismo assoluto e totalitario, il cui progredire in tutti i campi della vita associata può essere riscontrato quasi ad occhio nudo, ed il progressivo svuotamento del comunismo storico novecentesco e del suo modello dispotico di regolamentazione sociale livellatrice, destinata a crollare non tanto per la pressione esterna o per il “tradimento” di singoli individui, ma per una maestosa controrivoluzione sociale e cultura­le delle classi medie cresciute nel “socialismo”. Si tratta di due maestosi fenomeni storici che però non hanno trovato in Europa ed in Italia la lo­ro sede. Per questa ragione non condivido il tuo troppo generoso giudizio su Berlinguer ed Almirante. Anche loro, e soprattutto loro, sono solo stati dei comprimari, dei galvanizzatori identitari di un fascismo e di un comuni­smo impossibili ridotti a semplici risorse di spendibilità parlamentare e di simulazione. Chi alla fine produce, per di più consapevolmente, D’Alema e Fini non merita a mio modesto avviso una rivalutazione storiografica. Ma questo punto è secondario.

 

E’ invece immensamente più importante ragionare sulla tua valutazione, per cui troveremmo in una società in disfacimento, o sulla via progressiva di disfacimento. Sarà vero, anche solo in parte, o si tratta della solita profezia catastrofistica destinata ad una smentita più o meno vicina o lontana? Cercherò, sia pure in modo sommario, di non sottrarmi alla valuta­zione.

Sintomi inequivocabili di disfacimento ci sono certamente. Una recente in­dagine statistica della Banca d’Italia del novembre 2011 ha accertato che più di due milioni di giovani italiani (uno su quattro) non lavora e non studia. Se pensiamo che fra gli studenti ed i lavoratori vengono conteggiati disperati fuori corso del tutto disinteressati ad uno studio reale e lavoratori temporanei e precari, da uno su quattro si può tranquillamente arrivare a due su quattro. Una società che tratta in questo modo i giovani, concedendogli però la droga, la discoteca e l’automobile a diciotto anni, ma non assicurandogli lavoro e prospettive, è una novità nella storia comples­siva dell’umanità. E’quindi possibile parlare di disfacimento. Il peggioramento dei servizi pubblici rispetto ad alcuni decenni fa è anch’esso sotto gli occhi di tutti, e la crescente volgarità televisiva è pur sempre il sintomo di una crescente plebeizzazione della società che ha omogeneizzato in un unico ripugnante pastore le vecchie classi borghesi e le vecchie classi popolari. Sotto questa crosta schifosa resta pur sempre una risor­sa antropologica positiva, e pensiamo all’ammirevole volontariato giovanile in soccorso degli alluvionati liguri a Genova ed alle Cinque terre. E tuttavia, il concetto di disfacimento è talmente importante da non poterci fermare su esempi, cui si possono sempre opporre controesempi di segno op­posto, con il risultato che le cose sono alla fine ancora più confuse di prima.

Cerchiamo di vedere il problema del disfacimento alla radice. E’ stato osservato che la nuova società individualistica del capitalismo recente post-borghese (che io chiamo “speculativo”, ma non mi formalizzo sui nomi, se qualcuno lo vuol chiamare diversamente) non potrebbe sopravvivere neppure un giorno nella sua crescente anomia se non potesse disporre di “riserve geologiche” ereditate dalle società precedenti, non solo popolari, artigiane e contadine ma anche e soprattutto piccolo-borghesi nel senso dignitoso del termine (soltanto il settarismo suicida di sinistra ha inse­gnato a considerare la piccola borghesia una parolaccia, laddove si trattava di una positiva mediazione fra cultura tradizionale e rivendica­zione di una dignitosa individualità). Ricordo le coppie del Sessantotto che per “contestare” abbandonavano i marmocchi nati casualmente da rapporti “non protetti” ai genitori ed ai nonni popolari e piccolo-borghesi che gli toglievano il moccio dal naso e gli pulivano il sederino.

E tuttavia, in questi ultimi decenni questi depositi tradizionali si sono consumati ed assottigliati, come la famosa “pelle di zigrino’” di Balzac. Il ritorno della parte migliore della gioventù ad un certo tradizionalismo dei costumi è certamente un fenomeno positivo, che segna la diminuzione del mefitico costume sessantottino. Ma non è certo sufficiente. Il fatto è che il modello dell’individualismo del capitalismo finanziario globaliz­zato non si è arrestato, ma si è anzi irrobustito con la fine del suo contraltare (in greco katechon), e cioè del benefico e mai abbastanza rim­pianto comunismo storico novecentesco. L’erosione di questi depositi antropologici è forse il fattore principale di questo disfacimento. E’ del tutto chiaro che i piccoli gruppi residuali della “sinistra radicale” (le culture radicali, le chiama Bersani, accingendoci ad utilizzarle elettoralmente, in base al detto che si raschia anche il fondo del barile) non sono in grado di farci nulla, ma sono anzi un’avanguardia vociante del disfacimento culturale. Ritengo di poterlo sapere meglio ancora di te, perchè sono stato “interno” a questo mondo per quasi un trentennio, e ne ho progressivamente visto la degenerazione dall’originario operaismo ideologizzato e fanati­co, ma pur sempre popolare, all’adesione alla frammentazione delle culture del femminismo, del pacifismo e dell’ecologismo (nulla a che fare con le cause nobili della Pace, della Donna e dell’Ambiente), fino a diventare un’avanguardia vociante della dissoluzione sociale, vere e proprie senti­nelle avanzate del disfacimento.

Sono pienamente d’accordo con te, per cui se il diavolo sono state le ideologie del malvagio secolo del Novecento, quando si verifica la morte del diavolo la morte di Dio è avvenuta già da tempo. Qui ci avviciniamo al centro del problema del disfacimento. La filosofia e la scienza non posso­no essere ridotte ad ideologie, e l’ideologizzazione della scienza, dell’arte e della filosofia sono indubbiamente state una patologia mortale. Ma questo non comporta l’eliminazione dello spazio delle ideologie, che a sua volta non è che una ideologia particolarmente povera e grottesca, e questo per una ragione di semplicissima comprensione. L’ideologia è il terreno in cui gli uomini elaborano e prendono coscienza dei loro interessi colletti­vi di gruppo, e la grottesca teoria della “fine delle ideologie” non è che una povera ideologia dell’ultraindividualismo anomico. Eliminato il diavolo delle ideologie si fa palese il fatto che Dio è già morto, se con questo termine si intende niccianamente la morte di una verità univer­sale comunitaria e la riduzione del perseguimento degli interessi sociali collettivi e comunitari alla semplice autovalorizzazione consumistica dell’individuo atomizzato ed isolato.

Basta con le ideologie, gridano i tecnici della riproduzione economica del capitalismo imperialistico finanziario globalizzato! E gridando “basta con le ideologie” mostrano ad occhio nudo la loro volontà totalitaria, che mai nessuna religione osò mai spingere fino a questo punto, di ridurre l’intero pianeta a spazio “liscio” di investimenti concorrenziali, la cui liquidità presuppone automaticamente lo svuotamento dei servizi sociali e delle proprietà pubbliche costituite nella fase precedente della storia del capitalismo. Ma l’incurabilità dei cretini gioisce parlando della fine delle ideologie. Per fortuna c’è sempre il telecomando a “spegnere” il blaterare televisivo degli annunciatori della “fine delle ideologie”.

 

3) Il dissenso sociale è oggi marginale e incerto. Al contrario il capitalismo, nei suoi massimi esponenti economici e culturali, elabora programmi, idee e modelli da proporre per la soluzione dei problemi della crisi, che assume il carattere di una fase necessaria per lo sviluppo evolutivo della globalizzazione. Che il capitalismo non possa che proporre soluzioni ideologiche per una crisi che è nata al suo interno e che nella realtà smentisce gli stessi presupposti “scientifici” del liberismo economico, è cosa ormai nota. Ma, al fallimento evidente del liberismo globale, fa riscontro un dissenso sociale degli indignados che esprime una drammatica ma generica protesta, peraltro facilmente strumentalizzabile. Se ci si riferisce alla dialettica del materialismo storico marxista, dinanzi all’odierno capitalismo globale non fa riscontro alcun soggetto collettivo antagonista; al capitalismo post classista non si contrappone alcuna base post proletaria. Come hai affermato più volte, la contrapposizione dialettica marxista oggi non è più applicabile alla società attuale, perché non esistono i presupposti storici della lotta di classe che generarono la rivoluzione bolscevica del 1917. La attuale situazione storica, come tu dici, è assimilabile a quella del 1789, perché nel mondo globalizzato post classista, la condizione degli oppressi non è quella del proletariato, ma quella del terzo stato. Da quanto precede, si comprende quanto vana e velleitaria sia stata la ricerca degli ideologi marxisti di un nuovo soggetto collettivo rivoluzionario da contrapporre al capitalismo globale. In cosa si identifica l’odierno terzo stato? Esso, non è un soggetto unitario e organizzato, rappresenta semmai la totalità sociale assoggettata agli imperativi del mercato globale, si identifica con la stessa struttura sociale della società contemporanea. Occorre quindi fa riferimento non ad una classe sociale potenzialmente rivoluzionaria, perché questa si rivela, per sua natura, autoreferente e incapace di rappresentare l’intera totalità sociale. La protesta può divenire antagonista se abbraccia la totalità dei soggetti sociali che costituiscono la struttura della comunità statuale. Vorrei dunque far riferimento al concetto di totalità dialettica espresso da J.P. Sartre. Egli, partendo dalla considerazione che la totalità seriale (intesa come insieme di soggetti inerti perché oggetti strumentali dei processi produttivi capitalisti), non può costituire il soggetto di una prassi di libertà collettiva, afferma che solo il gruppo, quale soggetto collettivo composto di individui che perseguono volontariamente un fine comune condiviso, può considerarsi un soggetto dialettico di libera prassi. Il gruppo, a sua volta, può divenire seriale integrandosi nella struttura capitalista, oppure può realizzare le proprie finalità trasformandosi in istituzione rendendo stabili le sue finalità. Nel gruppo vi è l’identificazione del fine individuale con quello collettivo, ma esso, nella società contemporanea non può rappresentare la totalità dialettica della intera società. Dato che nella società esistono divisioni di ruoli e di classi, ciascun gruppo esprime una parte del tutto, che diviene autoreferente di una totalità sociale che non può identificarsi con esso. Il gruppo si contrappone ad altri gruppi che sono per definizione altre totalità soggettive: non può pertanto sussistere un soggetto collettivo rappresentativo della intera prassi sociale. Un soggetto collettivo rappresentativo della totalità oggettiva può sussistere, a mio avviso solo se dedotto da una prassi sociale che si riconosce in un principio etico unificante. Una comunità esprime l’essere sociale della totalità dei gruppi che la compongono. Essi infatti sono elementi costituitivi di una comunità in quanto, all’interno di essa traggono il loro riconoscimento e la loro stessa ragion d’essere. L’essere comunitario si fonda sulla identificazione tra la parte e il tutto, tra particolare e universale. L’essere comunitario è il prodotto della sintesi dialettica della totalità sociale.

 

Questa tua terza domanda è una domanda filosofica, e tu sai che io amo le domande filosofiche come gli orsi amano il miele. Dividerei la mia risposta in due parti. Nella prima tratterò il tema della fine del soggetto rivoluzionario all’interno della teoria del materialismo storico di Marx, e farò soprattutto riferimento alla soluzione dell’ultimo Lukàcs, che contesto in molti particolari, ma però condivido nell’essenziale. Nella seconda esprimerò le mie riserve sulla teoria di Sartre, che personalmente conside­ro con assai maggiore severità di quanto mi sembra faccia tu.

Cominciamo dal primo punto. Può il materialismo storico di Marx sopravvi­vere alla falsificazione di un elemento essenziale come la rivoluzionarietà del soggetto operaio, salariato e proletario? Domanda cruciale. Si. può rispondere sia sì che no. Se rispondiamo no, che non può sopravvivervi, allora non si apre soltanto un “buco” grande come una voragine, ma si compie un atto di riduzionismo teorico, come se tutta la complessa indagine di Marx dipendesse strettamente da un unico chiodo da appendiabiti, la rivo­luzionarietà di uno specifico, contingente ed empirico soggetto rivoluzionario. Se potessimo parlare di Bersani, D’Alema e Veltroni come di pensato­ri indipendenti, e non di funzionari politici di gestione di macchine organizzative di potere, potremmo dire che proprio con il pretesto della morte di Dio (cioè della classe operaia rivoluzionaria guidata dal Moder­no Principe, e cioè da loro stessi - Dio ce ne scampi e liberi!) essi sono pas­sati al commissariamento degli organismi finanziari internazionali ed ai bombardamenti USA-NATO. E’ questo anche l’esito di Gianfranco La Grassa, nel saggio ricordato poco sopra. La Grassa fa dipendere il comunismo ed il marxismo da un solo ed unico elemento “scientifico” (non dimenticando ovviamente di insolentire la filosofia, l’idealismo, l’umanesimo ed il comunitarismo, scambiato il per l’organicismo tribale nemico dell’individuo indipendente-tragicommedie dell’ignoranza filosofica!), e cioè dalla formazione dell’operaio “combinato”, e cioè del lavoratore collettivo coope­rativo associato. Falsificata questa unica e sola ipotesi, allora si può dichiarare niccianamente la morte di Dio (del marxismo e del comunismo, appunto) ed heideggerianamente l’avvento di un capitalismo fondato su strategie di dominio. Sono queste le conseguenze del far dipendere tutto il complesso edificio filosofico e scientifico di Marx da una, una sola valvola. Rotta questa valvola, affonda l’intera portaerei.

Io penso invece, e lo penso fermamente, che la possibilità ontologica del superamento del capitalismo non venga affatto meno con la falsificazione dell’ipotesi del soggetto rivoluzionario proletario, al tempo di Marx per altro del tutto plausibile e credibile, perchè legata ad una ipotesi rivelatasi anch’essa errata, la presunta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, che in realtà confondeva 1e ricorrenti e cicliche crisi di accumulazione del capitale con una inesistente tendenza stagnazionistica definitiva.

Riassumo qui  brevemente il percorso di pensiero di Lukàcs, che secondo me è esemplare proprio per superare l’idea di una falsificazione definitiva del capitalismo con il venir meno (reale o presunto) di un soggetto rivoluzionario unico.

Nei primi anni Venti del Novecento Lukàcs scrisse un vero e proprio capolavoro filosofico, che è Storia e Coscienza di Classe. Abbandonando consapevolmente il modello del marxismo di Kautsky, deterministico, meccanicistico ed evoluzionistico, la cui adozione al tempo della Seconda Internazionale (1889-1914) spiega in parte anche il tradimento nel 1914 della causa sto­rica del socialismo, Lukàcs costruisce un modello radicalmente nuovo di teoria marxista, di fatto idealistica perché basata hegelianamente sulla unità di soggetto ed oggetto, e cioè di proletariato rivoluzionario (soggetto) e di storia universale trascendentalmente costituita (oggetto). Non è questo il luogo per evidenziare gli elementi fichtiani, kantiani e soprattutto weberiani del suo modello. Basti dire che nonostante tutti i suoi difetti questo modello è incomparabilmente superiore al modello di “marxismo” di Kautsky.

A proposito di Storia e Coscienza di Classe bisogna evitare due posizioni estreme, entrambe errate. La prima consiste nel sostenere che si tratta di un’opera meravigliosa, stupenda, insuperabile, e che la successiva evoluzione di Lukàcs, fino all’ultima ontologia dell’essere sociale, è frutto di una sua adesione allo stalinismo, o addirittura ad un modello “accademico” di filosofia (Cesare Cases). La seconda, esemplificata dalle volgarità settarie del bilancio monografico di Guido Oldrini, consiste nel ritenere Storia e Coscienza di Classe un incidente estremistico di percorso dovuto al clima messsianico-escatologico degli anni Venti, e che solo l’ontologia dell’essere sociale è degna di attenzione e di valorizzazione.

Personalmente, sostengo una terza posizione, che dà luogo ad una terza interpretazione, incompatibile con le due precedenti, e soprattutto con le volgarità settarie di Oldrini. In estrema sintesi, l’Ontologia dell’Essere Sociale (ed i successivi Prolegomeni) non rappresentano una rottura assoluta con l’impostazione di Storia e Coscienza di Classe, ma un ripensamento autocritico evoluivo, che ha portato Lukàcs a non individuare più il soggetto emancipatore nel solo proletariato, ma nell’intera umanità dialetticamente ricostruita. Il passaggio dal soggetto proletario all’intera umanità non sarebbe però possibile senza l’elaborazione di una vera e propria ontologia dell’essere sociale, costruita non più sulla base di presunte (ed inesistenti) “leggi dialettiche”, ma sul progressivo divenire “umano” dell’Uomo (con la maiuscola, ovviamente, alla faccia di tutti i nominalismi negatori dell’Universale).

Ritradotto in questi termini, il marxismo può sopravvivere a mio avviso anche dopo la fine nel mito del proletariato e le falsificazioni popperiane di La Grassa. Il discorso sarebbe qui appena incominciato, ma devo lasciarlo qui per ragioni di spazio e di opportunità.

La Critica della Ragione Dialettica di Sartre fu pubblicata nel 1960, circa quaranta annui dopo Storia e Coscienza di Classe di Lukàcs, e si pone programmaticamente la stessa finalità dell’opera precedente, liberare il marxismo dai suoi elementi positivistico-deterministici, nel caso di Lukàcs, l’economicismo evoluzionistico di Kautsky, e nel caso di Sartre il suo succedaneo “comunista”, il materialismo dialettico di Stalin con le sue inesistenti leggi della dialettica. Essa doveva consistere di due parti, ma la seconda non fu mai scritta. In questo modo, l’opera assomiglia ad un romanzo poliziesco in cui non si verrà mai a sapere se l’assassino verrà o meno scoperto e punito (e dici poco!). Ovviamente, questo non avviene a caso, ma segue una logica dialettica implacabile.

Mentre Lukàcs lavora sull’ipotesi idealistica dell’unità fra soggetto ed oggetto, natura del proletariato rivoluzionario e storia universale dell’umanità trascendentalmente costituita in una sola unità espressiva, necessariamente idealistica (donde condanna inevitabile dei sacerdoti moscoviti del materialismo dialettico), Sartre lavora sull’ipotesi che soltanto specifici gruppi-in-fusione, unificati da una comune finalità-progetto, possano superare quello che chiama pratico-inerte, una sorta di riproposizione esistenzialistica del Non-Io di Fichte. In questo modo Sartre ritiene di poter superare il punto debole filosofico del marxismo classico, la deduzio­ne puramente “materiale” della rivoluzione dai fatti economici, che la storia aveva già nel 1960 cominciato a falsificare inesorabilmente. Il fatto è che questi gruppi-in-fusione devono essere prima o poi “totalizzati”, in quanto nella società le finalità-progetto sono moltissime, e non ce n’è certamente una sola, e cioè quella dei rivoluzionari soggettivi “di sinistra”. Inoltre, le stesse totalizzazioni soggettivamente rivoluzionarie ri­cadono nel pratico-inerte, una volta che vengono istituzionalizzate.

Sartre non riesce a scrivere un secondo volume della Critica della Ragione Dialettica proprio perchè si era messo da solo in una impasse da cui non poteva uscire. Egli infatti, da buon esistenzialista anti-hegeliano, in cui il pensiero filosofico greco era completamente assente (per Sartre i greci era come se non fossero mai esistiti), rifiutava il concetto di natura umana, l’ontologia dell’essere sociale, e più in generale qualunque fondazione ontologica universalistica del genere umano. In questo modo, appare chiaro che non avrebbe mai potuto “totalizzare” nulla, perchè la totalizzazio­ne di una parte sola giunge necessariamente ad una impasse.

Sartre a mio avviso manifesta in sofisticatissimo e rarefatto linguaggio filosofico il dramma ontologico della “sinistra”. La sinistra, infatti, da un lato con il suo  stesso termine ammette di essere solo una parte della società (ci sono infatti anche un centro ed una destra, e poco conta che si accetti una tricotomia o solo una dicotomia “secca” Destra/Sinistra), ma nello stesso tempo pretende di essere veramente il Tutto, anzi il solo Tutto storicamente legittimo. Questo comporta necessariamente sul piano filosofico narcisismo, autoreferenzialità, schizofrenia e paranoia. Se la Sinistra  è contemporaneamente una Parte ed il Tutto, la Destra è solo un Residuo, e con  il residuo si possono fare solo due cose, convincere se si può o costringere se non si può. Ma questo automaticamente è anche un diritto della Destra, che però  la Sinistra nega. E ne nega la legittimi­tà in nome dell’ideologia del progresso. E’ vero che la sinistra è solo una parte, ma la parte “giusta” perchè parla in nome della storia, laddove la “destra” è solo reazione e conservazione destinata prima o poi all’assorbi­mento ed alla sparizione.

L’opera di Sartre, proprio nella misura in cui non potè essere completata, mostra alla luce del sole questa aporia, quella cioè di voler ricostruire il marxismo su di una base di “sinistra”. Dal momento che ho personal­mente conosciuto Sartre ed ho discusso con lui, mi permetto di terminare con alcune note personali.

Il sottoscritto è un pensatore immensamente più modesto dei due grandi Lu­kàcs e Sartre, ma nello stesso tempo si considera capace di trarre le con­clusioni dalle impasses in cui sono caduti i grandi sulle cui spalle si era arrampicato. A lungo, quando cominciai a pubblicare saggi filosofici, mi rivolgevo esclusivamente ad un ideale destinatario di “sinistra”, che ritenevo interessato ad una ricostruzione credibile del materialismo storico. In altre parole, partivo dal presupposto dell’identificazione assoluta fra lo spazio politico di “sinistra” e l’interesse a ricostruire il materialismo storico, non rendendomi neppure conto, nella mia beata ingenuità, che dopo il Sessantotto la “sinistra” aveva imboccato un’altra strada, quel­la del post-moderno, del pensiero debole, del rifiuto di Hegel, dell’accetta­zione selettiva di Nietzsche nella variante Foucault-Deleuze, del femminismo differenzialista di “genere” (per cui il genere umano era rifiutato nella sua unità ontologica di Gattungswesen), eccetera.

Su questa strada, che perseguii per almeno quindici anni (1980-1995 circa), mi resi ben presto conto che sarei finito esattamente come Sartre, e cioè sarebbe stato possibile costruire una pars destruens (in fondo, trovare i materiali per criticare il capitalismo è la cosa più facile del mondo), ma non sarei mai riuscito a scrivere una pars costruens, che presuppone filosoficamente almeno tre elementi, una deduzione sociale delle categorie del pensiero, una ontologia dell’essere sociale (ma con correzioni qualitati­ve rispetto alla formulazione datale da Lukàcs fra il 1964 ed il 1971, che non riconosce la natura idealistica del pensiero di Marx e pretende di conciliare l’inconciliabile, e cioè l’eredità hegeliana di Marx e la teoria leniniana del rispecchiamento), ed un aperto riconoscimento del fatto che la filosofia (e non l’ideologia di “sinistra”) è una ideazione pienamente cono­scitiva e veritativa.

Chi si mette su questa strada deve smettere di pensare che lavora solo per la “sinistra” o per la comunità marxista, appunto per uscire dalla impasse in cui si era ficcato da solo Sartre, e pensare di poter “totalizzare” la si­nistra come se fosse un universale, per di più non ontologico, storicistico, relativistico (e quindi nichilistico), e che nega la natura umana, e cioè l’eredità greca del logos e del metron. C’è voluto del tempo, ma meglio tardi che mai.