Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Le donne si dicano la verità

Le donne si dicano la verità

di Marina Corradi - 09/10/2005

Fonte: avvenire.it

Il nuovo "manifesto" di Naomi Wolf

Non vogliamo più mentire Le donne si dicano la verità

Marina Corradi

La libertà significa che le donne devono essere libere di scegliere se stesse o di scegliere in modo egoistico. Ma non dobbiamo mentire a noi stesse su quello che stiamo facendo». La libertà è la libertà d’aborto, e chi scrive è Naomi Wolf, 43 anni, ultima generazione del femminismo americano. Una progressista, una democratica, una non tacciabile di essere reazionaria. Su un intervento pubblicato ora in Italia la Wolf dice una cosa semplice: «Attaccandoci a una retorica dell’aborto in cui non c’è vita né morte, intrappoliamo le nostre idee in una serie di autoillusioni e frottole (...) Dobbiamo inserire la difesa del diritto d’aborto in una cornice morale che riconosca la morte di un feto come vera morte». Dunque, non si discute del diritto di abortire, ma di "che cosa " sia realmente l’aborto. A partire dalla scelta di Norma McCorvey, alias Jane Roe, la donna sul cui caso la Corte Suprema decise che abortire era legale. Norma Mc Corvey ha abbandonato il vecchio fronte, dopo che si è accorta che l’"oggetto" di un’interruzione di gravidanza al secondo trimestre, ha detto, «è un bambino, ha un viso e un corpo». Il che è quello che hanno da sempre affermato i pro-life, brandendo le immagini di ciò che è un aborto, e per questo tacciati di terrorismo psicologico. Ma la Wolf difende quelle immagini. Che, dice, «non sono polemiche, sono fatti biologici. Lo sappiamo». «Lo sappiamo». Le donne dicano a se stesse la verità, dice Naomi Wolf, e non senza una stoccata a certa retorica femminile buonista per cui in fondo si abortisce perché non ci si sentirebbe, con "quel" figlio, buone madri. No, testimonia lei, io ho preso la pillola del giorno dopo «semplicemente perché ero assorbita da me stessa». Il che potrebbe, a esser sincere, essere una non rara declinazione dell’aborto di tante donne, né disoccupate, né sole, né extracomunitarie, né disperate. Donne che semplicemente scelgono se stesse. Bene, dice il nuovo femminismo americano, è legittimo, ma ammettiamo quella vera mo rte, contro una sorta di de-umanizzazione del feto praticata dal femminismo storico. Anche questa è franchezza inedita. Sottesa, non aperta, questa svalutazione dell’"altro" negli anni Settanta c’è stata. Più nell’ideologia femminista che nel vissuto intimo delle donne che abortivano, e che tra sé e sé non riuscivano a negarsi la verità di ciò che perdevano. La prova di questa rimozione sta anche nella reazione accesissima con cui molte voci del femminismo storico hanno reagito pochi mesi fa in Italia a un saggio di una ex compagna, in cui si affermava che negli anni della battaglia si era in parte dimenticato che, nell’aborto, i soggetti in gioco sono due. Ne è venuto un putiferio. Quasi si fosse toccato un tabù. La novità è dunque questo atto di lealtà di un nuovo femminismo: l’aborto è morte autentica. Che resti legale, nella coscienza però di ciò che è davvero. Quanto poi a come conciliare questa presa di coscienza con la legalità, la Wolf introduce categorie come l’«espiazione». L’aborto male necessario, da limitare il più possibile, da emendare in una sorta di gesti riparatori verso la società. Quest’ultima idea lascia perplessi. Quella nascosta amputazione, quella negazione del proprio ethos che è l’aborto, è un dolore per molte non colmabile con le "buone azioni". Ci vuol altro, per andare oltre quel lutto – se davvero era vita, come qualcuna comincia a dire. Ma è importante che lo si dica. Che qualcuna si accorga che quell’"altro" «ha un viso e un corpo». Che, nell’avvento dell’aborto chimico venduto come "facile", alle figlie si dica almeno che quella invisibile morte silenziosa, è morte intera.