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Siria: la Lega Araba e gli Usa

di Michele Paris - 10/01/2012


Il primo rapporto degli osservatori inviati in Siria dalla Lega Araba il 26 dicembre scorso è stato presentato ufficialmente domenica presso il quartier generale dell’organizzazione panaraba al Cairo. Dopo le forti pressioni americane ed occidentali degli ultimi giorni, il giudizio della Lega sulla situazione nel paese è risultato meno incoraggiante rispetto alle prime impressioni rilasciate dagli osservatori stessi, anche se è stata finalmente riconosciuta la presenza attiva di gruppi armati che si battono contro le forze di sicurezza del regime e che contribuiscono al continuo lievitare delle violenze.

La Lega Araba ha lanciato un nuovo appello al governo di Bashar al-Assad per fermare le violenze nel paese e implementare i termini della road map che Damasco aveva accettato il 19 dicembre. Allo stesso tempo è stato chiesto ai rivoltosi di astenersi da azioni violente e di tornare a manifestare in maniera pacifica, così da consentire agli osservatori nel paese di portare a termine la propria missione.

I 165 osservatori della Lega Araba erano giunti in Siria con l’incarico di verificare le condizioni sul campo nel paese mediorientale e la volontà del governo di mettere in pratica il dettato di un accordo che prevede, tra l’altro, il ritiro dei militari dalle città teatro della rivolta, la liberazione di tutti i prigionieri politici e l’avvio di un dialogo con le forze di opposizione.

Il rapporto degli osservatori inviato nella capitale egiziana non appoggia interamente la posizione del regime, secondo il quale gli scontri sarebbero causati dalla presenza in Siria di gruppi terroristici armati da paesi stranieri, ma non conferma però quanto sostiene l’opposizione, cioè che le forze di sicurezza fedeli ad Assad stiano operando su vasta scala nelle città in rivolta.

La temporanea fiducia nella missione in corso è stata poi confermata dalla decisione di aumentare il numero degli osservatori da inviare in Siria, che salirà a 300. Il nuovo gruppo di osservatori dovrà presentare un rapporto aggiornato entro il 19 gennaio prossimo e, fino a quel giorno, è certo che le pressioni su di loro e sulla Lega Araba non faranno che aumentare.

Già alla vigilia dell’incontro di domenica, il primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar, Sheik Hamad bin Jassem al-Thani, che presiede la commissione della Lega per la Siria, aveva chiesto all’ONU di partecipare alla missione degli osservatori. Secondo al-Thani, infatti, Damasco non sta implementando le condizioni della road map e, perciò, la missione stessa sarebbe una perdita di tempo.

Dopo il rapporto degli osservatori e le dichiarazioni del segretario generale della Lega, Nabil el-Araby, secondo il quale le violenze negli ultimi giorni in Siria sono diminuite, i carri armati sono stati ritirati da alcune città e centinaia di prigionieri sono stati liberati, lo stesso al-Thani ha dovuto ammettere qualche miglioramento, anche se ha poi ribadito che, nel caso le uccisioni nel paese dovessero continuare, allora “la presenza degli osservatori diventerebbe inutile”.

La proposta di far intervenire l’ONU per risolvere la crisi siriana da parte del primo ministro del Qatar è stata però respinta dalla Lega Araba. Una decisione questa che ha messo in evidenza le divisioni all’interno dell’organizzazione, dove i membri meno allineati con gli Stati Uniti temono che un intervento delle Nazioni Unite possa essere la premessa di una nuova intromissione occidentale nelle vicende di un paese arabo. Un tale scenario alimenterebbe l’ostilità delle popolazioni arabe verso gli USA, creando nuove tensioni in molti paesi.

Dietro alla richiesta di al-Thani ci sono innanzitutto le monarchie dittatoriali del Golfo Persico che puntano alla rimozione del regime alauita (sciita) di Assad in Siria e, ovviamente, Washington. Il trasferimento della questione siriana all’ONU rappresenterebbe un ulteriore passo verso una soluzione simile a quella libica. L’intenzione degli Stati Uniti è di giungere ad una condanna del regime di Damasco da parte del Consiglio di Sicurezza così da legittimare un qualche intervento militare per rovesciare Assad e installare un nuovo governo sunnita filo-occidentale, con l’obiettivo ultimo di isolare l’Iran nella regione mediorientale.

L’amministrazione Obama ha d’altra parte criticato da subito la missione promossa dalla Lega Araba in Siria. Quando il 2 gennaio scorso gli osservatori annunciarono che le forze armate siriane si erano ritirare dalle principali città e che nel paese erano stati registrati significativi progressi, gli USA intervennero sostenendo fermamente che Assad non aveva mantenuto la promessa di rispettare l’accordo sottoscritto e che era sempre più necessaria una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU.

Verosimilmente per convincere la Lega Araba ad adottare una posizione più critica nei confronti di Damasco, la settimana scorsa la Casa Bianca ha anche inviato in fretta e furia al Cairo l’assistente al Segretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, il diplomatico Jeffrey Feltman. Nel rapporto sulla Siria i toni si sono fatti così più critici verso il regime, il quale avrebbe messo in atto solo “parzialmente” le misure richieste dalla Lega Araba.

Che la situazione in Siria sia invece più complessa di quanto non traspaia dai media e dalla propaganda dei governi occidentali è stato confermato, oltre che dal sanguinoso attentato a Damasco di venerdì scorso con 26 morti, anche dallo stesso capo degli osservatori. Secondo quanto riportato da alcuni media arabi, il generale sudanese Mohamed Ahmed Mustafa al-Dabi avrebbe confermato la presenza di gruppi armati di opposizione che controllano molte aree del paese. Al-Dabi avrebbe anche messo in guardia dal trasferimento della responsabilità della missione all’ONU, chiedendo piuttosto alla Lega Araba più fondi e un maggior numero di osservatori, come appunto è stato fatto domenica.

Al di là di quanto sta accadendo realmente in Siria, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel mondo arabo intendono ottenere dagli osservatori un rapporto finale quanto più critico possibile sulla condotta del regime di Damasco, in modo da giustificare un nuovo innalzamento dei toni nei confronti di Assad.

Se un intervento diretto della NATO in Siria appare alquanto improbabile, il tentativo di Washington sembra essere quello di giungere quanto meno alla creazione di corridoi “umanitari” in territorio siriano nelle regioni di confine con Turchia, Libano o Giordania. Qui i ribelli, organizzati principalmente nel cosiddetto Esercito Libero della Siria, potrebbero essere appoggiati dalle forze armate turche, giordane o dello stesso Qatar per condurre le proprie operazioni contro il regime.

L’ostacolo al raggiungimento di un consenso nella comunità internazionale e, quindi, di una soluzione simile a quella riservata alla Libia di Gheddafi, è per ora la posizione di Cina e, soprattutto, Russia all’interno del Consiglio di Sicurezza. Per Mosca la caduta dell’alleato Assad rappresenterebbe infatti un colpo mortale ai propri interessi in Medio Oriente. Per questo, la destabilizzazione del regime di Damasco appare ancor più un gioco rischioso che minaccia di innescare un conflitto dalle conseguenze rovinose per l’intera regione.