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Le Orovie

di Andrea G. Sciffo - 10/01/2012



Anche se la scienza non li chiama più così, i Tre Regni della Natura esistono eccome: minerale, vegetale, animale. A essi si aggiunge quello invisibile, al quale di recente si è concesso di esistere “scientificamente” quando la ricerca ha scoperto che il 72% di ciò che esiste nell’Universo non è percepibile (ma c’è). È il problema del tre e del quattro.

Tante grazie: gli scrittori-cercatori dell’ignoto lo sapevano da sempre, e per questo fanno tanta paura da esser lasciati soli, una volta come adesso, ad andare avanti sul sentiero del tempo verso l’eterno. Davide Sapienza appartiene alla loro carovana e da anni trascrive a parole su carta quello che sente: nell’insieme della sua opera, Le Orovie sono il secondo libro scritto a mano; sì, perché in tempi di artificiale e di surrogato non è cosa da poco scrivere con le mani. Visto nel suo senso anagogico, fare così è un gesto analogo allo staccare un pezzo di pane dall’impasto del giorno per avere un pizzico di lievito domani – e di questo passo, si sa, il lievito è immortale.

Come tutte le opere tradizionali, Le Orovie segna la via al futuro ed è frutto di una collaborazione “a quattro mani” con il fotografo Andrea Aschedamini, un artista per il quale gli scatti e le pagine stampate non sono realtà da trattare in separata sede.

La grafia di Sapienza non è, come tutte le nostre, calligrafia e dunque la difficoltà del libro è già indicata dalla grafica, che bisogna decifrare come un sentiero sulle mappe escursionistiche: però è un tragitto per tutti cioè per chi vuole davvero percorrerlo. La narrazione è poetica ma è in prosa e, dato che tenta di raccontare il mondo vivente della Conca Arena, dalla natura della Cabianca ai boschi di larici oltre il Col de Tòss, sembra tutta una relazione con l’esterno della natura: c’è una voce che parla, un amico silenzioso che respira accanto nella salita, l’ascolto dei suoni del camoscio che fa da inconsapevole guida alpina.

Tra frasi e foto, scorrono le quattro stagioni della vita: l’autore sceglie giustamente di iniziare dall’inverno, l’inizio di tutto, per finire con l’autunno (dorato) che è l’attesa che prelude alla neve; sono i quattro passi della vita. Ma è anche un discorso a ritmo ternario perché avviene tutto alla luce del sole, cioè sotto il sole spirituale del mattino (chiamato dalle scienze occulte Ant) e poi sotto l’astro del mezzogiorno (denominato Rhe) e infine nell’oro del sole titanico serale, detto Abd. Anche sulla parola “Orovia”, che è un felice neologismo coniato da Sapienza, ci sarebbero da ricamare etimologie alla maniera del medievale Isidoro di Siviglia, quello che “inventava” le origini dei nomi: le orovie sono le vie dell’Oro poiché le montagne Orobie di cui traslitterano il suono sono a loro volta derivate, dice la fantasia, dal monte Oreb (ne abbiamo conferma nel santuario montano di Oropa). Persino la banalità, cioè il fatto che il correttore automatico della videoscrittura trasformi il vocabolo in “ovovie”, potrebbe avere un significato nascosto. Rimane il problema del tre e del quattro.

Anche per questo, non si possono fare citazioni da questo testo: occorre leggerlo d’un fiato. Come con certe rarità, d’altro argomento ma con le quali è inconsciamente e strettamente imparentato: parlo del Vangelo dell’Infanzia Armeno (siriano, prima metà del V secolo d.C.) o del Libro dell’Ape (zoroastriano, IX secolo d.C.) o nell’orientale “Fiore d’oro”, taoista. Del resto, la scrittura di Sapienza è in questi anni fiorita tra due luci, quella bluastra e oscura de “Il vagabondo delle stelle” (1915) di Jack London e quella scarlatta e iridescente del “Libro rosso” di C.G.Jung (pubblicata da noi solo nel 2010), per cercare ogni volta di dare voce a quanto non ha voce umana.

Com’è avvenuto nella precedente opera sapienziana E la strada era l’acqua (Galaad, Firenze, 2010; pp.  € ), nella quale lo scrittore faceva parlare le correnti fluviali del Danubio mediante un diario vissuto e redatto da altri, il canoista Dario Agostini: sdoppiandosi in due cose doppie. E infatti leggere Le Orovie costituisce una porta per tentare di acquisire almeno una delle due strettamente necessarie: sorella Saggezza, se non si può avere il di lei fratello maggiore ossia lo Spirito di Servizio…

I due, Saggezza e Servizio, sono cosa doppia (Rebis, ♀♂) in quanto avvicinano ogni donna e uomo alla condizione più vera: l’inermità. E configurano nel lettore quella che i monaci medievali lodarono da mattina a sera con tutte le loro forze: la Stabilitas Loci, che non è tanto lo stare fermi in un posto ma è rendersi nomadi dentro, trapiantando le radici di sé come si smonta un campo-villaggio nativo per proseguire altrove.

Forse è bene precisare che oggi, nell’epoca dei movimenti, delle movimentazioni e della mobilitazione generale, questa condizione è quasi impossibile persino da desiderare: lo sentiamo osservando la maestosa fotografia dei larici alle pagine 68-69 del volume. Quanti di noi vogliono davvero sentire che cosa hanno da dire i larici d’oro quando stanno così fermi nella radura? Perciò languiamo lontani da quello che Sapienza chiama “il durante eterno delle cose”.

Ma non spetta a noi dire l’ultima parola: lo scopo dei poeti, dei saggi, dei servitori è appunto rinfocolare, riacutizzandola, questa dorata e santa nostalgia di rimanere immobili pur muovendosi. O di muoversi anche da fermi. Cioè, di scoprire le Orovie: anche in questo inverno senza inverno, perché è sempre bene addentrarsi.

 Andrea Aschedamini, Davide Sapienza Le Ovovie (Lubrina Editore, Bergamo, 2011; pp.80 € 20)