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Noi non conosciamo l’Universo, ma solo quell’universo che ci rappresentiamo

di Francesco Lamendola - 22/01/2012


In un libro apparso da Macmillan nel 1985 e passato un po’ inosservato, «Masks of the Universe» («Le maschere dell’Universo»), Edward Harrison sosteneva che l’umanità non conosce, né mai conoscerà l’Universo in se stesso, ma solo “quegli” universi che, di volta in volta, corrispondono all’immagine del reale che essa, storicamente, viene via via elaborando.

Così, dagli inizi della civiltà ad oggi, gli uomini hanno costruito sei rappresentazioni del mondo (o, per dirla con Th. Kuhn, sei “paradigmi scientifici”), che Harrison chiama, dal più antico al più recente, l’universo magico, l’universo mitico, l’universo geometrico, l’universo medioevale, l’universo infinito e l’universo meccanicistico.

L’universo magico corrisponde alla rappresentazione del reale che hanno elaborato le società caratterizzate dall’animismo, che attribuivano le forze della natura all’azione di entità spirituali, buone o cattive, presenti ovunque.

L’universo mitico corrisponde alla nascita e allo sviluppo delle antiche religioni politeiste (posto che l’animismo non sia, anch’esso, una forma di religione, o almeno di religiosità), nelle quali gli “spiriti” sono diventati dèi e cui si deve rendere un culto per ingraziarseli e per tenere lontana dagli uomini la loro ira.

L’universo geometrico nasce con la scuola filosofica della Ionia, che è stata, al tempo stesso, la prima scuola di pensiero scientifico: inizia con Talete, prosegue con Pitagora e culmina con Aristotele, che opera una sintesi complessiva del mondo fisico, a partire da una indagine razionale e, fin dove possibile, sperimentale.

L’universo medioevale, come se lo rappresenta anche Dante, è caratterizzato dal cristianesimo e dal suo incontro con l’aristotelismo; esso comprende una dimensione naturale, che si esprime in un cosmo geocentrico, ordinato e pervaso dalla Provvidenza divina, ed una soprannaturale, che è di pertinenza della Rivelazione.

L’universo infinito fa la sua comparsa a partire dal XV secolo e il suo primo teorizzatore è l’umanista Niccolò Cusano; Copernico, per la parte fisica, vi introduce il modello di un cosmo eliocentrico, ripreso da Galilei, mentre Giordano Bruno è il più deciso assertore dell’infinità dei mondi; tale concezione regge, sostanzialmente, fino a Newton.

Infine l’universo meccanicistico, che, per Harrison, si afferma nel XVIII secolo (mentre a noi sembra che sarebbe più giusto anticiparlo almeno a Cartesio)  è l’ultimo in ordine di tempo e quello che tuttora caratterizza la nostra visione del mondo, tanto da farci apparire come “strani” e irrazionali i modelli precedenti.

In realtà, nota a ragione Harrison, ogni universo è inclusivo di tutto ciò che caratterizza il sapere di una certa fase storica dell’umanità e, pertanto, ogni universo appare incomprensibile dal punto di vista degli altri, perché chi si trova all’interno di esso non possiede gli strumenti concettuali per interpretare la realtà in maniera diversa da quella corrente.

Quando ciò accade, si ha una frattura nella continuità della storia e si afferma un nuovo modello di universo, che relega in soffitta quello precedente: è questa la ragione per cui i “moderni” si credono sempre superiori agli “antichi” e arrivano a deridere le loro credenze; senza rendersi conto che il loro sapere non è, né potrebbe mai essere, “definitivo” e che, pertanto, giungerà il tempo in cui altri uomini troveranno risibili le loro stesse certezze e convinzioni.

Come scrive Harrison (op. cit., traduzione italiana Giorgio P. Panini, Rizzoli, Milano, pp. 302-03):

 

«In ogni epoca si è creduto che il relativo universo contenesse tutto ciò che è reale e significativo. Nei templi, nelle accademie, nei monasteri e nelle università si è rifiutato tutto il resto come opinabile e illusorio. Quasi in un ritornello si è ripetuto: dovete scordare le superstizioni degli ignoranti e i miti che vi hanno insegnato i vostri genitori, i vecchi, poiché QUESTO è il vero universo, imponente, vasto, portentoso; il mondo è una sorta di tiro alla fune con dèi e demoniche tirano un gigantesco serpente; il mondo è l’opera di dèi onnipotenti cui dobbiamo obbedire e che dobbiamo adorare; il mondo è unità geocentrica di sfere cristalline; il mondo è una danza di atomi e di onde;. Tutto il resto è mito e fantasia. La scena  senza tempo. Ieri c’era l’universo falso, oggi c’è quello vero.

Credo che il principio d’inclusione sia utile, necessario a causa delle differenze esistenti tra universi e visioni del mondo. Quanto più primitiva è una società, tanto minore è il divario tra l’universo impersonale e le personali visioni del mondo, e tanto minore è la necessità di un principio d’inclusione.

Quanto più una società è complessa, tanto maggiori sì risultano il divario e la necessità. Le norme sui ciò che può effettivamente includere proteggono l’universo dall’essere travolto dalle sbrigliate fantasie delle diverse visioni del mondo che ospita. Senza tali norme, che definiscono ciò che è razionale e adatto, e ciò che invece è irrazionale e inadatto,l’universo crollerebbe e la società stessa andrebbe in pezzi. L’UNIVERSO FISICO CONTIENE SOLTANTO CIÒ CHE È FISICO. Così suona il principio d’inclusione per l’universo fisico. Gli atomi e le cellule, i fiori e le piante, le stelle e le galassie sono oggetti fisici, studiati dalle scienze naturali. Gli atomi e gli elettroni, onde o corpuscoli che siano, gli organismi che si riproducono e le loro diverse capacità di sopravvivenza, le stelle che evolvono, mutando le caratteristiche degli elementi lo spazio e il tempo e le loro alterazioni dinamiche; tutto ciò appartiene all’universo fisico che contiene soltanto ciò che è fisico. Le molecole del DNA e il codice genetico, i nostri corpi,  che nascono e sono condannati a morire, i nostri cervelli che pulsano per un’attività bioelettrica, sono fatti della materia e dell’universo fisico.

Ma i pensieri e tutto l’armamentario mentale delle nostre visioni del mondo NON SONO fisici, non sono quindi inclusi nel complesso: sono “irreali”, se non quando forme di attività cerebrale e fenomeni biochimici possono essere riconosciuti analoghi.

I saggi eruditi ci assicurano che il nostro universo moderno è l’Universo, che tutti gli eventi hanno cause fisiche, che tutti gli oggetti sono formati da molecole, atomi e particelle subatomiche che ciò che non è fisico NON c’è, nell’universo fisico. Ci insegnano che la vita umana si è evoluta sulla Terra per miliardi di anni, che orbita intorno al Sole, che il nostro Sole  splendente è una stella relativamente lontana al centro della Galassia, che la nostra roteante galassia non è che una di un vasto universo di galassie e che l’universo si espande.

L’universo fisico contiene soltanto ciò che è fisico e null’atro. È un principio che appare assai sensato se non andiamo troppo per il sottile a proposito del significato del termine “fisico”. L’universo fisico muta e il significato di “fisico” muta  con esso (anzi in esso). [….]

[D’altra parte] le immagini non includono chi le ha create. I nostri universi non contengono visioni del mondo; in altri termini, non contengono NOI, i creatori degli universi. Ogni universo nasce come un prodotto della mente, e al più, contiene soltanto una rappresentazione della mente che lo ha creato. Il merito di questa scoperta va indubbiamente all’universo fisico e al suo ben definito principio d’inclusione. Tale principio può indurre molte perplessità. Ci si arrovella sul libero arbitrio, sulla responsabilità morale e sul mistero di come gli impulsi nervosi si traducano in pensieri. Questa angoscia è inutile. Il libero arbitrio e la mente con i suoi pensieri appartengono all’Universo; il determinismo ma anche il cervello con i suoi impulsi nervosi, appartengono all’universo. Riconoscere che ciò che non è fisicamente contenuto può realmente esistere nell’Universo, ance se non esiste in un particolare universo, spazza, come un vento tonificante, un mondo di logorroiche argomentazioni.»

 

Dal punto di vista filosofico, potremmo far corrispondere il concetto di Universo di Harrison (al singolare e con la lettera maiuscola) a quello kantiano di “Noumeno” o Cosa in sé; e il concetto di universi (al plurale e con l’iniziale minuscola)  a quello kantiano del “fenomeno”, ossia della cosa così come appare.

Ora, in primo luogo si potrebbe accusare Harrison di scarsa audacia, oltre che di scarsa coerenza, per non aver tratto tutte le logiche conseguenze del suo ragionamento: gli universi non sono sei, ma innumerevoli, tanti quanti sono gli esseri umani vissuti sulla Terra, anzi, tanti quanti sono i momenti della loro vita (solo in secondo battuta egli se ne avvede); e senza dimenticare gli altri abitanti del cosmo, quelli certi - animali e piante- e quelli probabili - le creature diffuse su altri pianeti. Che cosa ha a che fare, per esempio, l’universo di un bambino di tre o quattro anni, con l’universo di un uomo adulto di media cultura? E che cosa ha a che fare l’universo di un cane, di un delfino, di un pappagallo, con l’universo di un essere umano, quando perfino i loro organi di senso funzionano diversamente dai nostri? E si badi che questa non è una domanda oziosa, a meno di identificare la filosofia come la forma per eccellenza di un presuntuoso antropocentrismo.

In secondo luogo, obiezione ancora più grave, si può rimproverare ad Harrison di aver predicato bene, ma razzolato male: se ogni universo ha la pretesa - illusoria - di essere quello “vero” e definitivo, come non vedere che questa stessa concezione non può porsi al di sopra degli universi storicamente dati e che l’idea della provvisorietà degli universi è figlia di uno e uno solo di essi, e cioè, ovviamente, di quello meccanicistico, nel quale ci troviamo a vivere?

Quel che vogliamo dire è che per gli universi precedenti la modernità (dunque i primi quattro e, in parte, perfino il quinto) si dava per scontato che l’Universo fisico, con o senza maiuscola, fosse solo la parte visibile e percepibile con i sensi esterni, di una realtà molto più vasta e complessa, una realtà totale, rispetto alla quale l’Universo fisico appariva ben povera cosa: limitato, imperfetto e, soprattutto, transitorio. Perciò, se nell’universo meccanicistico appare intuitivo che ogni universo si illude di possedere la verità, o almeno di possedere una corretta concezione del mondo, ciò avviene perché in tale universo, definibile come essenzialmente materialista, vi è una perfetta coincidenza fra l’Universo e l’universo, ossia fra la totalità degli enti e dei fenomeni fisici, e la totalità di tutto ciò che esiste.

Ma se si assume una diversa prospettiva; se si ammette, almeno in via d’ipotesi, che la cosiddetta materia non sia la sola realtà esistente, ecco allora che l’universo fisico cesserà di apparirci come l’Universo in quanto tale; e dovremo ammettere che il relativismo (e lo scetticismo: siamo un po’ tutti nipoti di Voltaire e di Hume) del nostro modo di pensare è figlio, né più né meno, del nostro punto di vista di cittadini dell’universo moderno e che non apparteneva affatto, né poteva appartenere, ai cittadini degli universi precedenti.

Un buon esempio di questa aporia è offerto dalle pagine in cui l’Autore si sofferma a descrivere i processi alle streghe nell’Europa dei secoli passati. Egli presenta tali processi, e, a monte di essi, la credenza nella stregoneria, come un classico caso di ignoranza e di superstizione, che, però, non sono affatto riconosciute come tali né dall’uomo medio, né dai sapienti (e giustamente egli ricorda che fra gli assertori della credenza nella stregoneria c’era anche Francis Bacon, uno dei padri nobili della Rivoluzione scientifica), ma che i posteri fanno fatica a comprendere e ad accettare, tanto è palese la loro irrazionalità.

L’intento di Harrison è giustificato e, anzi, secondo noi lodevole: egli vuol metterci in guardia contro l’opinione per cui ciò che è vero e razionale per noi moderni, lo sia anche in termini assoluti; che, cioè, la verità delle nostre conoscenze e delle nostre convinzioni corrisponda alla parola finale riguardo alla verità e alla razionalità in quanto tali. E tuttavia l’argomento è a due lame: a quanto pare, ad Harrison non viene in mente, nemmeno per un istante, la scomoda e imbarazzante possibilità che, dopotutto, la stregoneria poteva anche essere una realtà e, quindi, che i processi alle streghe potessero anche avere una base culturale e giuridica perfettamente ragionevole; ovviamente, senza con ciò voler giustificare gli eccessi e le crudeltà che vennero compiuti in tale ambito.

Sta di fatto che la stregoneria esiste ancor oggi, e questo è un dato di fatto: ne parlano abbastanza spesso anche le cronache e sarebbe del tutto ingiustificato l’atteggiamento di colui che volesse rifiutare di prenderne atto, solo perché una tale realtà è in contrasto con le proprie convinzioni riguardo a simili cose. Pertanto non si vede perché la stregoneria non avrebbe potuto esistere, ed essere relativamente diffusa, nei secoli passati; al contrario, tutto lascia pensare che la sua esistenza fosse certa e che la sua diffusione fosse maggiore che al presente.

Il compito dello storico è quello di constatare l’esistenza di certi fatti, quella del filosofo è di ragionare su di essi in termini generali, cioè riconoscendoli come parte di un insieme più vasto; i personali pregiudizi dell’uno e dell’altro non dovrebbero mai interferire con la loro attività di ricerca e di studio.

Attenzione: una cosa è prendere atto del fatto che in tutte le società e in tutte le epoche è esistita la credenza nella stregoneria e così pure la pratica di essa; un’altra cosa, e ben diversa, è credere o non credere all’esistenza di reali poteri preternaturali da parte di coloro che praticano la stregoneria - e, in ultima analisi, credere o non credere nel Diavolo, dal quale tali poteri verrebbero conferiti a coloro che lo servono e lo adorano.

Quel che vogliamo dire è che uno storico di tendenza razionalista e positivista può anche non credere né a Dio né al Diavolo, e meno ancora ai poteri preternaturali conferiti alla strega o allo stregone, senza che ciò lo esima dal prendere atto del fatto che gli uomini ci abbiamo creduto per secoli, e non solo durante il “buio” Medioevo, ma anche in pieno Rinascimento e durante la Rivoluzione scientifica del XVII secolo; quanto al filosofo, comunque egli la pensi, deve del pari ragionare a partire da questo dato di fatto e non limitarsi ad irriderlo, a definirlo “assurdo” o a polemizzare contro le credenze proprie di un paradigma culturale diverso dal suo.

E proprio qui scivola il ragionamento di Harrison: egli dà per scontato che la caccia alle streghe dei secoli passati sia stata null’altro che una ondata di follia collettiva; constata che anche uomini di cultura e di pensiero, come Francio Bacon, erano partecipi di tale follia, ma non va oltre la conclusione, piuttosto immediata, che è quasi impossibile riconoscere l’assurdità di una credenza, quando si è radicati all’interno di un determinato “universo” culturale.

Eppure, proprio dall’esempio della caccia alle streghe si potrebbe ricavare una conclusione ben più ampia: chi o che cosa autorizza uno storico o un filosofo dei nostri giorni a liquidare il fenomeno secolare della caccia alle streghe come frutto di assurde superstizioni, se non la rigida prospettiva del proprio universo culturale, che ha stabilito una volta per tutte cosa sia possibile e cosa sia impossibile nel mondo della natura e in quello degli uomini?

In altre parole: se fosse vero che gli universi, come dice Harrison, non comprendono la mente di chi li pone, come è possibile parlare di universi; come è possibile valutare le loro credenze; come è possibile, addirittura, affermare o negare la possibilità che, in essi, certi fenomeni avvengano?

Inoltre, ci sembra strano che Harrison dia merito all’universo fisico di aver compreso che ogni universo è solo un prodotto della mente che lo ha creato, senza contare che ciò è in contraddizione con la teoria dei sei universi storici. Ci sembra strano, perché l’universo fisico, come egli stesso ammette, non può comprendere anche il pensiero; mentre l’universo spirituale può benissimo includere l’universo fisico, o almeno ciò che ci appare essere tale.

Harrison coglie nel segno quando vede che la specificità dell’universo moderno è quella di aver limitato il concetto di “universo” al solo universo fisico e, così pure, ha perfettamente ragione di rimproverargli di non aver compreso che tutto ciò che esiste é reale, anche se immateriale e, quindi, non percepibile fisicamente.

Se gli uomini ritornassero a una visione spirituale dell’Universo, allora potrebbero pensarlo in termini assolutamente inclusivi: potrebbero, cioè, dare conto di tutto ciò che esso contiene, anche di ciò che non vedono e non possono provare razionalmente, e in tal modo supererebbero l’angoscia e la schizofrenia dell’universo moderno; smetterebbero di cercare, come faceva Cartesio, la ghiandola pineale, nel vano tentativo di trovare il punto di congiunzione tra materia e spirito.

Resterebbe l’angoscia per la non condivisibilità dell’universo individuale di ciascuno; ma questo è un problema insolubile, che solo sul piano pratico trova una parziale risposta: ed è il ponte che l’amore può gettare fra due monadi isolate, riuscendo - talvolta - ad aprirne le loro porte e le loro finestre ben chiuse…