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La tecnica, antidoto illusorio alla disperazione, alimenta un sistema suicida che si auto-riproduce

di Francesco Lamendola - 22/01/2012



Che la società industriale stia correndo sul binario morto che porta verso il baratro, questa ormai non è una metafora poetica o una semplice teoria, ma una verità evidente, che nessun serio studioso dell’ambiente osa più mettere in dubbio: le uniche diversità di vedute riguardano i tempi e i modi della catastrofe, non il fatto in quanto tale.

E tuttavia, quasi incredibile a dirsi, nessuno scienziato, nessun economista, nessun uomo politico ha pensato di fare di questa tragica certezza la propria irrinunciabile battaglia ideale; nessuno, fra quanti siedono nei posti di responsabilità, ha ritenuto giusto e coerente assumersi in prima persona le conseguenze di una tale certezza: l’assoluta e immediata necessità di cambiare rotta, di cercar di evitare il disastro annunciato, adoperandosi per modificare il modo di pensare e di agire dei singoli individui e per varare politiche locali, nazionali e internazionali diverse da quella della pura e semplice accumulazione capitalistica.

Ciascuno è preso dai propri calcoli meschini di convenienza personale e di carriera; o, nel migliore dei casi, nelle logiche aberranti di una strumentalità che non bada a dove stiamo andando, ma che si appaga di sapere che stiamo procedendo nella maniera più efficiente e razionale possibile: così i responsabili militari degli arsenali atomici, così i responsabili civili delle centrali atomiche per la produzione di energia (tipico esempio, le quasi cinquanta, inutili centrali nucleari costruite in Francia negli ultimi decenni).

Il fatto è che nessuno scienziato, nessun economista, nessun uomo politico occupanti posizioni di rilievo sembrano minimamente intenzionati a giocarsi le prospettive di carriera, dichiarando senza mezzi termini che lo sviluppo industriale, così come lo abbiamo conosciuto finora, è un sistema suicida e che dobbiamo immediatamente cambiare strada, se vogliamo che i nostri figli abbiano un futuro, non già buono  o cattivo, ma un futuro qualsiasi da vivere.

Nessuno dice francamente che non possiamo continuare a produrre sempre di più, e cose sempre più inutili o dannose, al solo scopo che la produzione non cada e non si crei disoccupazione, perché questa è una logica aberrante; dobbiamo, invece, cominciare a produrre di meno e, nello stesso tempo, adoperarci affinché il lavoro umano sia al servizio di bisogni reali, a cominciare dal bisogno di mantenersi, e non di bisogni artificiali creati dalla pubblicità.

Questo concetto era ben chiaro nella mente dei tanto disprezzati uomini medievali, i quali ben sapevano che l’avidità di denaro, lasciata libera di scatenarsi, si sarebbe rivolta contro la società e che non a caso non possedevano nemmeno il concetto di “economia” e, forse, come ha sostenuto, anche recentemente, lo storico Jacques Le Goff, neppure quello di “denaro”, inteso in senso generale ed astratto.

Non erano la ricchezza e l’accumulo di denaro ad assicurare il buon vivere; per la Chiesa, massima custode dei valori morali del Medioevo (ma anche per Dante e per tutti i grandi pensatori di quella età), non la “cupitidas”, ma la “charitas” era la stella polare da seguire nella vita degli uomini; la ricchezza era guardata con sospetto, la povertà di Cristo era esaltata e si citava continuamente la frase evangelica sulla tremenda difficoltà, per un ricco, di entrare nel regno dei cieli.

Poi, nel 1323, Giovanni XXII condannò come eretico chi avesse sostenuto la dottrina della povertà di Cristo; e, dapprima sulla scia dell’economia mercantile dei comuni italiani e fiamminghi, indi con l’affermarsi delle prime forme di capitalismo nelle monarchie nazionali dell’Europa occidentale, l’economia monetaria prese libero corso, la povertà non fu più vista come una virtù, ma come un marchio d’infamia, e si diffuse la corsa alla ricchezza da parte di quanti potevano, con qualsiasi mezzo: anche con il prestito a usura, per l’addietro severamente condannato; anche con la recinzione dei campi, che toglieva ai contadini poveri qualunque possibilità di sopravvivenza e spazzava via una consuetudine secolare. Era stata inventata l’economia, nel senso moderno della parola.

Ebbene, forse dovremmo recuperare un po’ lo spirito dei saggi uomini del Medioevo, che possedevano il senso del limite e il senso del mistero: il primo li ammoniva a non fare, anche sul piano tecnico, tutto ciò che teoricamente è possibile fare, se ciò è diretto solo ad appagare l’orgoglio e il piacere e non a soddisfare dei bisogni veri; il secondo insegnava loro a non considerarsi onnipotenti e a ricordare sempre che le loro azioni, buone o cattive, li avrebbero condotti davanti al giudizio di Qualcuno che non si lascia ingannare dalle apparenze, ma legge secondo verità nel profondo dei cuori.

Il problema è che, per recuperare un simile atteggiamento spirituale, dovremmo riconoscere che il Dio della modernità, ossia il Dio della scienza e della tecnica al servizio esclusivo dell’economia, e non interessato al bene autentico dell’uomo, ha fallito; dovremmo avere l’umiltà di riconoscere che il Dio inventato dalla filosofia dei Lumi nel XVIII secolo, cioè il Progresso, è un Dio crudele e ingannevole, che si è beffato dei suoi stolti seguaci e li ha condotti in un vicolo cieco, senza speranza alcuna di redenzione o di riscatto, e che infine li ha abbandonati, smarriti e tremanti, o - cosa ancor peggiore - corazzati da una fredda vernice d’indifferenza e d’incoscienza, alle loro angosce mortali e alla confusione più completa.

Scriveva Gordon Rattan Taylor più di quarant’anni fa («La società suicida», London, 1970; titolo originale: «The Doomsday Book», traduzione italiana di Angelo Francesco Lucchesi, Mondatori, Milano, 1971, pp. 330-34):

 

«La società industriale è destinata a un processo di auto-distruzione:  la produzione di maggiori beni di consumo nella convinzione ch’essi appaghino i desideri dell’uomo, con mezzi  che non possono creare altro che insoddisfazione. Nessuno sa come sfuggire a questo processo. La pubblicità e le tendenze e le mode, deliberata,ente escogitate, sono mezzi necessari per assicurare il consumo di ciò che la macchina industriale produce, affermando la necessità di nuovi mercati per scongiurare la disoccupazione. Così finiamo per consumare per poter produrre e non il contrario. […]

La mia obiezione [al progresso tecnologico] è solamente che la tecnologia dovrebbe essere usata selettivamente e con moderazione. Come disse David Brower: “D’ora innanzi non basterà chiedersi se l’uomo può fare qualche cosa. Dobbiamo anche chiederci se è il caso che la faccia”.

Dire che la società ha bisogno di essere riorganizzata su un modello sociale pre-industriale, atto a ripristinare soddisfazioni tradizionali, è spesso considerato come un attacco alla tecnologia ed è biasimato come luddismo. In realtà non è così. Una società organizzata in modo socialmente più remunerativo potrebbe e certamente dovrebbe fare uso del progresso tecnologico in modo intelligente. […]

Anche il luddismo non è poi così brutto come lo si dipinge: il termine viene usato come se nessuna giustificazione fosse necessaria  per le implicazioni peggiorative. Luddismo, così pensano quelli che usano il termine, significa miopia,  mancanza d’immaginazione, follia ignorante,. Ma scegliere un modo di vita più semplice è una scelta che ognuno ha il diritto di fare.  Quando lord Leverhulme intraprese la costruzione di uno stabilimento per la salatura del pesce nello Stornoway, per dare lavoro ai piccoli coltivatori del luogo, venne indetta un’assemblea cittadina alla quale il portavoce degli isolani declinò cortesemente l’offerta , spiegando che essi preferivano i sistemi antichi - al benessere basato sulla schiavitù essi preferivano la libertà e redditi più bassi. Chi può affermare che avessero torto?

Si asserisce costantemente che è chimerico - talvolta si usa la parola “impossibile” - ritornare al passato. E così è. Nessuno desidererebbe fare a meno degli antibiotici o degli anestetici, per esempio. Ma ciò non significa che i buoni elementi del passato non possano essere combinati con i buoni elementi della tecnologia. L’argomento è specioso; il termine “passato” è anzitutto usato per intendere “una esatta riproduzione del passato”; il significato viene quindi modificato per intendere “qualche elemento del passato”.

Il suggerire di porre un freno alle velleità e alla ricerca tecnologica suscita sempre  violente critiche e opposizioni da parte di persone appartenenti quasi sempre al campo scientifico e tecnico  […]

Vale la pena di chiedersi perché i paladini della tecnologia se la prendano tanto. Ritengo che la risposta sia la seguente. Come spesso è stato detto […], il crollo della fede medievale nell’ordine divino condusse a un vuoto morale ove nulla aveva più uno scopo e l’uomo diveniva un numero. Un senso di disperazione prevalse. Questa “mancanza di energia” (il termine è di Toynbee)  fui esorcizzato dall’avvento del razionalismo; la ragione non era solamente necessaria, ma sufficiente come giustificazione. L’uomo aspirava a capire lo schema cosmico; la sua personale dignità derivava dai successi conseguiti. Il razionalismo in generale e la scienza in particolare presero così il posto della religione - o se voi siete propensi a definire la religione come un mito che dà uno scopo alla vita dell’uomo, in questo caso la scienza ERA una religione. Più tardi a questa nozione si aggiunse l’idea che il razionalismo avrebbe migliorato la sorte terrena dell’uomo. Il mito comunista nell’illimitato potere dell’uomo a plasmare l’ambiente non è altro che l’ottimismo del “riformatore” del XVIII secolo ingrandito.

Oggi la fede religiosa è ancor più in declino, non solo fra gli scienziati, mentre si è rafforzato il senso d’impotenza e di futilità dell’uomo. Le follie e le crudeltà dell’uomo sono più comprensibili; l’istruzione e l’elevato tenore  di vita non hanno creato una razza di esseri umani razionali e gentili, come l’era della ragione si aspettava. L’ordine sociale è divenuto più instabile. Così il bisogno di credere nel fine intellettuale dell’uomo e nella certezza che ciò assicurerà una vita migliore su questa terra, si è rinsaldato. Gli ottimisti non possono rinunciare a questa certezza senza abbandonare il loro ottimismo  e ricadere nella disperazione. Per di più a nessuno piace vivere in un sistema caotico. La scienza ci fornisce un sistema intellettuale che promette una salda struttura di riferimento nella quale è possibile integrare tutti i fenomeni. (Questo spiega anche la tendenza riduzionistica di molti scienziati e il loro orrore per tutto ciò che ha sapore di superstizione.)

È quanto il professor Manfred Stanley, dell’università di Syracuse, ha definito “il punto di vista dei sostenitori della tecnica”. Esso rispecchia un desiderio d’ordine nell’interesse dell’ordine stesso ed è oggi considerato come l’unica base possibile di accordo. Come egli rileva, gli stessi fenomeni sono interpretati in maniera diametralmente opposta dagli ottimisti, che credono nella tecnologia, e dai pessimisti che obiettano che, con questa dottrina, gli individui vengono coinvolti in una vasta organizzazione il cui unico fine il mantenimento del sistema. In tal modo gli esseri umani sono ridotti a mezzi - i mezzi con i quali il sistema è mantenuto.»

 

La tesi di Gordon Rattan Taylor era profetica e infatti, come suole avvenire, il suo libro ha avuto una diffusione piuttosto limitata e non ha acceso alcun serio dibattito nell’establishiment scientifico, economico e culturale; i nostri intellettuali “illuminati” e “progressisti” erano impegnati in tutt’altre battaglie che occuparsi di quisquilie come la salvaguardia della vivibilità del pianeta, la conversione della produzione in senso utile all’uomo e non ai grandi poteri economici, lo strapotere delle banche e della finanza.

Essi preferivano parlare e straparlare, al principio di quegli anni Settanta in cui si sarebbe stati ancora in tempo per intervenire prima che fosse troppo tardi, di diritti civili come l’aborto e l’eutanasia, della scuola di massa aperta a tutti, del sei politico all’università e, magari, della costruzione del marxismo-leninismo nell’Europa occidentale…

Gli uomini, dunque, hanno bisogno di sapere che la loro vita e la loro storia hanno un senso e, più ancora, che l’universo di cui fanno parte risponde a una precisa finalità; e, una volta spodestato il vecchio Dio del Vangelo, si sono affrettati a rimpiazzarlo con il nuovo Dio della scienza e della tecnica, che prometteva mirabilie e una specie di paradiso in terra per tutti i suoi seguaci.

Ma così non è stato: abbiamo adorato il Vitello d’Oro e ora non  sappiamo come uscire dal guado.

Forse, il primo passo per superare il punto morto - posto che ci resti ancora del tempo prima che il treno precipiti nell’abisso - sarebbe quello di riconoscere il nostro errore e di rientrare in noi stessi...