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Somalia 1992: l'umanitarismo ipocrita di Washington

di Dagoberto Bellucci - 25/01/2012

Fonte: dagobertobellucci


 

“Solo gli Stati Uniti dispongono di una potenza globale in grado di sbarcare una massiccia forza d’intervento nelle località più lontane e inaccessibili, con la rapidità e l’efficienza necessarie per salvare la vita a migliaia di innocenti”

 

( George W. Bush – “President’s Address on Somalia – New York Times , 5 Dicembre 1992 )

 

 

 

“Il multilateralismo dev’essere garantito solo quando serve agli scopi fondamentali della nostra politica estera, cioè la tutela degli interessi americani”

 

( Warren Christopher – Segretario di Stato USA )

 

 

 

 

 

 

L’imperialismo statunitense è andato espandendosi dagli inizi dell’Ottocento e per tutto il Novecento attraverso interventi militari illegittimi che, cominciando dall’America Latina ritenuta e sempre percepita dagli amministratori della Casa Bianca come il ‘cortile di casa’ attorno al quale costruire la propria sicurezza nazionale, miravano a favorire il commercio e gli affari delle grandi società multinazionali autentiche colonne del sistema politico USA.

 

Tutti gli interventi militari “made in USA” seguiranno pertanto il doppio binario guida e verranno giustificati in base ai principi degli interessi e della sicurezza nazionali. Tutto il resto viene utilizzato strumentalmente, come propaganda per l’interno (ci deve pur essere un buon motivo per mandare a morire i propri figli) e, soprattutto, come giustificazione per l’esterno.

 

Normalmente sono state motivazioni di ordine pratico a spingere in guerra l’America: l’espansionismo a stelle e strisce ha profonde radici economiche, è connaturato allo ‘spirito’ ed al carattere propri degli americani ed ha una intrinseca derivazione dal modello di sviluppo consumistico del suo capitalismo interno.

 

“La guerra economica – scrive il generale Carlo Jean (1) – è un fenomeno vecchio come il mondo, che si è via via adattato alle variazioni della situazione internazionale. Nella prassi l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti, hanno fatto sempre più largamente ricorso agli strumenti dell’embargo, eventualmente rinforzato dal blocco militare e dalla sanzione economica coercitiva. Entrambi costituiscono la forma più antica di guerra “economica”, storicamente associabile alla guerra “militare”. (…) Il termine geoeconomia è stato recentemente introdotto da Edward Luttwak, in contrapposizione non solo a quello di geopolitica, ma anche a quello di mercantilismo. (…) la sua tesi è che, con la fine del mondo bipolare, la forza militare sarebbe divenuta marginale non solo nelle relazioni fra Nord e Sud, data l’enorme superiorità tecnologica del Nord, ma soprattutto nelle relazioni Nord-Nord, fra i poli geoeconomici e gli Stati industrializzati. (…) A differenza della guerra economica la semplice competizione geoeconomica non ha come scopo centrale l’indebolimento dell’economia di un avversario, ma quello di rafforzare la propria rendendola più competitiva. (…) La competizione geoeconomica, come la configura Luttwak, è sostanzialmente un confronto per accrescere le posizioni competitive dei propri “campioni nazionali” e del sistema-Paese nel mercato globale… (…). C’è da osservare che la contrapposizione fra geoeconomia e geopolitica è funzionale, per Luttwak, alla perorazione di un colbertismo americano, finalizzato a ricostituire le basi economiche e sociali della nazione. Rientra quindi, per gli Stati Uniti, nel cospicuo filone del “bashing Japan” e di un più accentuato protezionismo nei confronti della concorrenza europea. Attaccando la “geopolitica”, Luttwak intende sicuramente contestare l’atteggiamento di quanti, negli Stati Uniti, perorano la mancanza di una partnership politico-militare USA-Europa e temono che questa possa essere compromessa da una politica neoprotezionista che sgretolerebbe il GATT e aumenterebbe la conflittualità economica interatlantica.”.

 

Esistono poi altri fattori secondo i quali questo genere di espansionismo rapace deve periodicamente mostrarsi efficiente e attivarsi per conquistare nuove posizioni di prestigio e punti strategici nei quattro angoli del pianeta. Tra questi fattori per così dire secondari vi sarebbe anche quello che pretenderebbe che l’espansione illimitata e costante dell’espansionismo americano all’estero rappresentasse una garanzia per il mantenimento dell’ordine sociale e della stabilità interna.

 

E’ questa la tesi offerta dagli autori di “Sentimental Imperialist”, un saggio sull’imperialismo statunitense (2), che nel loro volume hanno riproposto a suffragio della loro tesi le opinioni del capitano Alfred Mahan, uno dei grandi teorici della geopolitica statunitense, secondo il quale le masse che rifiutano la sfida dell’espansionismo sarebbero inequivocabilmente portate verso la ribellione ed il socialismo.

 

Un caso apparentemente distinto rispetto alle linee guida seguite in politica estera dagli Stati Uniti sembra essere quello legato all’intervento in Somalia deciso dall’amministrazione Bush alla fine del suo mandato nel dicembre 1992. Un intervento anomalo tra tutti quelli che avevano fino a quel momento e avrebbero successivamente caratterizzato l’espansionismo statunitense tutto impegnato a costruire il suo “Ordine Mondiale” garantendo alle multinazionali americane il predominio sui mercati internazionali.

 

Per capire le vere motivazioni che portarono all’intervento USA nella Somalia – dilaniata da una guerra civile tra opposti clan e da una carestia che aveva dilaniato in quel 1992 centinaia di migliaia di somali – occorre ripercorrere la storia delle relazioni intessute dagli Stati Uniti con i due principali attori geopolitica del Corno d’Africa:la Somalia ed il suo potente vicino, l’Etiopia.

 

Fin dalla sua restaurazione dopo la parentesi italiana Washington aveva sostenuto Ailè Selassiè , il potente sovrano etiope. In cambio di massicci aiuti militari il Negus di Addis Abeba aveva concesso alle forze armate a stelle e strisce l’uso senza alcuna restrizione della base di Kagnew.

 

A rimettere in discussione quest’idiliaca alleanza sarà nel 1974 il colpo di stato militare che abbatterà il regime monarchico avvicinandosi, progressivamente, verso Mosca.

 

In Somalia era al potere, fin dal 1969, il generale Mohammed Siad Barre.

 

La Somalia, antica colonia italiana, aveva raggiunto l’indipendenza nel 1960 dopo un periodo di transizione durato dieci anni (1950-1960) al quale aveva provveduto la cosiddetta “Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia” (AFIS) eterodiretta dall’ONU. L’indipendenza sancita all’inizio degli anni Sessanta scaturirà dall’unione tra l’ex Somalia italiana e l’ex Somalia britannica. Gibuti (ex Somalia francese) diventerà indipendente solo nel 1977.

 

 I somali nel 1960 e nel 1964 avevano lanciato offensive contro il vicino etiope per conquistare la regione dell’Ogaden che, assieme a Gibuti e ad altri territori del Kenia, i dirigenti di Mogadiscio periodicamente rivendicano come parte di un disegno geopolitico e strategico che dovrebbe portare alla costituzione di una “Grande Somalia”.

 

All’epoca l’URSS diede alla Somalia le armi necessarie per condurre le sue offensive in Ogaden ed in cambio i sovietici ottennero l’accesso al porto e ai campi di aviazione di Berbera.

 

Nella logica, all’epoca dominante, della “guerra fredda” Est-Ovest gli Stati Uniti sostenevano l’Etiopia contro i somali sostenuti dai sovietici. Le cose cambiarono quando, ai primi del 1977, la fazione più radicalmente marxista della giunta militare al potere da tre anni ad Addis Abeba si impadronì del potere: immediatamente Mosca concesse crediti per forniture di armi al suo nuovo alleato puntando così sull’Etiopia – stato dominante l’intera regione – a scapito della Somalia.

 

Carter scoprì così all’improvviso che gli etiopici violavano i diritti umani, sospese loro gli aiuti e riallacciò rapporti con la Somalia dando ordini ai suoi consiglieri di tentare con tutti i modi e mezzi di ristabilire relazioni con Mogadiscio.

 

Nel giugno di quel 1977 l’amministrazione Carter fece pervenire un messaggio a Siad Barre secondo cui i suoi uomini avrebbero avuto ‘carta bianca’ sull’Ogaden qualora avessero abbandonato le loro rivendicazioni su Gibuti e i territori del Kenia; in cambio di questa inversione di rotta Washington avrebbe preso in considerazione le legittime necessità difensive della Somalia incoraggiando i suoi alleati ad inviare rapidamente forniture di armi a Mogadiscio.

 

Così incoraggiata sottobanco da Washington la Somalia non attese neanche due mesi e, nell’agosto di quell’anno, lanciò la sua ennesima invasione dell’Ogaden riprendendo le ostilità contro i “comunisti” di Addis Abeba.

 

Ufficialmente l’amministrazione proclamò l’embargo di armi ad entrambi i due paesi: la Somalia era peraltro l’aggressore e conveniva a Carter ed ai suoi denunciare i sovietici per il rifornimento costante di armamenti all’Etiopia ovviamente ‘sorvolando’ sul fatto che Israele proprio in quell’afoso agosto 1977 stesse consegnando alla Somalia per conto di Washington 23 mezzi pesanti di produzione americana con relativi pezzi di ricambio questi ultimi per un valore di oltre quattrocentomila dollari.

 

Al Consiglio di Sicurezza la diplomazia americana si rifiutò di condannare l’invasione dell’Ogaden da parte somala voltandosi poi indifferente dall’altra parte quando i suoi alleati ( Arabia Saudita, l’Iran dello scià, l’Egitto e il Pakistan) iniziarono a trasferire in Somalia armi di fabbricazione americana.

 

La Somalia nel novembre 1977 denunciò il trattato di amicizia etiope-sovietico. Con l’aiuto dei consiglieri sovietici, accorsi numerosi ad Addis Abeba, e contingenti di mercenari cubani l’Etiopia aveva costretto l’esercito somalo a ritirarsi dalla regione contesa. Nel gennaio 1978 l’URSS propose agli americani una mediazione congiunta per fermare il bagno di sangue nel Corno d’Africa: l’allora consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski – esponente del National Security Council e leader della Commissione Trilaterale – respinse la proposta del Cremlino sostenendo che avrebbe legittimato la presenza sovietica nella regione.

 

Tre mesi più tardi, nel marzo 1978, Barre decise il ritiro unilaterale delle sue truppe dalla regione contesa causando immediatamente, come conseguenza, una massiccia ondata di profughi.

 

Reparti somali comunque rimasero in Ogaden. Nei mesi successivi l’amministrazione Carter chiese alla Cina di sostenere militarmente la Somalia. Invito che Pechino accettò immediatamente.

 

Successivamente assieme ai cinesi i principali fornitori di armi per Barre ed i suoi furono i sauditi e, soprattutto, gli italiani. Nell’agosto 1979 l’amministrazione americana firmò un accordo con la Somalia per la fornitura diretta di armi americane in cambio di basi: ai soldati della Forza di Rapido Intervento voluta da Carter furono così trasferite le vecchie basi sovietiche aeree e navali di Berbera; in cambio Barre garantiva che nell’Ogaden non sarebbero intervenuti reparti somali. Ovviamente mentiva. Come mentivano quelli dell’amministrazione USA.

 

L’accordo firmato dall’amministrazione Carter infatti chiudeva tranquillamente un occhio sul fatto che almeno tre battaglione somali stazionavano in Ogaden armati di tutto punto con materiali di fabbricazione statunitense. Di fronte a queste violazioni il Congresso decise di congelare l’accordo fino a quando l’amministrazione Carter non dimostrasse che nessun somalo operava in territorio etiope.

 

Il cambio di amministrazione a Washington, con l’ascesa dei repubblicani e di Ronald Reagan alla Casa Bianca, non mutò apparentemente molto la situazione. Reagan pensava fosse più proficuo cercare contatti con l’Etiopia – troppo potente e importante per il suo ruolo strategico regionale rispetto alla Somalia – ma quando a metà del 1982 truppe di Addis Abeba si unirono ad alcune milizie irregolari somale ribelli e sconfinarono allora Washington provvide a rifornire di nuovi armamenti Mogadiscio. Tra il 1980 e il 1989 gli USA fornirono così alla Somalia aiuti militari per un valore di 390 milioni di dollari (comprendendo sussidi, aperture di credito, addestramento dei reparti militari e di sicurezza) oltre ad altri 200 milioni di dollari in vendite in contanti.

 

Nel primo quinquennio degli anni Ottanta la Somalia era al quarto posto tra i paesi dell’Africa al di sotto del Sahara a ricevere aiuti da Washington e nel 1986 passò al primo.

Numerosi carichi di armi furono inviati dal governo amico di Roma – già potenza occupante l’area e poi stato mandatario della transizione verso l’indipendenza alla fine del secondo conflitto mondiale – e finanziamenti ingenti giungevano a Mogadiscio da Riad. Furono, assieme a Washington, queste due capitali che si impegnarono a mantenere Siad Barre al potere in Somalia per tutti gli anni Ottanta.

 

Gli Stati Uniti si impegnarono anche sul fronte dell’invio di consiglieri militari: una quarantina nel 1983 ai quali si dovevano aggiungere circa 350 istruttori statunitensi inviati da Washington tra il 1980 e il 1989. L’obbligata luna di miele tra USA e Somalia sarebbe stata rimessa in discussione proprio con la fine della guerra fredda.

 

Nel 1988 i due stati nemici del Corno d’Africa , Somalia ed Etiopia, firmarono un accordo che li impegnava a non sostenere le milizie dell’una e dell’altra parte. Come conseguenza l’Etiopia espulse il Movimento Nazionale Somalo (Somali National Movement SNM) che aveva combattuto contro Barre fin dal 1981 e che si riversò direttamente in territorio somalo dando inizio ad una cruenta guerra tribale che avrebbe in pochi anni portato al collasso la nazione africana.

 

Barre da parte sua rispose inequivocabilmente con assoluta ferocia: dopo aver dominato il paese puntando sulle divisioni tra i clan si ritrovò la guerra in casa.

 

L’ SNM era costituito maggioritariamente dai componenti di una singola etnia, l’Isaak. Contro di loro Barre scatenò una durissima repressione che comprese l’avvelenamento dei pozzi, la distruzione di interi capi di bestiame, i bombardamenti aerei.

 

Hargeisa, seconda città della Somalia, conobbe la ferocia dell’aviazione governativa. In un anno (dal maggio 1988 al marzo 1989) cinquemila civili dell’etnia Isaak furono massacri dalle truppe regolari somali. “Africa Watch”, ong che si occupava dei diritti umani nel continente africano, calcolò in un numero compreso tra le 50 e le 60mila le vittime del massacro.

 

Alla fine del giugno 1988 nel momento cruciale dell’offensiva dell’esercito contro gli Isaak il Dipartimento di Stato USA consegnò a Barre una fornitura di fucili automatici e lanciagranate per il valore di un milione e 400mila dollari.

 

Inoltre sempre nello stesso periodo furono tecnici militari degli Stati Uniti ad essere chiamati a ripristinare il centro di comunicazioni dell’esercito somalo andato distrutto ad Hargeisa.

 

Una commissione del Congresso USA riconobbe che erano stati i militari a stroncare una rivolta popolare legittima, frutto di anni di oppressione e raccomandò il taglio degli aiuti al governo di Barre. Gli aiuti continuarono comunque ad affluire in un paese che lentamente stava scivolando in una guerra civile sempre più cruenta.

 

L’amministrazione USA continuava a premere per l’assegnazione di fondi destinati al suo alleato.

 

All’epoca solo Cina, Libia e Sud Africa armavano quello che oramai era stato screditato a livello internazionale come un tiranno al quale tutti i capi clan del paese si erano rivolti invitandolo a desistere dal massacro e ad abbandonare il paese. La Somalia precipitò nell’inferno della guerra civile: nel solo mese che precedette la cacciata di Barre, gennaio 1991,  furono massacrate oltre ventimila persone. L’America, in tutt’altre faccende affaccendata (c’era l’Iraq di Saddam Hussein dall’agosto precedente a concentrare tutta l’attenzione degli alti funzionari della Casa Bianca e quella dei militari al Pentagono) se ne disinteressò completamente lasciando che il paese scivolasse tranquillamente in una carneficina di bande tribale contrapposte.

 

Alla caduta di Barre il paese era suddiviso in zone d’influenza ciascuna controllata da clan rivali, in tutto una dozzina, organizzati in milizie paramilitari con il vecchio SNM che invano aveva cercato di sfruttare il caos che si era venuto a creare ed il vuoto di potere lasciato da Barre a Mogadiscio per proclamare un’effimera Repubblica della Somalia nella parte settentrionale del paese.

 

In poche settimane il paese sarà preda dei tristemente noti “signori della guerra” che si impegneranno in sporadici conflitti fino a quando, nel novembre 1991, due usciranno vincitori dal grande caos post-Barre: da un lato la milizia del generale Mohammed Farah Aidid e dall’altro quella del generale Mohammed Alì Mahdi entrambi appartenenti a due sotto-clan del cland di Hawiye ed entrambi proclamatisi detentori legittimi del potere.

 

Washington continuò ad ignorare la situazione somala mentre i due contendenti iniziarono la loro battaglia per il potere. Nel febbraio 1992 venne raggiunto un accordo generico, sulla base di un cessate il fuoco proposto dalle Nazioni Unite, che lasciava al gen. Aidid la maggior parte della capitale. La situazione si faceva invece disastrosa nelle campagne dove la guerra aveva costretto i coltivatori ad abbandonare le loro terre determinando una situazione di carestia che presto si sarebbe estesa a tutto il paese.

 

Venne deciso l’invio di una commissione ONU per stabilire il rispetto del cessate il fuoco. La missione raccomandò l’invio di una forza di pace di 500 uomini. Gli Stati Uniti ritennero necessaria l’approvazione delle parti in conflitto ritardando l’applicazione di questa misura d’emergenza e facendo passare l’estate.

 

Alì Mahdi, che era stato riconosciuto dall’ONU durante le fasi della mediazione ad inizio 1992 si dimostrò favorevole alla missione internazionale mentre Aidid fu subito contrario.

 

Un contingente militare di 500 pakistani mise oltre due mesi prima di poter sbarcare in Somalia grazie ad un ponte aereo mentre il Consiglio di Sicurezza autorizzò l’invio di altri tremila uomini senza consultare alcuna delle parti in lotta. Aidid allora accusò l’ONU di complotto promettendo di rimandare a casa loro i caschi blu dentro casse da morto.

 

La Somalia non rientrava propriamente nelle principali aree d’interesse statunitensi. E più in generale se ne disinteressarono anche a livello di Nazioni Unite. I tentativi di mediazione spesso fallivano prima ancora di cominciare. A Washington fino a quel momento si facevano orecchie da mercante. L’Onu era più interessato alla guerra dei ricchi scoppiata nella ex Yugoslavia; la Casa Bianca aveva il suo da fare nel dopoguerra iracheno.

 

Alla fine nell’agosto 1992 venne deciso l’invio di quantitativi di cibo alla Somalia mediante un ponte aereo militare. Fu chiaramente una decisione estemporanea, un intervento dell’ultimora; una iniziativa presa troppo rapidamente perché potesse realmente dare i suoi frutti e non furono pochi – soprattutto nell’opinione pubblica americana sempre attenta a quanto succede in casa propria – a vedere in questa “fretta” dimostrata dall’amministrazione Bush un diversivo in vista delle imminente Convention repubblicana.

 

La Croce Rossa internazionale, che era tra le poche organizzazioni rimaste in loco a coordinare gli aiuti umanitari e il trasferimento dei generi alimentari, fece presente a Washington di essere contraria a far arrivare gli aiuti a bordo di aerei militari e per di più senza i contrassegni delll’organizzazione.

 

Washington accettò le condizioni della C.R.I. e venne autorizzato infine il ponte aereo. Dal settembre di quel 1992 il governo USA si fece promotore dell’iniziativa che si sarebbe concretizzata tre mesi più tardi ed avrebbe preso il nome di “Restore Hope” (Ridare speranza).

 

Non sarà un successo né d’immagine né concretamente sul piano dell’effettivo aiuto umanitario ad una popolazione stremata dalla carestia e dal conflitto civile.

 

Secondo la stampa oltre l’80% degli aiuti umanitari inviati dal settembre al dicembre 92 vennero saccheggiati e la sicurezza dei porti dove la Croce Rossa era solita far attraccare le navi cariche d’aiuti diminuì. La fase più acuta della carestia si ebbe tra luglio e settembre. A Baidoa , epicentro della carestia, secondo le stime fornite dalla stessa organizzazione umanitaria si passò da un numero di circa 300 morti quotidiani per fame a settembre al centinaio registrato in dicembre.

 

Fu in queste circostanze che Bush, a novembre, presentò la sua offerta all’ONU per l’invio di una missione militare americana in Somalia.

 

L’opinione pubblica USA fu spiazzata dall’annuncio del presidente. Molti commentatori ed anchor-men si domandavano quali interessi nazionali potessero essere in gioco in Somalia e non pochi si affrettarono a sottolineare che neppure le enormi risorse petrolifere, minerarie e di uranio presenti nel paese africano valevano i rischi di un intervento che veniva avvertito come estraneo alla tradizionale politica estera statunitense.

 

La mancanza di un reale interesse strategico e la prospettiva di deludenti profitti condizionarono fin dall’inizio la percezione che ebbero i media americani sulla missione Somalia.

 

Una missione che si prospettava piena di incognite e rischi. Innanzitutto il governo americano unilateralmente intese l’operazione come una propria operazione pertanto , nell’offrite all’ONU l’invio di truppe per la Somalia, Bush sottolineò che queste ultime avrebbero dovuto operare esclusivamente sotto il comando del Pentagono. Inoltre Washington pretese che anche gli altri contingenti militari operanti nel paese passassero sotto comando statunitense.

 

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU alla fine fu costretto ad accettare le richieste americane: nel dicembre 1992 Washington aveva con l’ONU un debito di 290 milioni di dollari. L’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros Ghali, commentò amaramente questa situazione e l’impossibilità di eludere le richieste-diktat statunitensi dichiarando: “la nostra organizzazione non può fare a meno della partecipazione degli Stati Uniti, ma quando questi vogliono l’assoluto controllo di tutto e si servono dell’ONU come una foglia di fico, così come, ultimamente, è accaduto in Irak e Somalia.”.  

 

Il 4 dicembre 1992 infine ebbe inizio l’operazione umanitaria per aiutare la Somalia, per “ridarle speranza” come si disse all’epoca.

 

Quattro giorni dopo gli incursori della marina degli Stati Uniti, preceduti da una folta schiera di corrispondenti dei principali media internazionali che – assiepati sulle spiagge di Mogadiscio – documentarono le fasi dello sbarco con dovizia di particolari, giunsero in Somalia. Non si era mai vista nella storia di tutte le operazioni anfibie militari una cosa del genere: reparti d’assalto, l’elitè dell’esercito più forte del pianeta, che dovevano letteralmente scansare centinaia di telecamere e microfoni posizionati ovunque sulla spiaggia davanti alla capitale somala.

 

Il Pentagono ebbe anche la faccia tosta di essersi trovato tra i piedi troppi giornalisti quando erano state proprio le stesse fonti militari ad annunciare con largo anticipo ora e luogo dello sbarco.

 

Quello che si voleva era richiamare attorno all’operazione umanitaria l’interesse dei media.

 

Il contingente americano, forte di 30mila unità, dominava completamente l’operazione.

 

Agli americani si unirono forze militari di altri 21 paesi tra questi Pakistan, Italia, Belgio e Nigeria.

Occorre sottolineare come in Somalia furono attuate delle iniziative umanitarie, possibili solo per la presenza di una cornice di relativa sicurezza dovuta alle truppe dell’ONU inviate con il tentativo di ripristinare la vita civile. Queste iniziative furono attuate attraverso operazioni di vario genere, sempre supportate da un dispiegamento militare per garantire la sicurezza di operatori medici e popolazione; ne fu un chiaro esempio  l’operazione “More Care”, destinata ad assicurare cure mediche e dentarie alla popolazione.

Tra queste, la distribuzione di cibo, l’assistenza medica, incluso un piano di vaccinazione per i bambini, la creazione di strutture statali e soprattutto il disarmo delle fazioni in lotta, le quali ottenevano i fondi necessari al loro armamento dal commercio di droga e dal traffico di rifiuti tossici che venivano smaltiti illegalmente in territorio somalo o nel mare antistante. L’intervento fu quindi largamente osteggiato da queste fazioni, che con attacchi diretti o attraverso l’uso di masse popolari misero spesso in difficoltà le forze ONU.

L’operazione si dimostrò incapace di fermare i combattimenti tra le fazioni che, anzi proprio per la presenza militare americana, aumentarono. Le truppe USA se la presero comoda prima di arrivare nei centri dove la carestia stava ancora decimando la popolazione.

 

La presenza del contingente militare americano inoltre peggiorò i problemi di Baidoa, epicentro della carestia, che si vide arrivare le milizie che i marines cacciavano dalla capitale con il risultato che per alcune settimane la distribuzione degli aiuti laddove ve n’era più bisogno avvenne tra feroci scontri tribali.

Il presidente Clinton, succeduto a gennaio 1993 a Bush, arrivò a vantarsi che l’operazione “Restore Hope” aveva salvato un milione di vite umane quando in realtà il numero dei decessi era calato vistosamente già prima che sbarcassero i marines.

‘Restore Hope’ inoltre spinse le popolazioni alla fame a rifugiarsi nei campi di raccolta della Croce Rossa: ciò provocò un ulteriore problema alzando il numero delle vittime che contraevano malattie determinate dal sovraffollamento di questi centri.

Un mese dopo l’inizio delle operazioni secondo i dati forniti dal centro di prevenzione e di controllo sanitario di Bardera la mortalità era quasi raddoppiata e, per i bambini al di sotto dei cinque anni, quadruplicata.

L’argomento principale utilizzato dall’amministrazione Bush e dall’opinione pubblica americana che stava con il Presidente per sostenere l’invio di truppe in Somalia fu quella che le organizzazioni umanitarie internazionali fossero costrette ad operare in condizioni troppo pericolose. In realtà, nei primi tre mesi dall’inizio di ‘Restore Hope’, tre volontari stranieri furono uccisi quando nei tre anni precedenti ne erano stati ammazzati soltanto due.

Infine venne concessa troppa attenzione ai cosiddetti “signori della guerra” come quando l’inviato americano Robert B. Oakley organizzò un ben pubblicizzato incontro tra Aidid e Alì Mahdi nel dicembre 1992.

L’attenzione quasi ossessiva riservata dagli americani alla “caccia all’uomo” che si aprì nei confronti di Aidid ricade esclusivamente sul Dipartimento di Stato che non lesinò vanamente uomini e mezzi per cercare di prendere quello che stava per diventare il peggior incubo dei sogni di potenza statunitensi. Tenuti in scacco da un generale che aveva alle proprie dipendenze qualche migliaio di armati i marines finirono per impantanarsi nel conflitto civile , commisero inutili stragi di civili finendo per inimicarsi la popolazione e – soprattutto – rendere un pessimo servizio a colui che avevano cercato fin dall’inizio di demonizzare.

Aidid finì per trasformarsi in una specie di eroe nazionale quando, al pari di tutti gli altri signori della guerra, era un criminale macchiatosi di efferatezze quanto e forse più del suo rivale Alì Mahdi.

Il costo delle operazioni che avevano l’unico scopo di catturare Aidid fu enorme sia per i costi finanziari che d’immagine e di vite umane. Il contraccolpo a queste operazioni poliziesche fu che in Somalia si scatenò rapidamente un violento movimento xenofobo contro i “bianchi” occidentali invasori così da vanificare completamente lo spirito dell’iniziativa.

 

Gli sviluppi della situazione, con i marines impantanatisi a giocare al gatto col topo con un personaggio minore qual’era un Aidid, convinse infine il Pentagono e l’amministrazione che l’Operazione Somalia doveva finire e anche in fretta.

 

Nel maggio 1993, a soli cinque mesi dal tanto pubblicizzato sbarco dei marines sulle coste di Mogadiscio, Clinton annunciò il ritiro di gran parte del contingente militare mentre i capi-clan sembrava avessero raggiunto un nuovo accordo per la deposizione delle armi e un cessate il fuoco.

 

Fu una tregua di breve durata: alla fine dell’estate i signori della guerra riaprirono le ostilità costringendo Clinton a inviare nuovamente i Rangers ed altre unità speciali che si distinsero in quella inutile quanto infruttuosa ed esasperante caccia ad Aidid.

 

Ma anche questa seconda missione, integrativa della prima, doveva rivelarsi infelice: il 3 ottobre 1993 due elicotteri Black Hawks furono abbattuti dai ribelli somali. La battaglia che scaturì tra marines e miliziani fece altre 18 vittime e 73 feriti tra le forze speciali statunitensi mentre oltre 200 civili somali persero la vita durante i violenti combattimenti che convinsero infine Clinton al definitivo ritiro dal paese, stabilito entro il marzo 1994.

 

Nel febbraio 1994 il Consiglio di Sicurezza ONU modificava la natura dell’intervento limitandolo alla sola protezione dei porti, degli aeroporti e delle altre vie di comunicazione stabilendo un termine all’intera operazione fissato per il 31 marzo 1995.

 

Possiamo tranquillamente affermare che quella che era nata come “missione umanitaria” venne vanificata dall’ottusità con la quale Washington aveva gestito l’intera operazione riducendone il senso ad una mera caccia al ribelle senza riuscire a ripristinare l’ordine né tantomeno alleviare le sofferenze della popolazione che, una volta ritiratisi i contingenti militari americani ed europei, cadde nuovamente preda della violenza generalizzata, dei nuovi signori della guerra locali e soprattutto delle nuove “corti islamiche” costituitesi immediatamente dopo la partenza delle truppe ONU e legate alla rete terroristica mondiale di Al Qaeda.

 

Né migliore sorte ebbero altri contingenti: il 5 giugno 1993 24 soldati pakistani furono uccisi dai miliziani somali.

 

L’Italia inviò in Somalia il 24.mo Gruppo Navale , operativo dall’11 dicembre 1992 al 14 aprile 1993.

 

Il contingente italiano operò in particolare nell’area di Mogadiscio e nella zona di Balad, lungo la vecchia via Imperiale (secondo il vecchio nome del periodo coloniale).

 

Gli italiani cercarono inizialmente di operare cercando il contatto diretto con le popolazioni locali e avvalendosi dell’immagine lasciata dall’epoca in cui gestirono il mandato fiduciario sulla Somalia negli anni Cinquanta.

 

Ciononostante vi furono attacchi ai checkpoint italiani e, all’epoca, venne fuori la vergogna delle foto – pubblicate dal settimanale “L’Espresso” – sui maltrattamenti imposti a prigionieri somali catturati da nostri militari.

 

Dall’altra parte, specificatamente dalle fazioni armate in lotta, vi fu spesso un uso strumentale della popolazione contro le truppe, non solo italiane, per compensare la evidente inferiorità militare e di cui fu un tragico esempio l’episodio della cosiddetta Battaglia del pastificio (dal nome del nostro checkpoint “Pasta”) nella quale tre soldati italiani morirono e diversi vennero feriti.

 

Al bilancio tutt’altro che brillante della missione militare italiana in terra di Somalia devesi aggiungere il misterioso e quanto mai inquietante assassinio della giornalista della Rai, Ilaria Alpi, uccisa assieme al suo operatore, Miran Hrovatin, in circostanze mai del tutto chiarite mentre stava indagando su un traffico di sostanze tossiche dall’Europa al paese africano.

 

Ha scritto Noam Chomsky parlando della situazione somala attuale: “La Somalia, tormentata dalla guerra e dalla carestia, è assediata dall’interno e dall’esterno.
Con il nuovo sistema di vigilanza rafforzato dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno riformulato il loro tentativo di controllare il Corno d’Africa (Gibuti, Etiopia, Eritrea e Somalia), che ritengono uno dei fronti della “guerra al terrorismo”. La crisi somala può quindi essere considerata uno dei danni collaterali della “guerra al terrorismo”.
A novembre, scrive il New York Times, l’Onu ha osservato che in Somalia c’era, rispetto al Darfur, “un tasso di malnutrizione più alto, un maggior numero di uccisioni e meno volontari delle organizzazioni umanitarie”. Eric Laroche, che dirige le operazioni umanitarie dell’Onu sul posto, sostiene che le Nazioni Unite non sono in grado di raggiungere la popolazione che muore di fame, di malattie e di violenza in Somalia. “Se tutto questo stesse succedendo in Darfur, si farebbe un gran chiasso”, ha detto Laroche. “Ma quella della Somalia è un’emergenza dimenticata da anni”. Un’altra differenza è che della tragedia nel Darfur si può dare la colpa a un nemico uficiale – il governo del Sudan e le sue milizie – mentre la responsabilità dell’attuale catastrofe somala, come di quelle che l’hanno preceduta, è fondamentalmente interna. (…)
La “missione di soccorso” lasciò il paese nelle mani dei signori della guerra. “A quel punto, gli Stati Uniti e buona parte del resto del mondo voltarono le spalle alla Somalia”, scrive il New York Times. “Ma nell’estate del 2006 il mondo riprese a occuparsene, quando dal caos emerse un movimento islamista che assunse il controllo di quasi tutto il paese”, lasciando nelle mani del Governo di transizione federale (Gtf ), riconosciuto dall’occidente, solo un’enclave ai conini con l’Etiopia. Durante questo breve periodo di potere, gli islamisti “non ci crearono nessun problema”, dice Laroche. Ahmedou Ould Abdallah, rappresentante della Somalia all’Onu, deinisce i sei mesi del loro governo “un’epoca d’oro”, l’unico periodo di pace in tanti anni. Ma nel dicembre del 2006 l’Etiopia invase la Somalia, con l’appoggio degli Stati Uniti, per imporre il regime del Gtf. L’invasione del nemico storico della Somalia, l’Etiopia cristiana, ha provocato una forte resistenza, che ha portato alla crisi attuale.
Il motivo uficiale della partecipazione degli Stati Uniti all’abbattimento del regime islamista da parte dell’Etiopia è la “guerra al terrorismo”, che ha generato solo atrocità e altro terrorismo. Senza considerare che le radici del regime fondamentalista islamico somalo risalgono a una fase precedente della guerra al terrore. Subito dopo l’11 settembre gli Stati Uniti guidarono un intervento internazionale per chiudere Al Barakaat – un’agenzia per il trasferimento di denaro con sede a Dubai che gestiva anche le principali imprese somale – dicendo che inanziava il terrorismo. Quest’operazione fu giudicata dal governo e dai mezzi d’informazione statunitensi come uno dei grandi successi della guerra al terrorismo. Il fatto che un anno dopo Washington sia stata costretta a ritirare le sue accuse infondate, invece, ha suscitato poco interesse. La Somalia fu molto penalizzata dalla chiusura di Al Barakaat. Secondo l’Onu, nel 2001 l’organizzazione gestiva circa metà dei 500 milioni di dollari di rimesse del paese, “più di quanto la Somalia guadagni con tutte le altre attività economiche e dieci volte l’ammontare degli aiuti internazionali che riceve”. Al Barakaat aveva anche un ruolo centrale nell’economia, osserva Ibrahim Warde nel suo studio sulla “guerra economica al terrorismo” di Bush, The price of fear (Il prezzo della paura).
L’inutile attacco a un paese già così fragile “ha probabilmente aiutato l’ascesa dei fondamentalisti islamici”, scrive Warde.
Il nuovo supplizio della Somalia rientra nel tentativo di Washington di prendere il controllo del Corno d’Africa e delle sue rotte commerciali, nel quadro di una campagna per assicurarsi il controllo delle fonti di energia che si trovano in Africa. Oggi le risorse africane sono troppo preziose per essere lasciate a qualcun altro, in particolare alla Cina. Se la povera Somalia sta morendo di fame, è solo una conseguenza secondaria e irrilevante di un più grande progetto geopolitico.” (3)

 

Chi se ne frega , insomma, della Somalia.

 

Questo, in sintesi, il ‘volto’ dell’umanitarismo ipocrita e peloso in salsa yankee….