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Cosa significa rimettersi alla volontà divina?

di Francesco Lamendola - 26/01/2012


 

 

Viene sempre, prima o poi, il momento in cui il credente, o anche la persona spiritualmente orientata, pur se non aderisce ad alcuna religione definita, sono indotti a domandarsi che cosa significhi, esattamente, rimettersi alla volontà divina; e ciò accade, di solito, quando più aspro è il calice che la vita ci porge da bere, quando più grandi sono le difficoltà e più incerto l’orizzonte della speranza.

Finché le cose ci vanno relativamente bene, infatti, raramente siamo indotti a soffermarci sul senso di quella affermazione, che pure è alla base del rapporto fra noi e ciò che sta sopra di noi; o, se si preferisce, fra la nostra dimensione individuale e la nostra dimensione cosmica, fra noi come singoli e l’immensa rete di relazioni e di significati che ci lega al Tutto.

Ma quando la solitudine, l’angoscia, il dolore, ci afferrano nei loro artigli d’acciaio, ci scuotono come miseri burattini e ci fanno piegare su noi stessi, lasciandoci annaspare senza più forze, allora quella affermazione ci suona stranamente nuova e quasi incomprensibile: dobbiamo dunque bere l’amaro calice sino in fondo, accettando il mistero del male?

Proprio così.

Il mistero del male è la prova finale alla quale siamo chiamati, se davvero abbiamo fiducia in una armonia superiore che governa ogni cosa e la orienta verso il bene; se davvero siamo persuasi, non soltanto a parole e non solo quando i problemi toccano gli altri, che, al di sopra della giornata più oscura e nuvolosa, splende pur sempre un sole glorioso.

Del resto, nessuno ci chiede di capire il mistero del male: è un mistero, non un problema, dunque non esiste una risposta o una soluzione puramente umana; ci si chiede soltanto di non scordarci che esso è compreso in un mistero assai più grande, il mistero dell’Essere, del quale siamo parte e che, per definizione, non può essere altro che la suprema manifestazione del Bene: perché mai esisterebbe qualcosa, se ciò non fosse a fin di bene? Come è possibile che qualcosa esista, che qualcosa sia stato chiamato all’esistenza, se non per uno scopo di bene, dal momento che chiamare qualcosa all’esistenza è un atto di amore?

Certo, vi sono dei momenti nei quali ci sembra un mistero veramente terribile; in cui una parte di noi vorrebbe ribellarsi, vorrebbe chiede ragione di una realtà così difficile da capire, da accettare, da vivere: sono i momenti della prova.

Chi non li ha provati, si può dire che sia ancora un bambino, anche se è un vecchio di ottant’anni; e solo chi li ha vissuti, affrontati, attraversati, solo costui (o costei) può dirsi un uomo (o una donna) nel vero senso del termine.

Qui connesso al mistero del male, c’è anche il mistero della libertà umana. L’uomo, infatti, è libero di scegliere; non assolutamente libero, ma relativamente libero: il che è già molto, ed è quanto basta per potersi dire padrone del proprio destino E nella sua libertà è racchiusa la possibilità di dire di sì o di dire di no alla volontà divina; e sappiamo quanto possa risultare difficile dire di sì, allorquando essa ci appare troppo esigente, troppo dura, pressoché incomprensibile.

Il fatto è che noi non posiamo pretendere di capire quali siano le strade lungo le quali ci conduce la volontà divina: possiamo solo aver fede nella sua bontà, anche nei passaggi più scabrosi, anche nelle situazioni in cui saremmo indotti a dubitare, a lasciarci sopraffare dallo sgomento e perfino dalla disperazione.

Così san Francesco di Sales (1527-1622) nel suo «Trattato dell’amor di Dio» o «Teotimo» (in: Francesco di Sales, «L’amore di Dio», traduzione italiana di Ruggero Balboni, San Paolo, Milano, 1989, VIII, 3, pp. 137-140):

 

«Qualche volta consideriamo la volontà di Dio in se stessa, e vedendola talmente santa e buona, ci riesce facile lodarla, benedirla e adorarla e sacrificare la nostra volontà e quella di tutte le altre creature alla sua obbedienza, con questa esclamazione: “La tua volontà sia fatta sulla terra come in Cielo”. Altre volte consideriamo la volontà di Dio nei suoi effetti particolari, quali gli eventi che ci riguardano o le situazioni in cui ci veniamo a trovare, e infine nella dichiarazione e nella manifestazione delle sue intenzioni. E benché, in realtà, la sua divina Maestà non abbia che un’unica e semplicissima volontà, noi le diamo vari nomi, seguendo la varietà dei mezzi tramite i quali la conosciamo; varietà secondo la quale siamo anche diversamente obbligati a conformarci ad essa. La dottrina cristiana ci propone con chiarezza le verità nelle quali Dio vuole che crediamo, i beni che egli vuole che speriamo, i castighi che vuole che temiamo, ciò che vuole che amiamo, i comandamenti che vuole che osserviamo  e i consigli che desidera che seguiamo: tutto ciò va sotto il nome di volontà significata di Dio perché con essa egli ci ha significato e manifestato che vuole ed esige che tutto ciò sia creduto, sperato, temuto, amato e praticato.

Ora, in quanto questa volontà di Dio si manifesta a noi per modo di desiderio e non di volontà assoluta, possiamo seguirla per obbedienza o resisterle per disobbedienza; infatti Dio compie tre atti della propria volontà a questo riguardo: vuole che possiamo resistere, desidera che non resistiamo, e tuttavia permette che resistiamo se lo vogliamo. Il fatto che possiamo resistere dipende dalla malizia; che non resistiamo coincide col desiderio della divina Bontà. Quando resistiamo, Dio non contribuisce in nulla alla nostra disobbedienza; ma anzi lascia la nostra volontà in mano al proprio libero arbitrio, permettendo che essa scelga il male; ma quando obbediamo, Dio ci sostiene col suo aiuto, la sua ispirazione e la sua grazia. Infatti, il permesso è un’0azione della volontà di per sé vuota, sterile, infeconda, per così dire, è un’azione passiva che non realizza nulla, ma lascia fare; al contrario il desiderio è un’operazione attiva, feconda, fertile, che scuote, si impone e fa pressione. Ecco perché Dio, desiderando che seguiamo la sua volontà significata,. Ci sollecita, esorta, incita, ispira, aiuta e soccorre; ma quando permette che resistiamo, non fa altro che lasciarci fare ciò che vogliamo, secondo la nostra libera scelta, contro il suo desiderio e la sua intenzione.

Tuttavia, tale desiderio è un vero desiderio; infatti, come si può genuinamente esprimere il deserto che un amico goda di un buon pranzo, che preparandogli un banchetto gustoso e squisito, come fece quel re della parabola evangelica, poi invitarlo, insistere, quasi costringerlo con preghiere, esortazioni, premure a venire, a sedersi a tavola, e a mangiare? Senza dubbio, chi a viva forza aprisse la bocca all’amico, gli spingesse il cibo in gola e glielo facesse inghiottire, non gli imbandirebbe un pranzo di cortesia, ma lo tratterebbe da animale, simile ad un cappone da ingrassare. Questa sorta di beneficio deve essere offerto con avvisi, richiami, sollecitazioni, non in modo violento e coatto; ecco perché si attua per modo di desiderio e non di volontà assoluta. È la stessa cosa per la volontà significata di Dio, perché, per suo tramite, Dio desidera con un vero desiderio che facciamo ciò che ha detto, e a tale scopo ci offre tutto ciò che è necessario, esortandoci ed incoraggiandoci a servircene: in questo tipo di favore non si può desiderare di più. E come i raggi del sole non cessano di essere veri raggi quando vengono respinti da qualche ostacolo, così la volontà significata di Dio non cessa di essere volontà di Dio anche se le si oppone resistenza, benché, in tal caso, non produca lo stesso effetto come quando è assecondata.

Dunque, la conformità del nostri cuore alla volontà significata di Dio consiste nel volere tutto ciò che la divina Bontà ci manifesta come sua volontà,  credendo secondo la sua dottrina, sperando secondo le sue promesse,  temendo secondo le sue monacce, amando e vivendo secondo i suoi comandi e i suoi consigli. A ciò tendono gli atti che compiamo nei santi riti della Chiesa: infatti, rimaniamo in piedi alla proclamazione del Vangelo, come per adorare la santa Parola che ci manifesta la volontà celeste. Per questo, molti santi e sante, anticamente, portavano al collo il Vangelo quale pegno d’amore, come si legge di santa Cecilia; quello di san Matteo è stato trovato dopo la morte, sul cuore di san Barnaba, scritto di suo pugno. Per questo, negli antichi Concili si poneva al centro dell’assemblea dei Vescovi un grande trono, e su quello il libro dei santi Evangeli, a rappresentare la persona del Salvatore, Re, Maestro, Direttore, Spirito ed unico Cuore dei Concili e di tutta la Chiesa; tanto si onorava la manifestazione della volontà di Dio espressa in quel libro divino, Il grande specchio dell’ordine dei pastori, san Carlo, arcivescovo di Milano, non studiava mai la Sacra Scrittura senza mettersi in ginocchio e a capo scoperto, per dimostrare il rispetto col quale bisogna ascoltare e leggere la volontà di Dio significata.»

 

Il non cattolico, il non credente non si soffermino sulle espressioni più specificamente confessionali adoperate qui da san Francesco di Sales, e badino alla sostanza del suo discorso: uniformarsi alla volontà da cui procede ogni cosa è un atto di fede, ma anche un atto di libertà: la vera libertà, che coincide con l’aderire pienamente a ciò che è bene, a ciò che appartiene alla nostra vocazione e alla nostra chiamata.

Tutti, infatti, anche se ciascuno in maniera diversa, siamo stati chiamati; tutti siamo qui per uno scopo e tutti, sia pure in contesti e circostanze diversissimi, abbiamo la facoltà di rispondere affermativamente oppure negativamente.

Riconoscere e realizzare il significato del nostro essere nel mondo è lo scopo della nostra esistenza; non ve ne sono altri: siamo qui per questo, e ci è stato dato il tempo necessario per individuare la giusta direzione in cui incamminarci. Non è importante giungere alla meta, è importante mettersi in cammino nella giusta direzione.

Benedire e ringraziare la vita, lodare e ringraziare l’Essere dal quale essa procede, come un fiume gigantesco, del quale ciascuno costituisce un ramo sorgentifero, piccolo fin che si vuole, mai però insignificante: questo è il giusto atteggiamento da assumere nei confronti di quanto incontreremo durante il nostro cammino, sia che esso ci appaia favorevole e portatore di piacere, sia che ci appaia arduo, faticoso, improbo.

Siamo chiamati alla vita per benedire e non per maledire; per aiutare il prossimo e non per ostacolarlo; per portare in luce la nostra parte migliore e non la peggiore, la più pigra, la più vile: vi sono dei ricchi tesori in noi, che attendono solo di essere rivelati a noi stessi.

La persona che sembrerebbe più superficiale, più immatura, più egoista, possiede anch’essa tali tesori: e, talvolta, basta l’occasione favorevole perché sia indotta a scoprirli in se stessa e a darvi fondo, generosamente, rivelando così la propria vera natura: perché la vera natura di ciascuno è quella che sa e può e vuole assecondare la chiamata, non quella che vi si rifiuta.

Fare la volontà divina, dunque, significa assecondare la corrente dell’Essere; significa dire sì alla vita e al bene che essa può dispensare; significa scoprire che la nostra libertà coincide con la volontà divina, e che anche il servitore più maldestro e inconsapevole può diventare un eccellente collaboratore dell’armonia generale.

Si tratta di saper andare oltre le apparenze, oltre le pretese della ragione calcolante e strumentale, che vorrebbe comprendere e giudicare da sé sola, come se essa fosse la misura dell’ordine cosmico; significa essere abbastanza umili da farsi piccoli e abbastanza coraggiosi da non disperare di quel che possiamo fare, per noi stessi e per gli altri: perché nessuno è così imbelle ed impotente da non poter contribuire, per la sua parte, al Bene complessivo.

Infine, non siamo soli.

Non ci viene chiesto di reggere il mondo sulle nostre spalle; non ci viene imposto di reggere situazioni insostenibili; ci viene chiesto di fare quel che possiamo, meglio che possiamo, con animo limpido e fiducioso; e, per tutto ciò che trascende le nostre povere forze individuali, di rimetterci a una Forza che è ben più grande di noi, la quale può tutto ciò che vuole.

Questa Forza si serve di noi, perfino delle nostre debolezze, per realizzare un disegno mirabile, che, nella sua interezza, nessuno di noi può vedere, così come un uomo non riuscirebbe a vedere un disegno gigantesco, tracciato dalla mano di un gigante sulla sabbia del deserto; né riuscirebbe a vedere, nel corso della sua breve esistenza, un’opera immensa, che si manifesta interamente nel corso di mole generazioni, di molti secoli e millenni.

Si tratta di avere fede, di essere operai volonterosi.

Un vecchio di novant’anni che pianta nel suo giardino un nuovo albero, pur sapendo che non lo vedrà crescere, né potrà mai sedere alla sua ombra: tale è l’operaio pieno di fede e di buona volontà, che ha compreso il grande segreto: non si lavora mai solo per l’oggi, ma per l’Eternità.