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Baia Sholl nel Canale Maddalena e l’aspra, vivificante nostalgia dell’infinto

di Francesco Lamendola - 02/02/2012


 


 

La vita del bambino e dell’adolescente sono cosparse di segni, di indizi, di epifanie, capaci di orientare tutti i suoi sviluppi futuri in una particolare direzione, oscura e incomprensibile agli altri, ma per lui chiarissima, una volta che abbia deciso di porgere ascolto alla voce interiore e di prestare attenzione a quei tali segni, invece di scordarli in fretta, con un’alzata di spalle.

Epifanie, rivelazioni: può trattarsi di segni in sé modestissimi, quasi impercettibili: eppure la loro risonanza può essere enorme, decisiva: non afferma da sempre, la saggezza Zen, che l’infinita varietà e complessità dell’universo si trovano racchiuse in una singola goccia d’acqua, perfino in un singolo granello di sabbia?

Può essere una parola, una immagine, un profumo (oh, il mondo olfattivo: quanti misteri racchiude, che s’incrociano continuamente con i nostri passi!); può essere il riflesso della luce al tramonto sui vetri di una finestra; può essere un uccello che si leva in volo dai rami più alti di un abete e si slancia leggero nel cielo azzurro, quasi a voler raggiungere le nuvole.

Il bambino è quanto mai ricettivo: sa vedere e sa cogliere messaggi dei quali l‘adulto non si accorgerebbe nemmeno se andasse a sbattervi contro, con tutta la sua scienza e la sua presunzione; vive un una dimensione parallela a quella dell’adulto, vede perfino le stesse cose, ma non le vede allo stesso modo, non le chiama allo stesso modo, non le interpreta allo stesso modo.

Quel che vedono gli occhi di un bambino resterà per sempre nascosto allo sguardo dell’adulto; quel che sa il cuore di un bambino è tutt’altra cosa da quel che sa, o crede di sapere, l’intelligenza dell’adulto, abituata a soppesare, a confrontare, a catalogare e a quantificare ogni cosa, a trovare per ogni cosa un come e un perché, una causa e un effetto.

Il bambino intende il linguaggio delle fiabe, le ascolta e le comprende in una maniera che è preclusa all’adulto: per lui sono altrettante porte spalancate su un’altra dimensione; per quello, sono solo un passatempo e un gioco della fantasia, finito il quale bisogna affrettarsi a tornare nella terra nota, nella terra dove la ragione pretende di spiegare tutto e di aver sempre l’ultima parola.

C’è una novella del «Decameron» che esordisce con i toni stupefatti e la cadenza misteriosa e un po’ solenne d’una autentica fiaba per bambini: «In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d’un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria…».

In quel paese favoloso, dagli inverni severi e tuttavia rallegrato da monti, fiumi e laghi dalle acque nitide e trasparenti, un bambino cresceva ascoltando le voci, prestando attenzione agli indizi: ovunque vedeva i segni di un linguaggio cifrato, che promettevano di rivelargli le incomparabili bellezze dell’altra dimensione; e lui vi prestava fede, né mai ebbe il dubbio di potersi ingannare o il timore di poter rimanere deluso.

Quando penetrava nel minuscolo giardino dei nonni, popolato di vite selvatica e con i muri tappezzati d’edera, era un mondo arcano e gentile che gli si rivelava; quando, giocando con gli amici, si arrampicava su per i rami di un alto pioppo e giungeva quasi fino alla cima, le colline che gli si aprivano allo sguardo erano le avanguardie di un regno incantato; una collinetta boscosa era un’amba abissina pullulante di guerrieri pronti a balzar fuori in armi; una vallata alpina, specchiantesi in un lago azzurro, era lo scenario ideale per la comparsa improvvisa di un’astronave, che avrebbe potuto posarsi piano, fra il canto dei grilli, nella chiara notte estiva.

Quando quel bambino, ormai cresciuto, ebbe il permesso di passare dalla sala della biblioteca comunale riservata ai piccoli, all’ampio scalone e alla sala imponente della sezione per gli adulti, e si trovò fra le mani un libro di viaggi alla Terra del Fuoco, gli indizi si moltiplicarono e parlavano tutti il medesimo linguaggio, alludevano tutti a un altrove remoto, e tuttavia possibile, anzi reale, carico delle più raffinate seduzioni del primitivo e dell’esotico.

Era un bellissimo libro, con una splendida copertina rigida, ben rilegato e di grande formato, come già allora non se ne facevano quasi più; arricchito da un gran numero di illustrazioni in bianco e nero ed a colori, queste ultime, specialmente, più che mai suggestive: erano state scattate dall’autore, un missionario piemontese che, per trent’anni, aveva soggiornato in quelle estreme regioni dell’ecumene, in cerca degli ultimi indigeni da convertire e da proteggere contro la spietata rapacità degli uomini bianchi.

Il testo, scritto in una prosa elegante, evocativa, carica di suggestioni poetiche, prendeva ancor più vita dalla meravigliosa documentazione fotografica: la pampa verdissima battuta dal vento; il guanaco con le orecchie ritte e le narici frementi, che presente l’agguato dei cacciatori Ona, armati di archi e frecce infallibili; le foreste intricate, impenetrabili, avvolte di liane, tappezzate di muschi, disseminate di tronchi marciti, di radici contorte, di festoni di epifite, di felci elegantissime e rigogliose, di fiori multicolori; i ghiacciai alpini che scendono fino al mare e vi affondano le fronti grandiose, dalle quali la luce dell’alba trae meravigliosi tonalità opalescenti, azzurrine e di alabastro, come in un autentico regno delle fate; ed i fiordi che penetrano nelle rive boscose, si spingono in profondità tra le montagne bianche di neve, in una atmosfera sospesa e trasognata da creazione del mondo…

Quante volte quel ragazzino aveva preso in prestito il libro stupendo per portarselo a casa e leggerlo avidamente, per bearsi alla vista di quelle immagini, per sognare davanti alla loro bellezza impareggiabile, sontuosa, tale da mozzare il fiato!...

E quante volte aveva provato quella sensazione di immensa libertà, ma anche di malinconia, davanti a quegli alberi contorti e piegati dal vento, a quelle foreste senza luce, a quegli orizzonti perduti, a quelle spiagge desolate, a quel senso d’immensa, invincibile solitudine, a quella coltre di silenzio che pareva emanare dalle cose e risuonare stranamente, come una cosa viva…

Vento, silenzio, solitudine, smisurati spazi, paesaggi fuori dal tempo, distanze incolmabili, non tanto geograficamente, quanto psicologicamente: distanze che non si possono misurare in metri o in chilometri, ma in un’altra maniera, forse, a noi sconosciuta; o che, per dir meglio, non si possono misurare affatto, perché non sono di questo mondo, ma appartengono all’altrove.

E quante volte quel ragazzino, diventato uomo, si è chiesto da cosa dipendesse quella indescrivibile sensazione di pienezza, di rapimento, di felicità; quella esaltante sensazione di essere, nello stesso tempo, qui e altrove, nel mondo nascosto, al di là della comune percezione; di essere in possesso, con estrema naturalezza, della chiave magica per spingere oltre lo sguardo, per respirare un’altra aria e altri profumi, altre atmosfere…

Più tardi, giovane uomo, si è recato, finalmente, al di là dell’oceano, nell’America del Sud; ma laggiù, nella Terra del Fuoco, non è mai voluto andare.

Così come non ha mai voluto ritornare, da molti anni, alla sua cara terra dell’infanzia, fredda, ma lieta di belle montagne, di numerosi fiumi e di chiare fontane; e a quella straordinaria città raccolta ai piedi del colle e del castello, mezza tedesca e mezza veneziana, nei cui borghi acciottolati, incorniciati da antiche case coi portoni seicenteschi, con il verde dei cortili interni che si affaccia da dietro i muretti di recinzione, sembra che il tempo si sia fermato per incanto.

Così, almeno, lui la ricorda; e forse la realtà è diversa.

Forse tutto è cambiato, quell’incanto è svanito; o forse esso è sempre esistito solo nella sua anima, capace di leggere quei segni, di contemplare quelle epifanie.

Per qualche anno ha continuato a visitarla quasi di nascosto, da solo, senza cercare più nessuno, gli amici, i compagni di un tempo: partiva nel cuore della notte, col buio, e giungeva alle prime luci dell’alba, nel rosa e nel viola dell’inverno, quando ancora la città dormiva; poi camminava lungo le antiche strade, entrava nelle chiese quiete, sostava davanti ai portoni socchiusi, carichi di storia e di memorie: cercava gli indizi d’un tempo, e non li trovava.

Poi smise bruscamente quelle segrete visite d’amore, che gli straziavano il cuore con l’intensità bruciante dei ricordi: ogni finestra, ogni angolo, ogni pietra, avevano un legame col passato; ma quel legame sembrava svanire ogni volta che faceva un altro passo avanti, ogni volta che allungava la mano per toccare le dolci cose d’un tempo.

Anche nella vita adulta vi possono essere segni ed epifanie, anzi, ve ne sono continuamente, purché li si sappia scorgere; ma quelli dell’infanzia non possono tornare, perché, con buona pace del Fanciullino di pascoliana memoria, ogni età ha un suo modo di leggere quei segni e di riconoscere quelle epifanie: e, nella vita, bisogna procedere, procedere ricordando - per dirla con Kierkegaard -, ma non retrocedere mai, perché tutta la vita non è che una ripresa.

Per questa ragione non è consigliabile tornare sui luoghi dove si sono avute le prime rivelazioni: si resterebbe delusi e non servirebbe a niente, non gioverebbe in alcun modo al movimento complessivo della propria vita.

E, per la stessa ragione, non è consigliabile voler visitare quei luoghi esotici che abbiamo a lungo sognato, con struggente intensità: perché tali luoghi non sono mai stati veramente fuori di noi, ma erano e sono luoghi dello spirito, di una nostra geografia tutta interiore: quale immensa ingenuità sarebbe quella di pretendere di poterli concretizzare, fermare, “possedere”: sarebbe come voler stringere in mano un fiocco di neve, oppure come voler staccare una ragnatela e metterla, intatta, dentro una cornice.

La vera saggezza è sapersi fermare qualche metro prima della vetta: perché, una volta arrivati sulla cima della montagna incantata, l’incanto svanisce, inevitabilmente, e il paesaggio che potremo ammirare dall’alto, per quanto bello, non potrà mai reggere il confronto con quell’altro paesaggio, quello della nostra immaginazione, il quale, proprio perché indefinito, contiene tutte le meravigliose possibilità del reale, e anche qualcuna in più.

Anche nel bambino vi sono tutte le meravigliose possibilità del reale, e forse qualcuna di più; è per questo che l’adulto ricorda la propria infanzia con tanta nostalgia: perché gli sembra che, allora, avrebbe potuto intraprendere ogni strada, mentre adesso, mano a mano che procede nella vita, l’adulto sa che le possibilità si riducono continuamente, giorno dopo giorno, finché non ne resterà più che una soltanto: quella di morire.

Il bambino si sente immortale, o, per dir meglio, si sente altra cosa dal tempo: non comprende che cosa sia la vecchiaia, non comprende cosa significhi invecchiare; vede il nonno, vede la nonna e sa che sono vecchi, ma non capisce perché: non lo sfiora il pensiero che anche lui sarà vecchio, un giorno, proprio come loro, e anche lui si vedrà accanto dei nipotini che lo guarderanno senza capire, sentendosi immuni dalla legge del tempo.

Eppure, per quanto belle siano le epifanie dell’infanzia, quando tutto sembra possibile, anche entrare nel regno delle fate e dei folletti, così, da un momento all’altro, con un colpo di bacchetta magica, la vera epifania è quella dell’età adulta: perché è una epifania che si accompagna alla consapevolezza, la rischiara e la sostiene; mentre quelle dell’infanzia, per quanto affascinanti, cadono sul terreno acerbo della inconsapevolezza, e raramente danno frutto.

È raro, infatti, che il bambino, crescendo, rimanga fedele a se stesso, alla propria parte migliore e più vitale; è più facile che l’adulto bamboleggi con se stesso, rendendosi patetico, perché, così facendo, si getta dietro le spalle la cosa più preziosa che insegna l’età adulta: la consapevolezza del tempo, la responsabilità verso la propria vita.

Noi siamo responsabili verso la nostra vita, siamo responsabili dei frutti che dà la nostra pianta: niente e nessuno possono sollevarci da una tale responsabilità; e i nostri frutti, buoni o cattivi, saranno testimoni dell’uso che avremo saputo fare di noi stessi.

Le epifanie non sono inutili, tutt’altro: servono a darci forza, a farci intravedere qualche squarcio di cielo limpido, oltre la cortina grigia delle nubi.

Ma, per realizzare la nostra vita e per fare di essa una continua ripresa, dobbiamo imparare a fermarci un poco prima della vetta: in altre parole, ad essere virili, e non degli eterni voluttuosi…