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L’immaginazione divinizzante

di Giovanni M. Tateo - 03/02/2012

Fonte: centrostudiparadesha


 

 

Non potremo mai ringraziare abbastanza Henry Corbin, eminente studioso delle tradizioni esoteriche zoroastriane ed islamiche, per aver fortemente insistito sull’importanza dell’immaginazione quale fondamento essenziale, non solo della cultura, ma della stessa esistenza e civiltà umane. Soprattutto in termini spirituali. È assolutamente indubbio, infatti, quantomeno in termini psicologici, che l’essere umano possa costruire la propria identità soltanto sulla base di un’autorappresentazione mentale, ossia su una forma psichica autonomamente immaginata, che corrisponde – o corrisponderebbe – o alla sua realtà oggettiva, oppure all’idea che egli ha o vorrebbe avere di se stesso. In altre parole, ciascuno di noi possiede una propria identità o personalità, cioè un «io» formalmente definito, esclusivamente sulla base del suo possedere una certa immagine mentale di se stesso – indipendentemente dal fatto che essa effettivamente combaci con la sua autentica realtà. È dunque evidente, a questo punto, che tutto ciò che concretamente siamo dipende strettamente da questa nostra immagine mentale, giacché è sulla base di essa, in quanto modello di riferimento, che entriamo in relazione con noi stessi, fissiamo i nostri obbiettivi, e viviamo conseguentemente la nostra esistenza. È altresì molto chiaro, quindi, che l’immaginazione, sia individuale che collettiva, è il vero e fondamentale territorio di conquista, l’obbiettivo strategico primario, sia quando si tratta di costruire una data civiltà e sia quando si tratta di distruggerla; sia quando si vuole stabilire un certo ordinamento – sia esso culturale, politico, economico o sociale – e sia quando si intende sovvertirlo più o meno completamente. Ogni profondo esercizio del potere si realizza incontestabilmente nel dominio dell’immaginazione .

Ad ogni modo, Corbin si è sempre concentrato esclusivamente sulla cosiddetta «immaginazione veridica» (imaginatio vera), o «immaginazione metafisica», che è quell’attività immaginativa che non crea affatto realtà puramente fantastiche, ossia del tutto irreali, ma che, all’opposto, funziona come una vera e propria forma di conoscenza, in quanto fornisce al soggetto le forme mentali (immagini metafisiche) oggettivamente corrispondenti alle verità metafisiche, ossia alle realtà trascendenti ed eterne. La dimensione nella quale sussistono tali immagini metafisiche è stata da lui battezzata «Mundus imaginalis», «Mondo immaginale» – giacché, come poc’anzi accennavamo, l’«immaginale» è affatto diverso dal’«immaginario»: il primo genera consapevolezza, mentre il secondo solo illusione -, e costituisce un universo psichico del tutto autonomo, quello stesso cosmo soprasensibile mediano, che gli antichi sapienti d’Occidente chiamavano «Anima del Tutto», o «Anima del Cosmo» (Anima Mundi).

Si deve quindi constatare, conseguentemente, che esistono forme psichiche, o rappresentazioni mentali, dell’essere umano, che risultano conformi agli archetipi eterni, ed altre che invece non lo sono affatto; il che è come dire, precisamente, che l’uomo può immaginare se stesso come una realtà immortale oppure come una mortale; che egli può pensarsi quale essere divino oppure no. Tra le due opzioni si trova un abisso incolmabile, e la scelta tra di esse non può che essere fatale, e decretare così il destino non solo dei singoli individui, ma di interi popoli; e stabilire la sorte di intere civiltà. In più occasioni, in effetti, Corbin denuncia la grande tragedia spirituale dell’uomo moderno: l’aver distrutto, o aver lasciato distruggere, nella propria mente, quest’universo divino intermedio, che ha sempre costituito il ponte tra la realtà della Divinità e quella dell’Umanità. Distrutto questo ponte, non possiamo che restare prigionieri nella dimensione terrena della nostra esistenza, giacché le porte del Paradiso, finché permane tale situazione, rimarranno per noi totalmente ignote ed inaccessibili.

A tal proposito, intendiamo ora analizzare alcuni brani tratti dal Corpus Hermeticum, un complesso di testi sapienziali – purtroppo andati perlopiù perduti – ricollegabili alla millenaria tradizione esoterica egizia – consacrata ad Ermete Trismegisto (Thoth), il dio Hermes dei Greci, il Mercurio dei Romani -, la quale, fin dai tempi di Orfeo, ha esercitato una profondissima influenza sulla cultura misterica e filosofica greca.

Iniziamo da qui:

Tutti gli esseri sono in Dio, ma non come se fossero situati in un luogo […]: sono situati in un altro modo nella facoltà rappresentativa incorporea. Concepisci, dunque, colui che abbraccia tutti gli esseri, e comprendi che non c’è nulla che possa circoscrivere l’incorporeo, né che sia più rapido, o più potente. Esso, al contrario, fra tutti gli esseri, è quello meno circoscritto, più rapido e più potente.1

L’estrema importanza del brano consiste nel suo esprimere Dio come un’entità caratterizzata precisamente dalla facoltà immaginativa, nella quale consiste, in effetti, il suo divino potere creatore: gli esseri esistono solo in quanto “immaginati” dal loro Creatore, e solo nella sua “immaginazione” – cioè nel suo spazio ontologico – essi posseggono la loro realtà. Anticipando parzialmente quanto citeremo tra breve, ogni realtà è un’idea nella mente divina, ma siccome questa è eterna, ed eterna la sua immaginazione creatrice, eterne sono pure le idee in essa contenute, e quindi divine anch’esse; pertanto, essendo pure divina l’idea dell’uomo, divina è anche la sua essenza.

Il testo prosegue vigorosamente:

E considera così, da te stesso, e ordina alla tua anima di viaggiare fino in India, ed essa sarà là, più veloce del tuo ordine. Prescrivile, poi, di trasferirsi nell’Oceano, ed essa, di nuovo, sarà subito là, allo stesso modo, non come se si fosse spostata da un luogo a un altro, ma come fosse già sul posto. Ingiungile poi di volare anche su fino in cielo, ed essa non avrà bisogno di ali, bensì nulla costituirà per essa un ostacolo, non il fuoco del sole, non l’etere, non la rotazione del cielo, e nemmeno i corpi degli altri astri: passando attraverso tutte queste cose, volerà in alto fino all’ultimo corpo. E se volessi anche rompere la volta dell’ultimo cielo per contemplare quello che c’è al di là […], è in tuo potere farlo. Guarda che grande potere, che immensa velocità possiedi. E allora, se tu puoi fare queste cose, non potrà farle Dio? Concepisci, dunque, Dio in questo modo: esso contiene in sé tutti gli esseri sotto forma di idee: il mondo, se stesso, il Tutto. Se, dunque, non ti rendi uguale a Dio, non puoi concepire Dio; il simile, infatti, è intelligibile solo da parte del simile. Accresci te stesso in modo corrispondente alla grandezza senza misura, balzando ben lontano da ogni corpo; innalzandoti al di sopra di ogni tempo, divieni Eternità, e comprenderai Dio. Una volta stabilito che nulla ti è impossibile, consìderati immortale e capace di comprendere ogni cosa, ogni arte, ogni scienza, il carattere di ogni vivente. Divieni più elevato di ogni altezza, e più profondo di ogni abisso; raccogli in te stesso tutte le sensazioni delle creature, del fuoco, dell’acqua, del secco e dell’umido, immaginando di essere dovunque: sulla terra, nel mare, in cielo; fà conto di non essere ancora nato, di essere nel grembo materno, giovane, anziano, o di essere già morto, e immagina le cose che vengono dopo la morte. E, concependo tutte queste cose al contempo, tempi, luoghi, cose, qualità, quantità, tu puoi comprendere Dio.2

Questo lungo brano, oltre ad essere indubbiamente avvincente, è luminosamente rivelatore circa il primo passo assolutamente indispensabile per colui che aspiri a conoscere profondamente la Divinità, o addirittura a fondersi totalmente con Essa: egli deve innanzitutto pensare di essere una realtà divina. Il concetto fondamentale che consente tale pensiero è tanto semplice quanto profondissimo: se Dio è essenzialmente immaginazione infinita, la stessa infinità deve caratterizzare anche l’immaginazione dell’aspirante; in questo lui deve necessariamente conformarsi al Supremo. Solo nel momento in cui l’aspirante riconoscerà in se stesso lo stesso sconfinato potere immaginativo e creatore della Divinità, potrà realmente rendersi – o riconoscersi – effettivamente simile ad Essa, e con Essa identificarsi. Solo così egli potrà realmente pensare e sperare di potersi unire a Lei. Nel prosieguo, infatti, il testo avverte:

Se invece rinchiuderai l’anima nel corpo e la umilierai, e dirai: «Io non concepisco niente, non posso niente, ho paura del mare, non posso salire fino al cielo, non so chi ero, non so chi sarò», che hai a che fare tu con Dio? Tu non potrai, infatti, concepire nessuna delle cose belle e buone, fin tanto che ami il tuo corpo e che sei cattivo. Infatti, il vizio più completo è ignorare la Divinità. Invece, essere in grado di conoscere, volerlo e sperarlo, è la strada che porta direttamente al Bene, ed è una strada facile. 3

In effetti, è del tutto vero che l’immaginazione umana, proprio come quella divina, potenzialmente, non ammette alcun limite, e, pertanto, è parimenti giusto affermare che l’assimilazione mentale con la Divinità, effettuata su questa base, è realmente facilissima da realizzare. Inoltre, da cosa ci mette in guardia questo insegnamento, se non dall’accecamento che proviene dall’immaginare noi stessi come esseri limitati, ignoranti, deboli ed impotenti, destinati unicamente alla morte ed al nulla? E quest’idea estremamente negativa ed ingannevole circa la nostra essenza, non è forse quella stessa rappresentazione mentale dell’essere umano, che quotidianamente la cultura dominante tenta di inculcarci? L’ideologia del sistema sociale moderno non cerca forse costantemente di ridurci a meri produttori, consumatori, elettori, e contribuenti? I poteri che ci governano e che plasmano l’educazione e l’informazione destinata alle masse, non ci costringono forse a pensare noi stessi, e a diventare poi effettivamente, quali microscopiche ed insignificanti cellule del grande corpo sociale globale? Minuscoli ed anonimi ingranaggi incastrati ed imprigionati nell’immensa macchina economica mondiale?

È davvero questo che siamo? È davvero questo che possiamo, dobbiamo o vogliamo essere? Non sarebbe assai meglio, invece, seguire l’insegnamento di Ermete Trismegisto, e pensare noi stessi come dèi, e sperare e cercare di diventarlo effettivamente?

 


 

Note:

1Pimandro, XI, 18, in: Corpus Hermeticum. Edizione e commento di A.D. Nock e A.-J. Fetugière. Edizione dei testi ermetici copti e commento di Ilaria Ramelli, a cura di Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano, 2005, pag. 313;

2Pimandro, XI, 19-20, in: Corpus Hermeticum. Edizione e commento di A.D. Nock e A.-J. Fetugière. Edizione dei testi ermetici copti e commento di Ilaria Ramelli, a cura di Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano, 2005, pagg. 313-315;

3Pimandro, XI, 21, in: Corpus Hermeticum. Edizione e commento di A.D. Nock e A.-J. Fetugière. Edizione dei testi ermetici copti e commento di Ilaria Ramelli, a cura di Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano, 2005, pag. 315.