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L’irreversibilità del progresso è l’ideologia totalitaria della modernità

di Francesco Lamendola - 03/02/2012


 

 

Il progresso è irreversibile?

Non si tratta di una domanda da poco, né di una domanda dall’esito scontato: da essa, infatti, discendono enormi conseguenze per il nostro futuro.

Se il progresso è irreversibile, allora tutto quello che vi si oppone, che vi resiste o che, semplicemente, osa avanzare qualche perplessità e qualche dubbio, non è solamente inutile, ma anche assurdo e, forse, criminale: la storia si incaricherà di gettarlo nel proprio immondezzaio, e, nel frattempo, bollerà come ottusi reazionari i suoi sciocchi oppositori, esattamente come è successo con i luddisti.

Ma se non lo fosse?

La prima cosa che dobbiamo fare è domandarci se il progresso di cui stiamo parlando, sia il progresso tout-court; la seconda, se così non è, vedere quando, dove e come esso sia nato, o meglio, sia nata la sua idea.

Progresso deriva da progredire, e progredire significa, né più né meno, andare avanti; il punto è: andare avanti, metaforicamente, è sempre un progresso? È un progresso anche correre verso il precipizio, anche affrettarsi verso la catastrofe annunciata?

Se si pensa che né gli antichi, né i medievali, possedevano l’idea del progresso continuo e illimitato come molla della civiltà, ci si mette già sulla strada giusta, ossia il riconoscimento del carattere tutto moderno della nostra idea di progresso. Il progresso, infatti, ha sempre contrassegnato la vicenda degli esseri umani, ma solo a partire dall’epoca dei Lumi esso è divenuto la loro religione, la loro fede, la loro unica maniera di guardare al futuro.

Nel Settecento, dunque, la cultura europea, preparata dalla Rivoluzione scientifica del secolo precedente, crea quell’idea di progresso, che costituisce ancora il nucleo della nostra più profonda religione: il progresso come trionfo della ragione, come affermazione della modernità, come aumento incessante dei ritrovati tecno-scientifici, della produzione di beni e servizi, del benessere, della speranza di vita; in breve: della potenza e della felicità.

L’uomo moderno non crede a una felicità disinteressata e contemplativa, ad una felicità tranquilla ed estatica; per lui la felicità è potenza, dominio sulle cose e sulla natura, manipolazione e controllo degli enti e delle situazioni, affermazione di sé, del proprio ego, dei propri impulsi e della propria brama di potere, magari travestita con nobili e altruistiche ragioni.

La religione del progresso, in tal modo, diventa un assioma tautologico: il progresso è la condizione necessaria alla felicità dell’uomo e, nello stesso tempo, il suo impulso fondamentale; di conseguenza, tutto ciò che lo ritarda e lo impedisce è male, tutto ciò che lo accoglie e lo facilita è bene: tertium non datur.

Impostata così la questione, non resta molto da aggiungere, se non auspicare che la ruota del progresso giri sempre più in fretta e che i suoi nemici, consapevoli o inconsapevoli che siano, vengano sbaragliati quanto prima, totalmente e definitivamente. Alla filosofia moderna, pertanto, non resterebbe altro da fare che suonare il piffero per celebrare la marcia trionfale della ragione, cioè del progresso; e, di quando in quando, scagliare qualche dardo, qualche scomunica, qualche invettiva contro i reazionari che non sono convinti della assoluta bontà del progresso, siano essi una tribù amazzonica che ha il cattivo gusto di abitare sul tracciato di una futura autostrada, o gi abitanti di una valle alpina che non gradiscono il passaggio di una linea ferroviaria ad alta velocità.

Osservava Giuseppe Sermonti nel suo libro «Il crepuscolo dello scientismo» (Rusconi, Milano, 1971, pp. 212-18):

 

«La convinzione che il progresso sia una direzione inevitabile di sviluppo, una via obbligata della civiltà, porta con sé alcune importanti implicazioni sociali e politiche. Innanzitutto da essa derivava una gerarchia di valori in base al grado di “progresso” raggiunto da individuo, gruppi sociali, classi, nazioni: India Bulgaria, Iugoslavia, Italia, Svizzera, Canada, Stati Uniti. Ogni diseguaglianza si qualifica come una discriminazione, come un ritardo di sviluppo, tanto più pronunciato quanto più un individuo o un gruppo si trova separato dall’ultima frontiera del progresso. Anche la diseguaglianza tra i sessi è vista come la degradazione del secondo sesso. L’eliminazione di queste discriminazioni, che il progresso ha assunto come suo compito,stabilisce come punto d’arrivo una condizione unica e assoluta uno standard universale. Le varie culture, tradizioni e situazioni locali si configurano come varie forme di arretratezza, di fronte a un punto di riferimento, che è dato di volta in volta dallo stadio più avanzato raggiunto dal progresso. In definitiva il progressismo è il preludio a una immagine uniforme e quindi assolutista del mondo, che rifiuta la variabilità come manifestazione di dissociazione dall’ideale progressista. Esso finisce con l’imporsi prepotentemente, dispoticamente, attraverso una forma di liberazione forzata e accelerata,che sottrae ai singoli e a gruppi la loro individualità e peculiarità, motivando questa generale sopraffazione come un crociata universale contro i vari volti della superstizione.

Se nel corso della realizzazione del progresso si lascia un certo spaio alle varietà culturali, al folklore, persino a qualche innocente tradizione, ciò è semplicemente ispirato a considerazioni di opportunità tattica, per cui il superamento di certe situazioni locali di ristagno può meglio realizzarsi per gradi che con un urto, ma l’ispirazione di fondo del progressismo rimane quella di una realtà fondata su poche leggi essenziali, ordinata su una forma universale di organizzazione, che prescinda al massimo dai punti di partenza. Accettare un condizionamento locale del progresso come un dato definitivo significherebbe riconoscere le pretese della storia, delle tradizioni, e quindi lasciare un pericoloso spazio all’irrazionale.

Sull’itinerario obbligato del progresso non sono ammessi ritorni e ripensamenti, che porrebbero in forse la stessa legge che lo garantisce. Anche chi non ama i risultati del progresso, non vi si oppone perché esso si presenta  come qualcosa di irreversibile, di ineluttabile, di predestinato, di fronte a cui ogni resistenza è vana. “Indietro nn si può ritornare”. L’India diventerà come la Bulgaria, l’Italia come la Svizzera, il Canada come gli Stati Uniti. Il limite ultimo del progresso appare come qualcosa di fatale, come un continente sospeso, uno sconfinato asettico limbo dove l’uomo avrà finalmente raggiunto la liberazione dall’insicurezza, dalla paura, dalla scomodità, dalla diseguaglianza, dal pensiero della morte, dall’ingrato dovere di cercare se stesso. Da quelli cioè che erano stati i compiti della povera vita umana. La felicità sarà offerta a tutti come un dolce nettare alienante (una droga), alla vita sarà sostituito uno spettacolo che non richieda partecipazione, ma possa dare ad ognuno l’illusione di essere protagonista, e l’uomo godrà il suo trionfo senza doverlo ogni giorno riconquistare.

Ma questa irreversibilità fa parte veramente della logica del progresso o è solo un suo predicato aggiuntivo, adottato per sostenerne ‘affermazione? Nel concetto di progresso si insinua il carattere della irreversibilità quando intervengono due situazioni, e cioè quando il progresso si associa all’idea di potenza e quando la meccanica del progresso viene assimilata alla competizione economica (ovvero alla lotta per la vita, che è la controparte naturalistica del’economia competitiva). Allora il vincitore strapotente cederà le armi solo a un vincitore ancora più potente, e la prepotenza assumerà il timone della terra, e ogni cosa dovrà conformarsi ad essa, livellarsi o soccombere.

Ma il divenire umano non è più progresso se non può essere altro che progresso, il progresso perde senso dove cessa la possibilità del ritorno. L’idea del progresso devia da ogni logica e buonsenso e divine una mania, una condanna. Solo dove si è liberi da questi elementi assolutisti e si ritorna nel regno del relativo, cioè di nuovo entro la misura umana, il progresso ritrova il suo significato e insieme cessa di essere garantito e irreversibile.

Liberato dal suo assolutismo e ricollocato nella storia, il progresso perde il suo carattere ossessivo e si propone come una serie di esperimenti, di tentativi, di avventure della ragione umana. Esso non conosce maturità, è sempre come un gioco infantile,  e gli si possono allora perdonare, come si perdonano ai ragazzi, un po’ d’ingenuità e un po’ di prepotenza.

Nell’aspirazione al progresso c’è l’irrequietezza dell’uomo, c’è la sfida della ragione alla storia, c’è la ricerca della semplicità e l’utopia dell’eterna giovinezza. Tutto questo è parte dell’anima umana. Ma il progresso elevato alla teoria assolutista del progressismo, e portato all’estremo limite di un’arida ragioneria, di una passione per la dissoluzione, di una deferenza bigotta verso i fantocci della meccanica, non appartiene più all’anima umana, ma è la mefistofelica potenza che l’uomo ha barattato in cambio della sua anima.

Molti oggi sono convinti che tale potenza non abbia limiti, e ciò in base alla considerazione che la scienza ci ha concesso più volte di raggiungere ciò che era considerato impossibile: l’isolamento del gene, il trapianto del cuore, o lo sbarco sulla luna. Il fatto anzi che qualcosa sembri impossibile viene talora portato a sostegno della sua prossima realizzazione. Questa visione così ottimistica rappresenta una sorta di abdicazione della ragione, cioè della capacità di prevedere, che finisce con lo snaturare il progresso. Ma vi è n’altra considerazione da aggiungere su questa realizzabilità dell’impossibile, e cioè che nello stesso tempo molte cose perfettamente possibili non si realizzano, molti popoli continuano a soffrire la fame, i denti dell’uomo civile sono sempre cariati, le guerre del Medio e dell’Estremo Oriente non finiscono mai, l’acqua potabile non cessa di diminuire, l’esplosione della popolazione umana non si arresta, ecc. Ora, questo sviluppo del progresso verso l‘impossibile non è solo il marchio della sua straordinarietà, ma è il preciso risultato di un impegno prioritario. Le sfere dell’impossibile sono aree esterne ed estranee all’aspirazione dell’uomo e alla zona entro cui si esercita la sua volontà morale. Sono zone franche, fuori campo, fuori portata.  Volgersi ad esse, attirando là l’attenzione stupita e sgomenta dell’uomo significa scegliere di non affrontare l’eredità del mondo con i suoi problemi e i suoi dolori. Perché, sia chiaro, la scienza non realizza l’impossibile  ma solo ciò che è esattamente possibile, e “impossibile” vuol dire solo inaudito, inatteso, stupefacente, inconcepibile per l’uomo della strada, cioè fuori dall’interesse e dalla volontà del profano,  fori dal suo mondo morale. Questo progresso verso l’impossibile è quindi un’evasione dall’uomo, è una precisa scelta politica che si può riassumere nella concentrazione inaudita della potenza, nell’abbandono del mondo,  nell’abrogazione dell’uomo.»

 

Sono parole forti, ma vere, che andrebbero meditate a fondo; e tanto più allarmanti, se si pensa che furono scritte ben quarant’anni fa, quando ancora la situazione mondiale non era così compromessa sul piano ecologico e quando ancora non esistevano pratiche come la manipolazione genetica, la clonazione, l’inseminazione artificiale, per non parlare della svolta che l’informatica di massa e la telefonia cellulare hanno dato al ritmo delle nostre vite.

Dietro la sua apparente tolleranza, il suo apparente pluralismo, la sua apparente democraticità, la cultura del progresso, anzi, la religione del progresso è, nella sua essenza, profondamente, inesorabilmente totalitaria. E lo è alla lettera: non può darsi pace fino a quando il mondo intero non si sarà convertito ad essa; non potrà mai convivere con delle isole di infedeli, che non si sottomettono ai suoi dogmi e alle sue pratiche, perché essa si basa su di una macchina mondiale che smetterebbe di funzionare, qualora un solo granello di povere penetrasse nel suo motore.

Ecco perché le multinazionali degli OGM combattono con ogni mezzo, lecito e illecito, per far scomparire le ultime coltivazioni biologiche; ecco perché le democrazie del denaro fanno la guerra ai sistemi politici che non si aprono incondizionatamente al libero mercato; ecco perché le banche non possono tollerare, a lungo andare, il no-profit; né la medicina chimica, basata sui brevetti, può adattarsi a convivere con le medicine tradizionali, basate sulle sostanze vegetali e sulle pratiche naturali: si tratta di una guerra all’ultimo sangue, mors tua vita mea.

Ed ecco perché la finanza non può rinunciare ai suoi alti profitti, vampirizzando l’economia reale, che è fatta di beni e di servizi autentici, di denaro autentico, cioè guadagnato con l’onesto lavoro; ecco perché i sacerdoti del progresso appartengono sempre, guarda caso, alla minoranza che possiede la gran parte delle risorse nazionali e internazionali e che è in grado di decidere del lavoro altrui.

Una minoranza che deve, nondimeno, convertire il resto dell’umanità alla propria buona causa: così come, qualche decennio fa, le nazioni ricche predicavano a quelle povere che dovevano prendere esempio da loro, se volevano uscire dalla povertà e incamminarsi, una buona volta, sull’agognata via del progresso: con quali risultati, è sotto gli occhi di tutti…

Peccato che si tratti di una minoranza di ciechi, che pretendono di fare da guida a tutto il resto dell’umanità: sarebbe ora che prendessimo coscienza della vera natura delle classi dirigenti asservite alla religione del progresso, e di quanto sia folle aspettarsi da loro i rimedi alla situazione che esse stesse hanno contribuito a creare.