Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Attentato all’Agip, per il Movimento del Delta del Niger è corresponsabile di povertà e inquinamento

Attentato all’Agip, per il Movimento del Delta del Niger è corresponsabile di povertà e inquinamento

di Giacomo Dolzani - 06/02/2012





Dopo un periodo di dormienza il MEND (Movement for the Emancipation of the Niger Delta), in italiano Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger, ha ripreso i suoi attacchi all’apparato petrolifero nigeriano.
A finire nel mirino del gruppo armato è, questa volta, un oleodotto dell’AGIP, compagnia impegnata nell’estrazione del greggio nella zona, che è stato danneggiato dall’attacco avvenuto nello stato del Bayelsa.
Questo gruppo, che con la lotta armata vuole liberare la Nigeria dalle lobbies straniere e da un governo fantoccio delle multinazionali, si era già in passato reso protagonista di sequestri di operai, impiegati negli impianti di estrazione del petrolio, e di sabotaggi agli oleodotti.
Le richieste da sempre avanzate dai combattenti del Delta del Niger sono per un risarcimento agli abitanti, danneggiati dall’inquinamento causato dall’attività estrattiva, e per restituire al popolo nigeriano il controllo sulle risorse naturali del proprio territorio.
La prolungata attività dei colossi internazionali del petrolio, principalmente Chevron Texaco, Shell ed ENI, ha letteralmente distrutto l’ecosistema dell’intera regione, si stima che dal 1958 ad oggi siano stati riversati nel Delta almeno 13 milioni di barili di scarti di lavorazione e bitumi.
La rete di distribuzione inoltre è basata su un sistema enorme di tubazioni, difficile da controllare e mantenere in sicurezza, tanto che in molti tratti queste sono corrose e perdono liquidi, che lasciano sull’acqua uno strato oleoso impossibile da rimuovere, soprattutto quando entra a contatto con il terreno, che ne rimane impregnato.
Già da parecchi decenni l’intera area non è più coltivabile perché il terreno è ormai morto e quindi una delle poche fonti di sussistenza degli abitanti è praticamente scomparsa mentre il fiume, l’unica fonte d’acqua, è ancora utilizzato per lavarsi e bere.
La pesca nel fiume è ancora possibile, ma il pesce puzza di petrolio, e la gente è obbligata a mangiarlo comunque per non morire di fame, il che genera malattie croniche soprattutto nei bambini, che molto spesso nascono con malformazioni, mentre tumori di ogni genere sono all’ordine del giorno.
Un’altra pratica applicata negli impianti, illegale anche in Nigeria dal 1984, ma la cosa non costituisce un ostacolo, è quella del cosiddetto gas flaring, che altro non è che l’incendiare il gas estratto assieme al petrolio ma che non è economicamente redditizio trasportare e mettere sul mercato, e costituisce circa il 40% del gas prodotto in Nigeria.
Il gas flaring crea fiammate altissime che producono quantità enormi di inquinanti, soprattutto anidride carbonica mescolata ad altre sostanze tossiche se inalate, oltre ad una indicibile quantità di calore, che rendono l’aria irrespirabile e l’ambiente invivibile anche a grande distanza, addirittura le fiamme possono essere viste da satellite, mentre la Nigeria, con una rete di distribuzione presente praticamente solo nelle grandi città ed un apparato industriale quasi inesistente brucia una quantità di gas pari ad un terzo di quella che si utilizza in tutta Europa. Inoltre non tutto il gas uscente dalle ciminiere riesce ad incendiarsi, una parte consistente rimane incombusto e crea irritazioni alla pelle e malattie a chi ne entra in contatto.
Le manifestazioni spontanee di protesta contro questo scempio si susseguono da anni, ma vengono ogni volta represse nel sangue dall’esercito fedele ad un governo che risponde solo alle multinazionali.
Le compagnie petrolifere, ogni volta che qualche notizia riguardante la situazione arriva in Occidente, utilizzano le scuse più disparate per giustificarsi di fronte all’opinione pubblica, attribuendo la colpa dell’inquinamento alle altre aziende estrattrici o millantando piani di bonifica che nessuno ha mai visto cominciare, anche perché i costi sarebbero insostenibili anche per società di quella grandezza.
È proprio per questo motivo che i gruppi armati resistenti come il MEND godono dell’appoggio e della simpatia della popolazione locale, che li copre e li sostiene, in quanto loro unica speranza di ottenere giustizia.
I giganti del petrolio che operano nella regione lamentano infatti spesso la poca sicurezza per i loro operai, pretendendo la presenza di presidi dell’esercito per evitare sequestri di personale, rapimenti questi che quando si verificano hanno grande risonanza sui media, che presentano i come dei criminali. Combattenti che in realtà non hanno mai chiesto soldi, ma solo il miglioramento delle condizioni di vita di una popolazione portata alla fame dall’imperialismo occidentale.
Sul Delta del Niger vivono all’incirca trenta milioni di persone, ma solo una parte minoritaria è impiegata nell’industria petrolifera, la stragrande maggioranza ha invece semplicemente visto distruggere a poco a poco il proprio territorio e scomparire le proprie fonti di sostentamento. Agli inizi degli anni sessanta, quando ebbe inizio l’insediamento delle multinazionali, la Nigeria era il maggior produttore di cacao al mondo, ad oggi la produzione è calata del 43%, quella di grano del 29%, del 64% e 65% rispettivamente quella di arachidi e cotone (fonte: “Where Vultures Feast: Shell, Human Rights, and Oil in the Niger Delta” Okonta, Douglas).
Ad ogni richiesta di questi gruppi, che altro non portano se non la voce di un popolo oppresso, la risposta delle industrie è sempre stata l’aumento del personale di sicurezza e le pressioni sul governo per un intervento più deciso di repressione, ma fermare un movimento sostenuto da persone a cui è stato tolto tutto non è cosa facile, soprattutto quando si è dalla parte del torto.