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La nostalgia del dono

di Eduardo Zarelli - 06/02/2012



Quando il “mercato” delude (come oggi), si fa ancora più intensa la nostalgia, e il bisogno, di dono. Il mercato (nella sua accezione economica, non quello fisico, che ha ancora un contenuto relazionale forte), è il luogo dell’incontro e scambio con le merci e gli oggetti. Il dono è il modo dell’incontro con la vita, e con l’altro. Mentre il modello culturale dominante indebolisce le relazioni col vivente e l’incontro tra persone per sostituirlo con la brama del consumo, il dono ristabilisce un’intimità umana. Avvicina le persone, consente all’uno, donatore e ricevente, di vedere il volto dell’altro, anche nel senso di penetrarlo intimamente, e lasciarsene penetrare.
Agli inizi degli anni ’80 veniva fondato in Francia il M.A.U.S.S. ovvero il Movimento Anti Utilitarista nelle Scienze Sociali. Il Movimento nasceva dalla necessità di compiere un’opera di critica della ragione utilitarista, che era divenuta (e che continua ad essere) la filosofia sociale ed economica dominante. Al concetto dell’homo oeconomicus moderno, tutto compreso in un paradigma egoistico, funzionale, razionale, e dunque utilitarista (è l’egoismo del macellaio a far sì che la carne che vende sia la migliore al miglior prezzo possibile, sosteneva Adam Smith), gli antiutilitaristi contrappongono la riscoperta dell’opera di uno scienziato di inizio secolo, Marcel Mauss, centrata sulla possibilità di ricreare, così come era stato per le società arcaiche, un individuo olistico, in cui l’economia diventa un elemento all’interno di un tessuto di interrelazione e interdipendenza tra i componenti di un gruppo o di una società. Alain Caillé (uno dei fondatori e massimi esponenti del M.A.U.S.S.) ha rintracciato nella “economia del dono” questa possibilità. Dono significa donare, ricevere, restituire, ossia costruire una intesa tra individui, in cui, contrariamente ai dettami dell’economia come la conosciamo, lo scambio può essere non razionale e dunque non avvenire alla pari (esempio classico: il prezzo si forma dall’incontro aritmetico fra domanda e offerta). Al contrario, in Caillé lo scambio non è dominato dalla razionalità ma dalla relazione. L’economia classica prevede una serie di rapporti di forza (la domanda e l’offerta dell’esempio) in perenne ricerca di equilibrio (la formazione del prezzo), soddisfatto il quale il legame si scioglie. Nell’economia del dono, è appunto il continuo disequilibrio determinato dal dono a costituire necessariamente una serie di relazioni, aspettative, interdipendenze, su cui si fonda la formazione dell’homo politicus. Immaginiamo che un soggetto paghi per un bene o una prestazione un prezzo maggiore del suo valore effettivo. Crea così un vincolo reciprocitario verso la controparte, un legame, che si protrae oltre la portata economica dello scambio, un debito morale che prima o poi potrà essere saldato. Immaginiamo che tali relazioni si instaurino ad ogni scambio tra tutti i membri di una comunità. Si verrà a definire in questo modo un altissimo livello di coesione e connessione sociale. Ormai esistono solo echi di comunità che si sostengono su un’idea o un ricordo di economia del dono, ma è altresì interessante gettare il nostro disincantato occhio occidentale verso oriente.
Il Bhutan, un piccolo Stato localizzato nella catena dell’Himalaya, ha deciso che il principio guida nella sua politica economica sarà la ricerca della felicità del proprio popolo e non più la ricerca della crescita economica così come misurata dal Pil. L’indicatore della “Felicità interna lorda” è stato ideato nel 1972 dall’ex re del Bhutan, Jigme Singye Wangchuk. La felicità interna lorda, sosteneva, poggia su quattro pilastri: promozione della sostenibilità, conservazione e promozione dei valori culturali, conservazione dell’ambiente naturale, istituzione di un buona opera di governo.
Il PIL è un indicatore impreciso dello stato dell’economia e della società poiché misura solo le transazioni commerciali mentre esternalizza i costi sociali ed ecologici. Considera la distruzione come sviluppo e la regressione nel benessere dei popoli come progresso. Inoltre considera misure correttive, per esempio l’aumento dei costi per la sicurezza o la riduzione delle cure sanitarie, come “crescita” piuttosto che come costi. Se questi costi fossero invece presi in considerazione, la crescita sarebbe negativa e lo sviluppo economico sarebbe antieconomico. Il Pil distrugge l’autosufficienza, crea debito e dipendenza da costose importazioni.
L’agricoltura industrializzata (chimica) è per l’agricoltura ciò che il Pil è per l’economia. Come il Pil, esternalizza i costi dello sconvolgimento dei processi ecologici e della disintegrazione della società. La distruzione della fertilità del suolo compromette la produttività agricola, il decadimento dei valori sociali mina la capacità produttiva delle comunità rurali. La non sostenibilità dell’agricoltura chimica è basata su semi costosi e non rinnovabili, su costosi prodotti chimici che esauriscono il già scarso capitale del contadino, su monocolture che aggravano ulteriormente i rischi di perdita del raccolto a causa di parassiti, malattie e cambiamento climatico con conseguenza della riduzione della nutrizione per ettaro. Ciò che infatti viene regolarmente ignorato nella narrazione sulla rivoluzione verde, cioè lo sviluppo produttivo indotto in modelli economici di sussistenza e reciprocità, è il calo della produzione globale, l’aumento dei costi di coltivazione e la distruzione del suolo. In controtendenza, espressione di un paradigma al tempo stesso arcaico e futurubile, il modello di una agricoltura biologica espressione della tradizione locale offre ciò che l’indicatore della felicità interna lorda è per la società. Entrambi massimizzano il benessere delle persone nel bene comune delle loro comunità. L’attuale primo ministrò del Bhutan ha infatti dichiarato: «Il nostro obiettivo è diventare il primo Stato sovrano al mondo ad essere completamente biologico nella sua produzione. L’etichetta “cresciuto in Bhutan” sarà sinonimo di coltivazione biologica. Lo sviluppo del biologico è la chiave per mettere in pratica in questo paese l’indicatore della felicità interna lorda».
Le domande che noi occidentali possiamo quindi porci sono allora queste: cosa abbiamo da guadagnare da un modello di sviluppo come quello capitalistico finanziario? La nostra cultura e storia non trova forse corrispondenza con ideali che si accostano maggiormente ad economie del dono o similari, basate sulla collaborazione, la reciprocità, la coesione, la comunità?
In un contesto di economia della decrescita, comunque della “post-crescita” o come è stato magistralmente definito, di “piacere della misura”, ovvero un sistema economico che produca più valore e meno merce, l’economia del dono può essere il paradigma della sobrietà e del “bene comune” su cui riflettere ed essere in definitiva più persuasivo dello sviluppismo consumista dominante.