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Lavoro e posto fisso, sterco del demonio

di Marcello Frigeri - 07/02/2012

Fonte: liberacritica

Anche per l’epoca medievale, specialmente per il periodo Basso, gli storici hanno parlato di una società capitalista che, comunque sia, nonostante il termine, aveva regole e storia totalmente differenti dalla nostra: rispetto all’epoca moderna conservava una sorta di identità umana che oggi pare abbiamo perduto.  Può essere arbitrario, ora, mettere sullo stesso piano quello che era il mercante che fruttava il proprio “capitale”, con il padrone di una bottega che lo utilizzava per acquistare del tessuto, e il contadino, che lavorava le proprie terre pagando qualche contributo allo Stato. Ma guardando da più vicino queste tre classi possiamo dire di loro la stessa cosa: tutti possedevano un bene che avevano comprato o ereditato, e non dovevano render conto a nessuno, ne’ a padroni sotto cui lavorare, ne’ a signori che concedevano loro un manso. In estrema sintesi erano imprenditori di se’ stessi, e quando le cose andavano male, o andavano bene, tutto era causa loro. Non essendo dei salariati non erano sotto la tutela delle garanzie che oggi proteggono i lavoratori con il posto fisso. Ma questo era il doppio volto del mestiere: la libertà nel mondo del lavoro equivaleva al rischio di mettersi in gioco: ma certo, e forse anche per questo, si sentivano uomini liberi, e non alla stregua di ingranaggi o macchine di una catena di montaggio come ben si può identificare l’operaio moderno, oggetto della ricchezza del datore di lavoro (e non soggetto lui stesso), programmato per  spaccarsi le ossa 40 anni della propria vita.

Non che la fatica non esistesse al tempo, anzi, forse era ben più devastante di oggi, ma un lavoro faticoso, almeno sul piano morale, era considerato abietto. Si trattava della punizione inflitta dal Creatore, e coloro che lavoravano a vantaggio di altri – perché esistevano anche queste categorie -, erano considerati esseri asserviti, umiliati dal loro stesso contesto: “uomini spregevoli”, afferma addirittura Fossier nel suo Il lavoro nel Medioevo. Ancor prima, in epoca greca, l’occupazione normale del cittadino non era il lavoro, ma il tempo libero: il commercio e l’usura (mestieri che avevano a che fare con il denaro) venivano sì esercitate, ma erano attività inconfessabili e disprezzabili.

L’ideologia economica nella quale siamo sommersi ci ha invece abituati a credere che ogni società, passata o presente, abbia avuto una vita economica e ricorre al lavoro per sopravvivere. Ma è naturalmente una menzogna, a meno di ammettere che anche gli animali,  i quali hanno necessità di sopravvivenza, abbiano una vita economica e laboriosa.
Oggi tutto è ribaltato: il lavoro è diventato un diritto. Quello che al tempo era più vicino ad una punizione che altro, in epoca moderna è necessario per vivere. A cambiare è stato il contesto storico che, volendo usare una forzatura crudele, è arrivato da un’invenzione della borghesia: per screditare l’aristocrazia, intorno al XVI e al XVII, si utilizzò una propaganda lavorista del tipo: chi non lavora non mangia. Con questa ideologia siamo passati, in estrema sintesi, dall’immaginario dell’uomo libero che vive del frutto delle sue abilità al salariato della fabbrica, che per vivere è asservito completamente al lavoro. Il posto fisso, che nessuno oggi vuole toccare, è il paradigma di questa nuova ideologia.

Non che in epoca medievale – specialmente in quella Alta – i salariati con il posto fisso non siano esistiti. Esisteva tuttavia un fattore umano tra datore e salariato che oggi non si trova: il legame, infatti, era di tipo affettivo. Spesso il garzone divideva il pane con il padrone, che offriva addirittura l’alloggio situato sopra la propria bottega; il chierico accettava gli inviti a cena che gli giungevano dai genitori dei suoi allievi; il mugnaio prendeva posto a sedere nella stessa tavola del padrone del mulino. E così via. In epoca moderna l’operaio di fabbrica, o il dipendente in azienda – soprattutto quando questa è di grandi dimensioni – non ha nessun legame con il datore se non quello di iniziare e chiudere il lavoro come da contratto.
Tolta ogni tipo di unità umana con il proprio capo, il lavoratore viene letto come mezzo per la produzione, oggetto della crescita dell’azienda stessa. Null’altro.

Il meccanismo ci darà pur da vivere, ma a quale prezzo? Osservate con occhio riflessivo le strade principali di ogni città allo scoccare delle 7.30 del mattino. Quello che vedrete sono code chilometriche di macchine borbottanti, e in fila l’una all’altra, sotto il grigiore del periodo invernale – avvolte dal fumo tossico dello scarico -, tutte a rappresentare una processione meccanica simile a quella di un’enorme e noiosa catena di montaggio: è l’alba di ogni giorno lavorativo. Considerando sempre una generalizzazione che ha bisogno di essere studiata nel dettaglio, possiamo dire che oggi stiamo pagando le conseguenze di questo processo storico. Il problema, però, è nel cuore del sistema: mi ha sempre fatto effetto celebrare l’1 maggio come festa del lavoro. Siamo penetrati così tanto nel meccanismo da naturalizzare ciò che una volta era considerata una pena. Da perfetti masochisti autocelebriamo il giorno della nostra schiavitù.