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Discorso di Obama sullo stato dell’Unione

di Alessandra Colla - 07/02/2012


Discorso di Obama sullo stato dell’Unione

Attesissimo da amici e nemici, in patria e fuori, l’annuale discorso sullo stato dell’Unione è stato pronunciato dal presidente Obama la sera del 24 gennaio. (Come sempre, per leggerlo in versione integrale è necessaria la conoscenza della lingua inglese: che si faccia parte delle colonie oppure no, la dictamórbida del linguaggio unipolare assume sempre più i connotati di un’autentica dictadura semantica — l’idioma angloamericano ormai è diventato un must, altro che optional…).

A onor del vero, il senso generale e (si potrebbe quasi dire) essoterico dell’allocuzione presidenziale emerge con chiarezza dagli stralci e dai riassunti riportati in italiano da pressoché tutti i giornali: ma, parafrasando McLuhan, la forma è la sostanza — e in questo caso non c’è neanche bisogno di affannarsi troppo a leggere tra le righe: è tutto lì, sotto gli occhi di chi sappia vedere.

A paragone di quello tenuto un anno fa, il discorso del 24 gennaio dimostra chiaramente che Barack Obama ha deciso di cambiare registro — o che il cambiamento gli è stato imposto in qualche modo, con tutta probabilità anche in vista del prossimo appuntamento elettorale. Il nuovo orientamento dello spirito presidenziale si rivela fin dal titolo del discorso: «An America Built to Last», “un’America costruita per durare” — dove è proprio built la parola chiave del messaggio di Obama, perché “costruire” è un verbo molto meno asettico di quanto sembra (e perfino meno innocuo, come vedremo), che ricorre nel documento quattordici volte compreso il titolo.

“Costruire”, etimologicamente parlando, significa “comporre unendo insieme più cose convenientemente”, e, in senso figurato, “ordinare, stabilire” — come dice l’antico Pianigiani: e in questo senso si costruiscono edifici e macchine, o si analizza il costrutto di una frase. Ma esiste un’altra accezione del verbo: ed è quella che attribuisce al termine il senso di “fondare, creare” — ovvero di dar vita a qualcosa che prima non esisteva. Il che naturalmente è implicito nell’atto del costruire, ma non è sempre immediatamente evidente.

E infatti il messaggio presidenziale è ambiguo: si sta parlando di un’America già costruita in modo tale da durare, e nella quale bisogna confidare senza farsi prendere dallo scoramento per una crisi globale ma momentanea; o si sta chiamando a raccolta per costruire un’America destinata a durare, sottintendendo che l’attuale, così com’è messa, rischia di non avere vita lunga?

Probabilmente entrambe le cose, dal momento che tutto questo discorso presidenziale è veramente costruito — e ancora una volta ci soccorre il vocabolario, che alla voce “costruito” recita testualmente: «agg. 1. Nel linguaggio della critica letteraria, di lavoro, libro, romanzo, ecc., non nato tutto d’un getto ma messo insieme pezzo per pezzo, per lo più senza ispirazione, con impegno puramente esterno, di mestiere: romanzo, racconto costruito. 2. fig. Di persona o atteggiamento, innaturale, artificioso, affettato: è una persona c.; ragazzo con un comportamento c.; le sue reazioni erano troppo c. per essere vere.». Come volevasi dimostrare, chioserebbe un matematico.

Non manca proprio niente, nel discorso di Obama: l’elogio delle valorose forze armate, custodi del bene ed esportatrici di democrazia; il ricordo del dopoguerra — quella mondiale finita nel 1945, dico, quando le truppe trionfanti tornate in patria misero da parte le armi per dedicarsi appunto alla ricostruzione (non già delle loro, intatte, bensì delle altrui città ridotte a cumuli di macerie nel resto del mondo: la nazione sotto Dio con una mano dà e con l’altra toglie); l’evocazione dei nonni — sì, anche i presidenti sono stati bambini; l’esempio vivente dei Veri Valori Americani nelle persone di Jackie Bray, mamma single del North Carolina, e Bryan Ritterby, operaio del Michigan — alle prese con le difficoltà, grazie al Vero Spirito Americano e alla saggia amministrazione del presidente in carica sono riusciti a cavarsela brillantemente. E poi l’attacco ai ricchi — “può un milionario pagare le stesse tasse della sua segretaria?”; la rievocazione dei successi nella lotta al terrorismo — l’eliminazione di Osama bin Laden, la “morte” (traduco: “il vergognoso assassinio a sangue freddo”) di Muhammar Gheddafi, l’auspicio per il rinnovamento in Siria, la volontà di bloccare il nucleare iraniano, la messa a punto di misure protettive contro il cyber-terrorismo; la promessa di un futuro migliore per tutti, “cristiani, musulmani ed ebrei”…

Manca la classica torta di mele (l’apple pie) e poi c’è veramente tutto quanto serve per girare un film, con tanti flash-back e la solenne voce narrante mentre sullo schermo scorrono immagini sapientemente evocative dello Spirito della Frontiera e del Sogno Americano, fino all’immancabile happy end: «Ogni volta che guardo quella bandiera, mi ricordo che il nostro destino è cucito insieme, come quelle cinquanta stelle e quelle tredici strisce. Nessuno ha costruito questo paese da solo. Questa Nazione è grande perché l’abbiamo costruita insieme. Questa Nazione è grande perché abbiamo lavorato come una squadra. Questa Nazione è grande perché ci guardiamo vicendevolmente le spalle. … in questo momento che ci mette alla prova, non c’è sfida troppo grande, né missione troppo difficile. Finché resteremo uniti in uno scopo comune, finché manterremo la nostra comune determinazione, il nostro viaggio continuerà, il nostro futuro sarà pieno di speranza, e lo stato della nostra Unione sarà sempre forte».

Poco importa se la frontiera ha valicato da tempo i limiti geografici dell’isola del mondo, e se il sogno americano è diventato ormai un incubo per il resto del pianeta e per una quota crescente di quell’“American people” sempre meno protagonista della vita civile e sempre più vittima del suo governo: come dice un antico proverbio navajo, “stai attento quando parli, perché le tue parole creano un mondo attorno a te” — ed è esattamente questo il senso dell’affabulazione presidenziale, perfettamente in linea col sentire tipico dell’americano medio.

Perché sono gli Americani a stabilire chi è buono e chi è cattivo; sono loro a plasmare il mondo, a dare il nome alle cose, proprio come fece Jahvé e come, a sua immagine e somiglianza, fece Adamo nell’Eden: «Dio chiamò la luce “giorno” e le tenebre “notte”. [...] Poi Dio disse: “Vi sia una distesa tra le acque, che separi le acque dalle acque”. Dio fece la distesa e separò le acque che erano sotto la distesa dalle acque che erano sopra la distesa. E così fu. Dio chiamò la distesa “cielo”. [...] Poi Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo siano raccolte in un unico luogo e appaia l’asciutto”. E così fu. Dio chiamò l’asciutto “terra”, e chiamò la raccolta delle acque “mari”» (Genesi 1:5-10). «Dio il SIGNORE, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi» (Genesi 2:19-20).

Chi nomina crea, perché il nome evoca, chiama alla realtà, trae l’ordine dal caos — come si può leggere in qualsiasi testo non già di magia bensì di etnologia, antropologia culturale o storia delle religioni. E sta in questo, forse, il senso delle infinite proclamazioni che tutti i presidenti americani hanno fatto nel corso dei secoli: «in virtù dell’autorità conferita[gli] dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti» (questa è la formula) qualunque presidente americano ha potuto, durante il suo mandato, “ribattezzare” un qualsiasi giorno dell’anno attribuendogli qualità e valenze specifiche che lo risucchiassero dalla quotidianità di un calendario comune, laico per così dire, al fine di proiettarlo in un tempo nuovo, santificato dalla scelta operata in nome e per conto della “nazione sotto Dio”.

Se il leit-motiv del discorso 2011 era “il futuro non è un dono, ma bisogna lottare per conquistarselo”, quello di quest’anno sembra dunque essere “il momento è critico, ma se restiamo uniti possiamo farcela”. Che, con tutta evidenza, non è una dichiarazione d’intenti buona soltanto per gli Stati Uniti: anzi è soltanto questa, forse, la lezione che potrebbe trarne il resto del mondo — se soltanto riuscisse a individuare, una buona volta, il nemico principale.