Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’imperatore Giuliano e il cristianesimo

L’imperatore Giuliano e il cristianesimo

di Francesco Lamendola - 07/02/2012


 

 

L’imperatore Giuliano detestava il cristianesimo e desiderava ricacciarlo indietro, restaurando, al contempo, il culto degli dèi olimpici, un culto profondamente permeato di neoplatonismo: questo, almeno, è quanto generalmente si crede e si tramanda.

In realtà, una simile impostazione del rapporto fra Giuliano e il cristianesimo è, a dire poco, semplicistica; e, se può andar bene per lo storico frettoloso, che ha bisogno di semplificare i concetti della storia delle idee per potersi meglio concentrare su quella economica, politica e sociale, non può assolutamente bastare per lo studioso di filosofia e di storia delle religioni.

Il mancato incontro fra la morale cristiana e quella neoplatonica, rappresentata da una figura illustre di sovrano che fu anche un notevole intellettuale, è uno di quei problemi che dovrebbero attirare al massimo la nostra attenzione, proprio perché dalla sua soluzione, o almeno dalla sua esatta comprensione, dipende il giudizio che potremo dare sui ruoli rispettivamente svolti nella storia spirituale della civiltà tardo-antica dalle due grandi religioni che si disputavano il predominio nell’Impero Romano, quella degli avi, ormai giunta al declino, e quella venuta dalla Palestina, avviata inarrestabilmente verso la vittoria finale.

Si sa che Giuliano ricevette una educazione cristiana; si sa anche che egli dovette legarla alla figura di suo cugino Costanzo II, responsabile della morte di tutti i suoi familiari e figlio di quel Costantino che, con l’editto di Milano, aveva avviato il cristianesimo stesso a divenire religione di Stato (processo che si compirà solo mezzo secolo dopo, con Teodosio); tuttavia bisogna stare in guardia contro la tentazione dello psicologismo, cioè di ridurre il rifiuto del cristianesimo da parte di Giuliano alla associazione di questo con la dinastia costantiniana;  il che sarebbe un po’ come ricondurre automaticamente, ad esempio, il pessimismo filosofico di Leopardi ai dati biografici della sua infanzia solitaria e infelice, alla sua cattiva salute e così via.

Sappiamo anche che Giuliano ricevette una accurata formazione classica e che, leggendo Omero ed Esiodo, pervenne ad una sorta di autentica venerazione per la cultura greca; che ebbe un vivo interesse per le cose divine e si fece iniziare ai misteri di Mitra, la divinità persiana che, allora, faceva seriamente concorrenza al cristianesimo (tanto che un noto studioso ha potuto affermare che se il mondo romano non fosse divenuto cristiano, sarebbe divenuto mitraico); che si appassionò profondamente alla filosofia neoplatonica e specialmente agli esiti dall’incontro di questa con la teurgia, promosso specialmente da Giamblico; che la sua indole ardente, onesta, portata all’ascetismo e sorretta da un fortissimo senso del dovere, nonché la sua fondamentale bonarietà e tolleranza, lo trattennero da una aperta persecuzione del cristianesimo (si limitò all’allontanamento di funzionari e insegnanti cristiani e a qualche innocuo battibecco con qualche comunità cristiana, come quella di Antiochia) e lo indussero piuttosto a combattere quest’ultimo con le armi della cultura, dell’esempio, dell’organizzazione del culto, nel disperato tentativo di ridare forza e linfa vitale al paganesimo morente e alla sua casta sacerdotale.

Ma quali erano le vere ragioni dell’avversione e, prima ancora, della fondamentale incomprensione del cristianesimo da parte di Giuliano? Che cosa poteva trovare, nella morale cristiana, di così diverso dalla morale che lui stesso teorizzava e praticava; oppure non si trattava di reale diversità, ma di un fraintendimento, di un pregiudizio, di una incapacità di porsi in maniera equanime di fronte al fenomeno del nuovo che stava avanzando, chiudendosi a riccio nella impossibile difesa dell’antico, a dispetto di tutto e di tutti?

Una lettura anche fugace dei suoi scritti, o meglio di quella parte di essi che ci è pervenuta, non lascia molti dubbi circa il fatto che il problema etico, che sta al centro della riflessione religiosa di Giuliano, non era posto in termini sostanzialmente diversi da quelli del cristianesimo; qualche differenza più pronunciata, invece, si nota riguardo al rapporto dell’uomo con la divinità, ai modi e ai fini dell’adorazione; ma neppure in questi casi si tratta di diversità tali da giustificare una contrapposizione così animosa e profonda, come quella che egli impersonò con la propria azione di governo, nel breve periodo (neppure venti mes, non lo si dimentichi) nel quale egli ebbe in mano il governo del riunificato Impero Romano.

Di più. Se il paganesimo della tarda antichità non era affatto una religione, o una filosofia, ma una costellazione di religioni e di filosofie, una pluralità di culti e una visione del mondo sincretistica e, perciò, per sua stessa natura, pluralista ed accogliente verso altre religioni e filosofie, in quella costellazione Giuliano privilegiò il culto del Sol Invictus, probabilmente lo stesso cui aveva aderito Costantino e che ai cristiani, all’epoca dell’editto di Milano e anche dopo, poté sembrare quasi una adesione alla loro propria fede, principalmente in virtù del suo monoteismo (che, però, non escludeva affatto l’esistenza di altri dèi, o meglio di altri nomi dello stesso Dio) e la cui visione spirituale della vita presentava evidenti analogie con la loro.

Riportiamo alcuni frammenti che ci sembrano avvalorare la tesi di una sostanziale convergenza fra il paganesimo neoplatonizzante, teorizzato, praticato e diffuso da Giuliano, ed il cristianesimo (in: Francesco Pedrina, «Musa greca», Trevisini, Milano, 1968, pp. 1046-47):

 

«La filosofia non ha che una sola meta e un solo principio: conoscere se stessi e diventare simili agli dèi; il principio è la conoscenza di se stessi, la meta è la somiglianza alle potenze supreme (“Contro il cinico Eraclito”, 225).

Vedendo la grande indifferenza che si è mostrata verso gli dèi, vedendo la pietà dovuta alle potenze spreme completamente bandita da un’impura e vile inerzia, io deploro da molto tempo in me stesso questo stato di cose. I seguaci della religione giudaica spingono a tal punto il loro fervore da scegliere per essa la morte e sopportare ogni sorta di privazioni e anche la fame pur di non gustare la carne di maiale o di altro animale che non sia stato immediatamente dissanguato; e noi siamo tanto negligenti verso gli dèi da dimenticare le tradizioni dei padri e da ignorare persino l’esistenza di simili norme. Certo, costoro sono in parte religiosi, perché il Dio che onorano è avvero il Dio onnipotente che governa il mondo sensibile e che anche noi veneriamo, lo so bene, sotto altri nomi (Ep. 89, “Al gran sacerdote Teodoro, 453c-454a).

Bisogna far parte di ciò che si possiede a tutti gli uomini, ma più generosamente agli uomini onesti, provvedendo agli indigenti e ai poveri secondo le loro necessità. Io dico persino - benché ciò possa sembrare strano – che sarebbe opera pi accordare anche ai nemici vestito e nutrimento: infatti noi diamo all’uomo in quanto uomo, non all’individuo singolo come tale. E penso che dobbiamo operare la stessa benevolenza anche verso coloro che languono nelle prigioni : questa umanità non sarà in contraddizione con la giustizia.” (ep. cit., 290 d-291 a).

Noi crediamo che la buona educazione si trovi non già nell’euritmia delle parole e dell’eloquio , bensì nella disposizione d’una mente sana, che ha un concetto vero del buono edel cattivo, dell’onesto e del turpe. Colui dunque che pensa in un modo e insegna in un altro, è tanto lontano dall’essere un educatore quanto dall’esser uomo onesto. Nelle piccole cose, il disaccordo fra la convinzione e la parola può essere un male tollerabile, sebbene sempre un male; ma nelle cose di suprema importanza, se un uomo la pensa in un modo e insegna proprio l’opposto di ciò che pensa, la sua condotta è simile a quella dei mercanti, non dico degli onesti ma dei perversi, i quali raccomandano più che possono le cose che sanno cattive, ingannando e adescando con le loro lodi coloro ai quali vogliono trasmettere ciò che hanno di guasto (trad. di G. Negri).»

 

Basterebbero questi brevi passi per farsi un’idea sufficiente della personalità eccezionale di Giuliano, della sua assoluta rettitudine, della sua umanità: la lettera a Teodoro sembra scritta da un cristiano e potremmo attribuirla a una atteggiamento opportunistico, ossia al tentativo di trasferire nei sacerdoti pagani lo stesso spirito di carità che aveva attirato verso quelli cristiani larghe simpatie popolari, se non sapessimo che l’azione di governo di Giuliano fu realmente rivolta ad instaurare una maggiore giustizia sociale e realmente sollecita delle classi meno agiate (ad esempio, con la riforma monetaria).

Non esisteva, dunque, una incompatibilità di fondo, a livello intellettuale e morale, fra le idee professate da Giuliano e quelle del cristianesimo: questo ci sembra un punto acquisito, e confermato anche dai brani che abbiamo sopra riportato.

D’altra parte, i rapporti fra due religioni, specialmente quando esse sono in aperta competizione, non possono essere compresi solo partendo dalle differenze o dalle convergenze teologiche, etiche e liturgiche; conta moltissimo il modo in cui esse sono interpretate e vissute nella vita concreta degli uomini; e, oseremmo dire, nel caso di due religioni che presentano numerosi punti di contatto, proprio la loro affinità rende ancor più inconciliabili le rispettive differenze, esaspera i punti di dissonanza, spinge i loro seguaci all’intolleranza reciproca, più che se non si trattasse di due religioni radicalmente diverse (e un discorso analogo si può fare per le eresie che, come è noto, sono combattute con maggiore asprezza dalla religione dominante, che non le religioni diverse e magari apertamente ostili; cosa che vale anche nel caso delle religioni laiche, come lo sono stati i totalitarismi del XX secolo).

Tali asprezze e tale tendenza al conflitto rappresentano ciò che, a livello di psicologia individuale, comunemente si chiama contrasto di caratteri, o meglio contrasto di temperamenti: quel che conta non è la sostanza della materia su cui si è in disaccordo, ma il modo che hanno le due parti di porsi l’una di fronte all’altra.

Né si deve dimenticare, per imparzialità storica, che i cristiani venivano da due secoli e mezzo di persecuzioni, sebbene discontinue e di diseguale intensità; e che nessuna fazione perseguitata, quando giunge vicina al dominio di una società, si è mai trattenuta dal dare sfogo al desiderio  di rivalersi sui suoi ex persecutori.

In questo senso, i pagani che invocavano tolleranza e si mostravano disposti al dialogo (come si vedrà nella disputa sull’altare della Vittoria, tra Simmaco e Sant’Ambrogio), dopo che, fino al tempo di Diocleziano e di Galerio, avevano duramente perseguitato i cristiani, potevano sembrare più miti e pacifici, ma erano semplicemente consapevoli della propria debolezza e della impossibilità di vincere la partita sul piano della forza; mentre i cristiani che, non di rado, trascendevano ad atti di intolleranza verso i pagani - come nel tragico episodio dell’assassinio di Ipazia e in altri disordini istigati dai monaci egiziani -, erano, in fin dei conti, i rappresentanti di un’idea che aveva saputo affrontare e vincere una dura prova plurisecolare, mostrando con ciò stesso la sua vitalità e la sua presa effettiva sulle coscienze.

A fronte di questi rappresentanti di una religione che aveva saputo combattere e vincere la propria battaglia per la sopravivenza, i richiami di Giuliano alla Madre degli dèi, al Sole Invitto e a tutto il Pantheon pagano, benché assolutamente sinceri, non potevano non suonare come astrusi e velleitari, perché sempre più distaccati dalla percezione dell’uomo comune tardo antico, diciamo dal “pagano medio”, il quale, sovente, era portatore di un vuoto interiore che non riuscivano a colmare né le vecchie cerimonie, né la filosofia neoplatonica, rivolta principalmente ai ceti colti ed aristocratica nella sua essenza.

È erroneo e fuorviante, pertanto, immaginarsi il dramma di Giuliano come quello di un uomo che cerca di salvare una fede e una cultura che avrebbero potuto sopravvivere, se non fossero state brutalmente represse dal cristianesimo vittorioso; senza voler negare che la legislazione antipagana della dinastia di Teodosio abbia svolto la propria parte nella disfatta del paganesimo, bisogna ricordare che ciò avvenne quaranta o cinquant’anni dopo il regno di Giuliano e che, tuttavia, già nel corso di quest’ultimo, il paganesimo aveva chiaramente mostrato di aver esaurito irreparabilmente la propria forza vitale.

Resta il fatto, storicamente significativo, della totale incomprensione, da parte di un uomo colto e intelligente come Giuliano, delle vere ragioni della forza del cristianesimo, che non erano certo solo di tipo organizzativo e propagandistico; di non avere colto l’essenza della sua morale, del contenuto di novità del suo messaggio.

Ciò appare particolarmente evidente nel suo scritto «I Cesari», in cui immagina che Costantino, gettatosi fra le braccia della Lussuria, sia da questa consegnato alla Empietà, dalla quale, subito dopo, egli si sarebbe consegnato a Gesù Cristo, presentato come il perverso profeta che offre la sua indulgenza ai più atroci peccatori e che li attira a sé con la blasfema promessa di mondarli d’un tratto, con un rapidissimo rito di pentimento, peraltro puramente esteriore, di ogni bruttura e di ogni crimine.

Il cristianesimo, dunque, per Giuliano, è la religione dei ribaldi e degli ipocriti, di tutti coloro che desiderano sentirsi assolti dei loro peccati senza dover fare troppa fatica per espiarli; gli sfugge completamente la bellezza e la profondità dell’autentico messaggio di speranza e di remissione dei peccati e gli risulta incomprensibile l’abitudine di Gesù, attestata dai Vangeli, di rivolgersi di preferenza ai peccatori, di entrare nelle loro case, di non disdegnare la loro compagnia; gli sfugge quel «Va’ dunque, E NON PECCARE PIÙ, che egli rivolge alla donna adultera che i Giudei avrebbero voluto lapidare per il suo peccato.

Gli sfugge, quindi, l’essenza della novità cristiana.

Non è stato il primo e non sarà certo l’ultimo, di quanti hanno avversato il cristianesimo travisandolo e scagliandosi contro un nemico creato più dai loro preconcetti, che dalla spassionata considerazione dei fatti.

Certo, il clero cristiano dell’epoca post-costantiniana era tutt’altro che irreprensibile e tutt’altro che fedele all’originario messaggio evangelico; vescovi intriganti, come Eusebio di Cesarea, che Giuliano conobbe da vicino, lo avranno disgustato con il loro modo di agire, così lontano da ciò che un vero cristiano dovrebbe essere. Anche questo è un elemento di cui è giusto e doveroso tener conto, nel valutare la questione.

Anche Nietzsche, tanto per fare un nome, si scagliò aspramente contro un cristianesimo che esisteva più nella sua immaginazione, che nella realtà del Vangeli; e anche Nietzsche, come Giuliano, era un uomo colto, intelligente e onesto, capace di spendersi interamente per le proprie idee.

Forse, entrambi hanno commesso il solito errore: quello di confondere cristianesimo e cristianità; mentre sono due cose diverse, e un filosofo dovrebbe rendersene conto…