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Tre anni di politica estera targata Obama

di Andrea Casati - 10/02/2012

Tre anni di politica estera targata Obama

A tre anni dall’inizio della presidenza Obama, la dottrina di politica estera dell’amministrazione inizia a delinearsi abbastanza chiaramente. Di certo tale dottrina non risulta così comprensiva e netta come quella applicata dopo l’11 settembre, ma, visti i risultati di tale politica estera, ciò non è di per sé un fatto negativo, come alcuni conservatori vorrebbero far credere. Dal modo in cui ha formulato le sue priorità internazionali, l’attuale amministrazione sembra aver seguito allo stesso tempo due approcci differenti: un primo improntato al dialogo e al multilateralismo, un secondo mirante alla riaffermazione della forza militare degli Stati Uniti. I risultati del primo approccio sono abbastanza modesti, cosa che ha favorito un’interpretazione della politica estera di Obama come sbilanciata verso il secondo approccio. In questo articolo cercherò di analizzare brevemente entrambi.

Il primo approccio è quello che comunemente si tende a considerare più genuinamente “obamiano”, cioè quello del cambiamento, parola d’ordine della campagna elettorale del 2008. Almeno fino al secondo anno di presidenza, Obama ha cercato di proporsi come una netta alternativa allo screditato presidente uscente, così da favorire la ricostruzione dell’immagine degli Stati Uniti nel mondo. Se guardiamo ai sondaggi, tale approccio ha certamente avuto successo. In Europa, in particolare, l’efficiente campagna pubblicitaria di Obama è riuscita a creare una vera e propria idolatria collettiva per la sua immagine personale, di cui il premio Nobel per la Pace, da lui ricevuto nel 2009, può in buona parte esserne considerato l’apice.

Il personal appeal di Obama, tuttavia, non è stato sufficiente per risolvere alcune questioni al centro del suo programma, tra cui la distensione con alcuni Paesi e la promozione della propria agenda nei fori multilaterali. In questa categoria rientra il “reset” con la Russia, che ha avuto dei successi, come la firma del trattato New START, ma che non è riuscito ad avvicinare le due potenze su molte altre tematiche – e, con Putin che si accinge a ridiventare presidente, un futuro progresso in tal senso è ancor meno probabile. Vi rientra l’Iran, le cui iniziali proposte di dialogo formulate da Obama sono rapidamente decadute, facendo spazio alla ripresa di una politica molto più aggressiva, stimolata dal timore della proliferazione nucleare. Vi è poi l’eterno problema israelo-palestinese, in cui lo smacco dell’attuale amministrazione è totale: non solo i tentativi di favorire un accordo tra le due parti sono ancora una volta falliti, ma il governo è stato di fatto scavalcato nella gestione di questo importante punto della politica estera statunitense dal Congresso, che, in preda alle lobbies, ha dimostrato di essere ancor meno in grado di proporre una soluzione sensata. Neanche nei fori multilaterali Obama ha potuto vantare successi significativi; si pensi alla questione del riscaldamento globale, che nel lasso di tempo tra il vertice di Copenaghen e quello di Durban è stata abbandonata dai negoziatori nordamericani. Insomma, limiti interni ed esterni hanno impedito a Obama il raggiungimento di risultati sostanziali sotto il profilo del dialogo e della nuova agenda globale, aspetto che la pubblicità del prodotto-Obama aveva posto al centro degli sforzi dell’America rinnovata. Non è quindi un caso che nell’ultimo anno, con il moltiplicarsi dei limiti interni posti dal nuovo Congresso e dall’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, vi sia stata un’evidente riduzione dell’impegno dell’amministrazione sotto tale profilo.

Il secondo approccio impiegato dall’amministrazione Obama ha riguardato la riformulazione di una “dottrina di intervento” della forza militare statunitense. Sotto un certo punto di vista, possiamo dire che Obama si è ritrovato in condizioni simili a quelle di Reagan. Nel 1981 quest’ultimo mirava al ristabilimento dell’autorevolezza militare degli Stati Uniti, macchiata dalla guerra in Vietnam. Egli perseguì questo obiettivo tramite l’utilizzo di una retorica più combattiva, il tentativo di promuovere una discutibile strategia nucleare e l’impiego della forza in operazioni mirate e poco impegnative – in termini di uso della forza militare e di possibili vittime tra i militari nordamericani. Anche Obama si è trovato davanti al problema di come utilizzare la forza militare statunitense a seguito delle difficili guerre in Afghanistan e Iraq – e, recentemente, anche dei tagli di bilancio alla difesa. La risposta che Obama ha dato a questo problema si discosta da quella di Reagan nei primi due punti, ma sembra riprenderne il terzo, applicandolo tuttavia in modo più sistematico. In questi tre anni Obama ha, quindi, promosso un impiego della forza militare mirato e poco impegnativo – fatta eccezione per l’aumento delle truppe schierate in Afghanistan.

L’uccisione di Osama bin Laden e soprattutto l’utilizzo dei droni nell’uccisione di esponenti di spicco dei talebani e di al-Qaeda – tra cui anche un cittadino statunitense – sono certamente i modelli di intervento più compiuti di questo approccio. Si tratta di azioni concentrate su singoli individui, senza vittime tra i militari nordamericani e decise dal governo senza interferenze interne o esterne, nonostante gli interrogativi legali e i malumori politici che esse suscitano. Non che questo tipo di omicidi politici sia un fatto nuovo per gli USA; tuttavia, il suo impiego è stato notevolmente accelerato sotto Obama sin dal 2009. Altra applicazione di questo approccio si può riscontrare nella formulazione della cosiddetta lead-from-behind strategy, utilizzata nell’intervento in Libia – si noti, tra l’altro, come anche questa operazione sia stata decisa senza alcuna pronuncia da parte del Congresso.

Molti osservatori fanno notare come nel complesso la politica estera dall’amministrazione Obama non si discosti granché dalla politica estera dell’amministrazione Bush nel suo secondo mandato. Secondo questi, inoltre, Obama avrebbe avuto successo dove ha seguito le politiche di Bush, mentre avrebbe fallito nella promozione della propria agenda di cambiamento. È certamente vero che nel complesso Obama ha finito per svolgere una politica estera che potremmo definire convenzionale per gli USA, cioè un moderato realismo nobilitato da una – spesso ipocrita – retorica wilsoniana e a volte caratterizzato da un certa spinta autoritaria. D’altronde, la continuità col passato è evidente, dalla prigione di Guantánamo, che ospita ancora oggi i presunti terroristi, al ritiro dall’Iraq, che ha seguito il calendario concordato dal presidente Bush nel 2008. È quindi certo che in questi tre anni è avvenuto un ridimensionamento della visione di politica estera che Obama aveva prima di essere eletto, anche a causa delle condizioni interne ed esterne straordinarie che egli ha dovuto affrontare. Sotto questo punto di vista più personale, forse, Obama potrebbe essere più facilmente accostabile al presidente Carter.


NOTE:
Andrea Casati è dottore magistrale in Relazioni Internazionali (Università di Bologna).