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La storia infinita dei soldi pubblici elargiti ai partiti

di Massimo Fini - 12/02/2012

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Martedì a Porta a Porta, di fronte agli ennesimi scandali che coinvolgono esponenti politici, si discuteva del finanziamento pubblico ai partiti. È una storia lunga quasi quanto quella della Repubblica. Nei primi anni ’70 fu indetto un referendum perché i partiti fossero finanziati dallo Stato e noi cittadini andammo a votare sì, benché la cosa fosse alquanto bizzarra, essendo i partiti delle associazioni private, dicendo a noi stessi «così perlomeno non ruberanno più». Il problema della corruzione politica era infatti già presente in quegli anni, anche se non nelle proporzioni enormi che avrebbe assunto in seguito perché i democristiani e i socialdemocratici ricevevano soldi dagli americani e i comunisti dall’Urss (i più svantaggiati erano i socialisti che non avevano «case madri» all’estero) e perché gli uomini politici, singolarmente presi, erano ancora, nella maggioranza, delle persone perbene. Ma nel 1992, con Mani Pulite, ci si rese conto che il finanziamento pubblico non aveva eliminate le grassazioni dei partiti che si erano, anzi, centuplicate. Non c’era appalto che non provvedesse una tangente politica. Allora nel 1993 fu indetto un altro referendum per abolire il finanziamento pubblico che ottenne il 90% dei consensi. Ma i partiti lo aggirarono col grimaldello del rimborso delle spese elettorali che invece di diminuire triplicò la mole di denaro che lo Stato doveva elargir loro.
Nonostante questo tutti nello studio di Vespa, con l’eccezione del radicale Staderini, si sono detti favorevoli al finanziamento pubblico, sia pur più controllato. Non si capisce perché. I partiti, come s’è detto, sono delle associazioni private e non c’è ragione alcuna perché siano finanziati dalla collettività anche da coloro che non li votano e non ne vogliono sapere. Si facciano finanziare dai propri militanti, dai propri iscritti, dai propri simpatizzanti, escludendo però le aziende perché è ovvio che queste non elargiscono denaro «a gratis», per motivi ideali, ma per avere in cambio favori a danno dei concorrenti che a questi mezzi sleali non intendono ricorrere.
Dice: ma i partiti sono l’essenza della liberaldemocrazia. No, ne rappresentano la patologia. Non è certo un caso che tutti i padri «nobili» di questo sistema, da Stuart Mill a Locke a Montesquieu, non ne facciamo mai cenno a che fino al 1920 nessuna Costituzione liberaldemocratica li prenda in considerazione. E si capisce facilmente il perché. Il pensiero liberale voleva valorizzare capacità, meriti, potenzialità dell’individuo. I partiti invece sono, nella migliore delle ipotesi, delle lobbies e nella peggiore, e corrente, delle mafie che favoriscono i propri affiliati proprio a scapiti del singolo che rifiuta questi umilianti infeudamenti e che sarebbe il cittadino ideale di una democrazia, se esistesse davvero, e ne diventa invece la vittima designata.
In ogni caso in Italia i partiti si sono comportati con una tale sfacciata e corretta prepotenza, occupando con arroganza tutti gli spazi della vita pubblica e, spesso, anche privata, da perdere via via agli occhi dei cittadini ogni credibilità che, secondo un recente sondaggio di Mannheimer, è scesa all’8%. Mandiamoli definitivamente a casa... Ne guadagneremo in economia, in etica e anche in serenità non dovendo assistere quotidianamente a sordide lotte di potere che nulla hanno a che fare con la rappresentanza degli interessi dei cittadini.