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Se almeno questo inverno e questi morti ci avessero insegnato qualche cosa…

di Francesco Lamendola - 12/02/2012



 

Se almeno questo crudo inverno e questi morti, da esso provocati, ci avessero insegnato qualcosa; se almeno ci avessero suggerito un minimo ripensamento del nostro rapporto con la natura, del nostro modello di vita, tutto basato sull’economia e sulla crescita…

Ma c’è da dubitarne; specialmente stando agli sproloqui di tanti nostri intellettuali, veri o sedicenti tali, in televisione e sulla carta stampata; al loro grossolano, impudico provincialismo (e diciamo “provincialismo” nel senso peggiore del termine, perché forse ve n’è anche uno accettabile o, comunque, relativamente dignitoso); quel provincialismo meschino, ringhioso, pecoreccio, che ha spinto, per esempio, il direttore de «Il Giornale» a polemizzare con il tedesco «Der Spiegel» sguainando, come una spada, l’equazione incredibilmente stupida, incredibilmente rozza: «a noi Schettino, a voi Auschwitz».

Per chi non lo sapesse - noi non lo sapevamo, l’abbiamo scoperto di recente; quanto meno, non avevamo idea che le cose fossero giunte a un tale punto - la televisione di Stato, fra le quindici e le diciotto circa di ogni santo giorno che Dio manda, è ostaggio di deprimenti salotti frequentati sempre dalle stesse facce, opinionisti un tanto al chilo e tuttologi plurilaureati all’università delle italiche  raccomandazioni, dei maneggi e degli inciuci trasversali e nepotisti, i quali, in questi ultimi giorni, stravaccati sulle loro comode poltrone, hanno dissertato senza pudore e senza vergogna di quest’ultima emergenza invernale.

Distribuendo generosamente pillole di buon senso romanesco e distillati d’ineffabile saggezza salottiera, quei signori hanno monopolizzato per ore, quotidianamente, uno spazio televisivo pubblico, pagato dagli utenti,  e che avrebbe potuto essere adoperato - come ai bei tempi della tv pedagogica degli anni Sessanta, quella del maestro Manzi e dei grandi sceneggiati tratti dalla letteratura mondiale - per inondare le nostre case con fiumi di considerazioni banali e populiste, con logorroici sermoni autoreferenziali e caserecci, con quantità industriali di aria fritta ammantata di parole ed espressioni ad effetto: il tutto con il necessario accompagnamento di teatrali gesticolazioni, occhioni sgranati di finto stupore e di simulata indignazione, sorrisini compiaciuti e ammiccamenti d’ogni genere, magari per far meglio risaltare, davanti alle telecamere, la perfetta messa in piega (i signori) o gli spacchi generosi delle gonne o del décolleté (le signore), trinciando giudizi approssimativi e sentenziando a ruota libera di tutto un po’, sempre più penosamente inebriati al suono delle loro stesse vanterie da strapazzo.

Ma ci piace immaginare - sarà forse un’illusione - che l’Italia vera sia migliore di questa tv da quattro soldi, di questi politici cialtroni e di questi amministratori senza dignità e senza senso del ridicolo - il sindaco di Roma che pretende una commissione d’inchiesta, perché la Protezione civile non lo aveva avvisato delle prossime nevicate -; che ci sia un’Italia vera, onesta, seria, capace di riflettere e di trarre qualche utile insegnamento da questo crudo inverno del 2012.

La prima riflessione che ci sembra giusto fare riguarda il posto dell’uomo nella natura e la sua pretesa di dominarla, manipolarla, piegarla indiscriminatamente ai suoi fini.

L’uomo non è quel padreterno che si è messo in testa di essere, dall’epoca dei Lumi in avanti; la Terra non è semplicemente la dispensa cui attingere a volontà le materie prime che gli servono, né la discarica in cui vomitare senza misura i suoi prodotti di rifiuto; è la sua dimora ospitale e accogliente, ma anche severa, in cui non è lui a fissare le regole del gioco, per il fatto evidente che egli non è altra cosa dalla natura, né può porsi al di sopra di essa, ma ne è parte; e pertanto la deve assecondare, deve saperla rispettare, deve saperla ascoltare.

Da ciò deriva che l’inverno, per quanto duro o eccezionale possa sembrarci, non fa altro che il suo eterno mestiere: siamo noi che non sappiamo adeguarci ad esso, perché troppo abituati a crederci al sicuro contro ogni imprevisto, grazie alla tecnologia; oppure siamo noi che, con le varie forme di inquinamento, provochiamo irresponsabilmente gli squilibri ecologici che si manifestano anche sotto forma di anomalie climatiche stagionali.

Se l’inverno ci ha sorpresi a tradimento, isolando paesi e borgate, facendo saltare le comunicazioni, bloccando treni e veicoli privati in un alto strato di neve, è perché ci eravamo ormai abituati all’idea che tutto ci sia dovuto, che la natura sia stata ammansita e soggiogata, che basti premere un pulsante per avere, sempre e comunque, calore, luce elettrica e acqua potabile a nostra disposizione: e ora ci siamo accorti che non è vero, che nulla è scontato e nulla ci è dovuto.

I barboni che sono morti congelati sulle panchine, così come le persone che hanno preso la polmonite e sono morte mentre uscivano per fare la spesa o per cercare di recarsi al lavoro, non sono state uccise dall’inverno; l’inverno ha altro da fare che uccidere la gente: sono morte perché la nostra organizzazione sociale è fragile; e, al di là di questo, sono morte perché l’essere umano è una creatura fragile in se stessa, non è invulnerabile, non è onnipotente, come da troppo tempo si era abituato a credere; e le forze della natura non sono minimamente obbligate ad inchinarsi davanti a lui, a riconoscere la sua pretesa signoria.

L’uomo è fragile, l’uomo si ammala, l’uomo muore: muore perché è mortale e, strano ma vero, arrivato a un certo punto, deve morire: sarebbe meglio che ci abituassimo a questa idea, così come ci si erano abituati i nostri nonni e i nostri antenati, i quali non davano nulla per scontato: né una vita media di ottant’anni, né il calore del termosifone (che allora non c’era), né il pronto intervento di spazzaneve e spargisale (che non c’erano neppur essi) e che, proprio per questo, sapevano apprezzare la vita al suo giusto valore e consideravano un dono tutto ciò che essa offre, un dono per cui si ricordavano di ringraziare Iddio; né si sognavano di mostrare i pugni e di lanciare imprecazioni se la vita si riprendeva quel che aveva dato in prestito.

Un ragionamento onesto su questo freddissimo inverno, dunque, deve necessariamente articolari su due livelli: uno interno al sistema sociale e culturale vigente, uno esterno ad esso.

Se ci poniamo dal punto di vista della modernità, allora modernità vuol dire efficienza, rapidità, capacità produttiva inalterata, a dispetto di qualsiasi mutamento delle condizioni esterne: e dunque, lo spettacolo della capitale di un grande stato paralizzata da qualche centimetro di neve, peraltro largamente annunciata, significa una cosa soltanto: che l’Italia non è veramente entrata nella modernità e che deve fare ancora parecchia strada, se vuole entrarci per davvero; in questo senso, anche le ultime vicissitudini legate alla crisi economico-finanziaria trovano una spiegazione profonda e non solo estemporanea.

Se, invece ci poniamo da un punto di vista esterno al sistema produttivo vigente e alle categorie fondamentali della modernità, criticandole in modo radicale i presupposti filosofici- lo sviluppo illimitato, l’economicismo esasperato, l’equazione fra benessere materiale e benessere reale e complessivo della persona umana -, allora non vi è dubbio che dobbiamo trarre un importante insegnamento dalle vicende di questi ultimi giorni: un insegnamento fatto di umiltà, di rispetto, di capacità di ascolto nei confronti della natura ed un completo ripensamento, se necessario anche spietato, del ruolo che noi pretendiamo di svolgere rispetto ad essa.

È una banalità e una sciocca semplificazione, oltre che una forma di pensiero ingenuamente antropomorfo, affermare che la natura si sta ribellando al giogo che gli uomini hanno preteso di imporle: gli uomini non sono in grado di imporre nessunissimo giogo; figuriamoci, si è visto con lo tsunami dell’Oceano Indiano: gli uomini, con tutta la loro più sofisticata tecnologia, non sono nemmeno capaci di rendersi conto in tempo utile delle forze immense che possono abbattersi su di loro in un istante; mentre gli animali, per esempio, le sentono con istinto infallibile e corrono a mettersi in salvo.

Il problema, pertanto, non è che la natura si stia ribellando all’uomo; il problema è che l’uomo continua imperterrito a sopravvalutarsi, sia quando agisce, dissennatamente, contro di essa, cioè contro se stesso, sia quando è assalito da temporanee crisi di resipiscenza e da fugaci e superficiali sensi di colpa: l’uomo, davanti alla natura, è quasi nulla: bastano pochi anni, pochi secoli, pochi millenni - che sono quasi nulla su scala geologica - e tutte le sue opere scompaiono; di più: basta alzarsi di poche centinaia di metri dalla superficie terrestre, per esempio a bordo un pallone aerostatico, e le voci degli uomini, i loro rumori, il loro affannoso, scomposto agitarsi, non sono più nemmeno udibili, come se gli uomini e le loro opere non esistessero affatto.

Tale è la pretesa signoria dell’uomo sul mondo: sogno e illusione, puerile delirio di grandezza; e null’altro.

Ciò non significa che l’uomo sia una creatura insignificante; tutt’altro: non dobbiamo precipitarci da un eccesso a quello opposto; e, così come lo abbiamo esaltato fino alle stelle, gettarlo ora nella polvere e nel fango. Questa sarebbe una reazione puramente emotiva, indegna di un essere pensante e fornito di senso critico: perché il senso critico ci fa accorti che, per ogni cosa, esistono più angoli visuali da cui osservarla e valutarla, mai uno solo.

L’uomo, dunque, non è un nulla; egli è qualcosa, qualcosa di importante, di prezioso: è capace di libertà, è capace di volontà, è capace di pensiero, di amore di bellezza. Non è, però, autosufficiente; non può pretendere di farsi misura del creato; non può aspirare a farsi il Dio di se stesso, pena la propria distruzione.

Non solo. Egli ha un compito da svolgere, non è stato gettato a caso nel mondo; ha una vocazione da ascoltare e riconoscere; ha una meta da raggiungere, un obiettivo da perseguire, senza il quale la sua missione è mancata, il suo significato è vanificato; e non può riconoscere tale chiamata, non può realizzare tale missione, fino a quando, gonfio di orgoglio, continuerà a credersi onnipotente e a scimmiottare le pose di un Dio.

Non è necessario che egli vada lontano, perché gli divenga chiaro il motivo per cui è stato chiamato e il compito che lo aspetta in questa vita: basta che faccia un po’ di silenzio in se stesso, che  metta a tacere gli inutili rumori con i quali è solito stordirsi, forse proprio per non udire ciò che, nella sua presunzione e nella sua pigrizia, non vorrebbe udire: la voce del maestro interiore.

Il maestro interiore parla sempre, siamo noi che abbiamo disimparato ad ascoltarlo; e non vi è ambiguità, non vi è possibilità di equivoco nelle sue parole, come ve n’erano, invece, nei responsi degli oracoli antichi.

La voce del maestro interiore è la voce divina che parla in noi stessi: ascoltarla e tradurla in pratica significa realizzare la nostra essenza, inverare la nostra parte più vera e più profonda, mettendo da parte la nostra parte effimera e superficiale, cui dedichiamo, sovente, assai più attenzione di quanta non ne meriterebbe.

L’inverno che noi dovremmo temere realmente, l’inverno che dovrebbe farci più paura, non è quello esterno, che viene dalla gelida Siberia e dalla ventosa Mongolia e porta con sé la neve e il ghiaccio, ma quello interiore, quello dell’anima: è il gelo della nostra umanità, della nostra giustizia, della nostra inesausta ricerca di verità, di bontà e di bellezza.

Senza questa aspirazione, senza questa ricerca e senza la capacità di sacrificio che esse richiedono da parte nostra, la nostra vita non ha senso: passerà come una meteora nel cielo notturno, brillerà per un poco e poi si spegnerà nel buio, per sempre.

Ne abbiamo, di gelo e di ghiaccio, nelle profondità della nostra anima, che dovremmo sciogliere al calore del fuoco crepitante, per tornare ad essere umani, cioè per tornare ad essere noi stessi: libere farfalle finalmente, e non più soltanto grossi bruchi, goffi e sgraziati.

Il fuoco che ci può realmente riscaldare, che può sciogliere il crudo inverno della nostra anima, è già in noi, una brace che cova sotto la cenere: è la nostra parte divina che attende un segnale da parte nostra, un gesto, uno sguardo, una parola, per ridestarsi e alzare nuovamente le sue fiamme, sprigionando luce e calore.

Non è troppo tardi per farlo, non è mai troppo tardi; per quanti errori abbiamo fatto, per quante strade ingannevoli abbiamo già percorso, siamo ancora in tempo a ritrovarci…