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Il mammone killer fra cronaca e tragedia greca

di Stenio Solinas - 12/02/2012


In ... e ora parliamo di Kevin le colpe di un ragazzino ricadono sulla madre, una Tilda Swinton in stato di grazia

Mentre in Italia infuria il dibattito sui figli mammoni e bamboccioni, arriva un film che invita a considerare anche un altro aspetto del problema. Si intitola ... e ora parliamo di Kevin e tratta dei mostri che, senza accorgercene, alleviamo in casa: violenti, sadici, assassini...
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Se si presta un occhio non distratto alle cronache, ci si rende conto che nell’ostinarci a definirle «eccezioni» abbiamo perso di vista il filo rosso di un’agghiacciante «normalità». Ragazzi che si sbudellano per una «mancanza di rispetto» o che sbudellano chi vorrebbe ricondurli alla ragione, stupri di gruppo, omicidi rituali, minorenni che sterminano la loro famiglia, che giustiziano il o la rivale in amore, che mettono a ferro e a fuoco una scuola, una città. Ne vogliamo parlare? Già. «Bisogna che parliamo dei ragazzi» dice di solito la moglie al marito quando c’è qualcosa che non quadra: un eccesso di ribellione o di apatia, difficoltà scolastiche, violenze ritenute gratuite, paure ritenute infantili... Fra i genitori c’è sempre chi ingrandisce i problemi e sempre chi li minimizza, ma al fondo resta l’idea che la famiglia sia una sicurezza, il pericolo sia esterno e non interno e per fare andare bene le cose occorra soprattutto qualche piccola rinuncia in nome del bene comune... Intanto i figli crescono, ti illudi di conoscerli, ma senti che ti sfuggono, pensi di far bene la tua parte, educatore e insieme fonte d’affetto, ma sai che per loro hai rinunciato a qualcosa di te, hai pagato un prezzo e a volte ti viene da chiederti se non sia stato un prezzo troppo alto... Soprattutto, ti rendi conto che si viaggia su lunghezze d’onda differenti: ti credi ancora giovane, ma la loro giovinezza ti appare misteriosa, li vedi come eterni ragazzi, e loro non si ritengono più tali: la tecnologia allarga il fossato dell’incomprensione, la routine permette di eludere i problemi e come un mantra continuiamo a dirci che no, non c’è da preoccuparsi, è un disagio tipico dell’età, in fondo anch’io ero così, passerà tutto, tutto si aggiusterà... Quando poi l’irreparabile avviene, si resta inebetiti, si sprofonda in un abisso che sa di vergogna e di colpevolezza. Perché proprio a me, cosa ho fatto di male per meritarmi questo? In che cosa ho sbagliato per meritarmi questo?
Kevin di Lynne Ramsay, con una superlativa Tilda Swinton, racconta proprio i rischi esplosivi che derivano dal perdere il contatto con i propri figli. Qui c’è un adolescente (il gelido e antipatico Ezra Miller) che un bel giorno entra nel suo liceo, ne blinda le porte con lucchetti da bicicletta e poi con arco e frecce fa strage dei compagni di scuola. Le avventure di Robin Hood era l’unica lettura con cui sua madre era riuscito a far breccia nella sua resistenza di bambino e, crescendo, il padre (John Reilly) gli aveva regalato archi sempre più professionali. È un mostro, Kevin, l’emblema del male, un essere patologicamente portato alla distruzione di ciò che lo circonda?
Negli ultimi anni le cronache hanno portato alla ribalta queste esplosioni di violenza, di solito conclusesi con la morte, di propria mano o per opera della polizia, del massacratore in erba. Qui, invece, il ragazzo non si suicida né viene ucciso: si fa docilmente arrestare, quasi assaporando la propria resa: ha appena sedici anni, non passerà il resto della sua vita in galera... Tilda Swinton è Eva, la madre. È una che ha girato il mondo, ha scritto libri di viaggio, pensa di conoscere la vita. Quando si sposa, il marito le chiede di piantare radici: Kevin è un figlio voluto, eppure inconsciamente è anche l’ostacolo insormontabile che l’ha costretta a un cambiamento radicale. Lei gli si è comunque dedicata anima e corpo, ma resta un’ostilità sorda, mai dichiarata e sempre presente.
Per certi versi Kevin è una tragedia greca e il fisico quasi anoressico della Swindon, il cui pallore naturale nel film è accentuato per contrasto da un colore scuro di capelli, rimanda a quelle Euridici della classicità, sopravvissute agli olocausti familiari e però inseguite e perseguitate da ciò che si è loro abbattuto sopra, impossibilitate a non convivere con la colpa, l’impossibilità di un riscatto e persino di un’espiazione.

Il restare, nonostante tutto, vicino al figlio la isola ancora più dalla comunità in cui vive: se è mostro lui, lo è anche lei che lo ha messo al mondo... Nel film, due rappresentati di sette religiose si presentano ignari alla sua porta per chiederle come vede il mondo che ci aspetta dopo morti, cosa pensa ci sia. La riposta è lapidaria: «L’inferno. Condannata in eterno».
Oltre trent’anni fa Robert Bresson fece un film che aveva per protagonista un ragazzo solitario, scontroso, Charles, conscio della propria diversità. Ha provato ogni cosa, dal sesso alla politica attiva, alla droga, ma sempre con l’atteggiamento di superiorità aristocratica che gli ha permesso di uscire indenne da ogni dramma per riaffermare se stesso e il proprio disprezzo verso il mondo circostante. Non è un animale da gruppo (infatti il «gruppo», pur ammirandolo, lo evita), la sua superiorità e la sua ricerca di assoluto è tale e tanta da non accettare mezze misure: esige tutto dalla vita, fino alla scelta estrema della morte. Il film si intitolava Il diavolo probabilmente. Visto con gli occhi del presente, è un film angelico.