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Lenta la neve fiocca…

di Francesco Lamendola - 13/02/2012


 


 

Questa mattina presto ha incominciato a cadere la neve, a falde sempre più larghe e fitte; tanto che, nel giro di un paio d’ore, il paesaggio si è interamente imbiancato.

Adesso la neve continua a fioccare, ora lenta, ora più veloce, quasi orizzontalmente, portata da un vento freddo che soffia silenzioso e quasi invisibile, perché non scuote i rami, né sfoglia le pagine del libro che è rimasto, dimenticato, sul ripiano di marmo della finestra.

A tratti si direbbe che esso prenda la rincorsa, e allora i fiocchi volano più veloci, sempre più veloci, si susseguono a ondate e si avventano come soldati verso le trincee nemiche, piegano in basso e tornano bruscamente indietro, come se una forza misteriosa li respingesse; poi subito si riprendono e ricominciano a correre in avanti, incrociandosi e mescolandosi con quelli che ancora flettono e deviano il loro volo, confondendo la vista con la loro sarabanda in perpetuo movimento, che d’un tratto, come per magia, sembra sospesa nell’aria, né avanti né indietro, né in su né in giù, quasi sottratta alle leggi della materia e proiettata in una dimensione senza tempo.

È bello perdere lo sguardo in questa danza silenziosa e allusiva, che scrive caratteri arcani nello spazio servendosi di un alfabeto armonioso, ma ormai dimenticato e quindi indecifrabile; è bello lasciarsi portare da questo flusso, da questo turbine, da questo caleidoscopio di finissimi, meravigliosi cristalli di ghiaccio, sottili come le ali d’un sogno, senza peso e quasi senza materia, e pur sontuosi nella loro perfetta, sapiente geometria.

A momenti sembra che la corsa rallenti, che le bianche, minuscole falangi si diradino, che stia quasi per smettere di nevicare; ma subito dopo nuove ondate si susseguono, più dense, più compatte, più veloci, come se provenissero da una sorgente inesauribile, come se dal primo giorno del mondo non avesse fatto altro che nevicare, nevicare, nevicare, giù da questo cielo grigio e plumbeo, chiuso e compatto, quasi che il sole non lo avesse mai rischiarato da tempi immemorabili.

Lo spazio si moltiplica, si dilata, si restringe, si dilata e si restringe ancora, e ancora e ancora, sempre più svelto, sempre più svelto; poi rallenta, rallenta, pare sul punto di fermarsi e restituire alle cose le loro proporzioni di sempre; ma ecco che ricomincia a ruotare in fretta, in fretta, in fretta, e afferra lo sguardo e lo porta con sé a danzare, fuori dal tempo, in un tempo senza tempo, in una infanzia che non è l’infanzia, in una eternità che non è l’eternità - non ancora.

È come quando ci si ferma sulla riva di un fiume, in primavera, dopo che le acque si sono ingrossate per le piogge recenti; è come quando si sosta presso una cascatella, un mulinello, un punto in cui il flusso della corrente urta contro i ciottoli a fior d’acqua e si crea un movimento che non è movimento, pare quasi che le onde tornino indietro, che l’andare avanti e il tornare indietro si confondano, si sovrappongano, si abbraccino in un tremolio che non è di questo mondo, perché in questo mondo le cose o vanno avanti o vanno indietro o stanno ferme, non ci son altre possibilità e, se ci fossero, noi non le vedremmo, non le capiremmo, non le accetteremmo.

Così la neve che ora scende silenziosa e mulinante, che si materializza sotto le grondaie delle case e contro i tronchi dei platani, e par che erompa dal nulla per inondare il mondo con la sua danza solenne e incomprensibile, bella di una bellezza aliena, che ci sfugge, che rimanda a qualcos’altro di cui non abbiamo il codice, non possediamo le coordinate, e perciò non possiamo fare altro che guardarla e ammirarla, stupiti di uno stupore primigenio, affascinati da un fascino che viene da altri mondi, da altri piani di realtà, non dal nostro d’ogni giorno.

I tetti sono tutti bianchi, bianchi i muretti, bianchi gli orti e i giardini, bianche le strade; eppure i fiocchi seguitano a scendere obliquamente, come viaggiatori di un treno misterioso, non possono fermarsi, non possono guardarsi attorno, vanno e non sanno perché stiano andando, eppure vanno sempre più decisi, sempre più rapidi, sempre più ipnotizzati da una qualche loro canzone che noi non possiamo udire, possiamo a stento immaginarla e già l’abbiamo scordata.

 

*   *   *

 

La danza della neve assomiglia alla danza della vita.

Anche gli uomini vanno avanti, ora lentamente, ora correndo, poi bruscamente tornano indietro, poi riprendono ad avanzare; ma, a osservarli dall’esterno, sembra che stiano fermi, sembra proprio che non procedano né avanti né indietro; eppure si muovono, questo è certo, si agitano, si affannano, consumano moltissime energie.

Dove corrono, dove si affrettano, cosa stanno inseguendo? Quale miraggio di bene li ha presi, li ha spronati, li ha trascinati, per poi subito abbandonarli e lasciarli svuotati ed esausti, come vele senza vento, in attesa della prossima raffica, della prossima illusione, della prossima corsa, tanto precipitosa quanto inutile?

Sembrano proprio dei fiocchi di neve impazziti nella loro danza turbinosa, portati di qua e di là, senza sosta, senza pace, senza un vero perché; e fanno pena, in quel loro incessante avventarsi e ritirarsi, come le onde che si frangono sugli scogli, sollevando alti spruzzi di spuma.

Eppure, da un certo punto di vista, si tratta di una danza armoniosa: non tanto per il singolo fiocco di neve, ma per l’insieme della nevicata: l’impressione complessiva è di leggerezza, di poesia, di bellezza.

Il segreto è tutto qui: saper vedere le cose nel loro insieme, nella loro interezza; non fermarsi al particolare, non fermarsi al contingente: l’armonia e la bellezza sono ovunque, è la nostra capacità visiva che, troppe volte, si rivela debole e inadeguata.

Quell’evento che, lì per lì, ci è apparso privo di significato; quella esperienza da cui non abbiamo ricavato che fatica e sofferenza, non sono stati inutili, perché nulla è superfluo, nella vita; tutto ci aiuta a formarci, tutto ci viene offerto come un’occasione di crescita spirituale: anche il male, anche la tentazione del male morale, ovviamente per imparare a riconoscerlo e a tenercene lontani, sapendo quanto esso sia forte, così come il saggio alpinista non sfida mai senza ragione una difficile parete rocciosa, non tenta mai l’arrampicata contro il ghiaccio e le slavine, ma, semmai, attende la stagione favorevole ed il momento propizio.

Un disegno armonioso presiede alla trama della vita, anche se non ce ne rendiamo conto, anche se talvolta ci sembra di girare in tondo, assurdamente; anche se talvolta ci sembra di aver smarrito la strada, di andare a casaccio, di sbattere contro cento e cento ostacoli; per coglierne la sapienza, bisogna allontanarsi, guadagnare una certa prospettiva.

Finché siamo immersi nelle cose, difficilmente riusciamo a vedere più in là del nostro naso; finché siamo trascinati dalle nostre passioni, dalle nostre paure e dalle nostre brame, siamo come dei ciechi che vanni a tentoni, anche quando ci sembra di vedere benissimo: perché non vi è cieco più negato alla luce di colui che crede di avere buona vista, mentre i suoi occhi sono chiusi.

Solo quando è trascorso il tempo, solo quando abbiamo oltrepassato il guado, ritroviamo la giusta distanza prospettica e ci accade di sorridere di quelle cose che, a suo tempo, ci avevano tanto spaventati o tanto attratti, tanto angustiati o tanto confortati; solo quando è trascorso il tempo e noi ci siamo aperti al ripensamento di noi stessi.

Non sempre, infatti, il trascorre del tempo porta con sé la chiarezza, apre lo sguardo e lo rende limpido;: vi sono persone per le quali le esperienze fatte scivolano via senza lasciare una traccia apparente; forse, in esse, rimane un seme silenzioso, che sputerà fra un anno, fra dieci o fra quaranta, chi può dirlo, chi può saperlo: poco vediamo, e crediamo di vedere molto; poco sappiamo e poco comprendiamo, e ci sembra di sapere e di capire tanto.

Dovremmo fidarci di più della saggezza nascosta della vita: non perché essa abbia il potere miracoloso di rimediare a tutti i nostri errori, ma perché, fidandoci di essa, forse ne commetteremmo meno, o forse riusciremmo a trasformarli in occasioni di bene; forse diventeremmo persone migliori, e impareremmo a perdonare e a compatire.

Perché una vita senza compassione, per sé e per gli altri, è come una nave senza bussola e senza timone: neppure il più valente capitano riuscirebbe a mantenerla sulla giusta rotta, quando sale la nebbia o quando calano le ombre del crepuscolo.

 

*   *   *

Ora la danza della neve si è fermata e un debole chiarore s’intravvede nel cielo grigio, non si sa se sia reale o una semplice illusione dei sensi.

Il freddo, frattanto, è aumentato; soffia un venticello gelido che taglia la faccia e penetra sotto gli abiti, si insinua inesorabile, come se per lui non esistessero pareti.

L’aria si è fatta un po’ più limpida e le montagne vicine, per la prima volta, appaiono tra gli squarci delle nuvole basse, accovacciate e pur solenni, come fossero in preghiera.

Il biancore si diffonde tutto intorno, balena allo sguardo e trasfigura ogni cosa in un gelido abbraccio dai riflessi d’alabastro.

Silenzio, quiete.

È domenica, una domenica mattina di febbraio smarrita nel grigiore e nel ghiaccio di un inverno che viene da lontano, dalla taiga sferzata dai venti polari e dai deserti strani della Mongolia, che nascondono l‘eco di cento città morte, nascoste nelle sabbie del passato, sprofondate nel silenzio delle caverne sotterranee ove regna il Re del Mondo.

È domenica e il mondo tace, come per incanto; rare le persone, rare le automobili, raro ciò che si muove, a parte la nevicata che scendeva a larghe falde e che ora si è fermata, stupefatta, quasi sorpresa di essersi spinta così avanti.

Un senso di pace scende nell’anima, come quando risuonano, sotto le volte della cattedrale, lungo le altissime navate e presso le vetrate scintillanti, le note dell’organo di una fantasia di Bach, di una fuga, di una passacaglia, facendo tremare di gioia e commozione la nostra parte più riposta, ma più vera e più profonda.

È domenica, e questa abbondante nevicata è stata come una preghiera: la preghiera del cielo per santificare la festa, per scandire il bisogno d’un tempo sacro, d’un tempo fuori del tempo ordinario, fatto, quest’ultimo, di piccole cose forse necessarie, forse superflue, comunque tali da assorbirci e da distoglierci da ciò che è essenziale.

Ora questa neve che fiocca lenta, questo paesaggio immacolato e trasognato, tutto bianco, sono venuti a bussare al nostro cuore di pietra, per trasformarlo in un cuore di carne; a bussare a quest’anima raggrinzita e congelata, per scioglierla e ridestarla al tepore e alla dolcezza della vita che scorre armoniosa, consapevole d’essere parte del gran tutto.

Perché il segreto è proprio qui: noi siamo i cittadini di un regno splendente e incorruttibile, che si credono stranieri e fuggiaschi e che mendicano qua e là un tozzo di pane, come sbandati, come profughi emersi da una prova crudele e incomprensibile; potremmo avvolgerci in calde vesti e sedere su morbidi tappeti, invece ci trasciniamo a fatica, coi piedi piagati, lungo strade taglienti e lande allucinate, stanchi, disfatti, demoralizzati.

Vediamo la neve che si scioglie e che diventa fango e pensiamo che anche noi finiremo così, che ci scioglieremo e diventeremo fango, come ogni cosa, da sempre.

Abbiamo dimenticato il segreto; dobbiamo tornare ad impararlo, a scoprirlo.

Il segreto è dentro di noi, non fuori: non lo troveremo camminando e procedendo, ma tornando in noi stessi, aprendo gli occhi su ciò che si racchiude entro di noi.

Per trovarlo, dunque dobbiamo ritrovarci:; ma non ci ritroveremo se non ritroveremo l’altro, se non udremo le sue parole, se non avremo compassione del suo dolore.

Dobbiamo imparare a rispondere alla voce che ci domanda conto di nostro fratello: è la voce più importante di tutte, anzi è la sola voce; tutte le altre non sono che voci illusorie, suoni e rumori senza eco, richiami di Sirene che faremmo meglio ad ignorare.

C’è ancora tempo, ci sono ancora sufficienti ore di luce.

Il giorno non sarà finito, prima che ci siamo ridestati alla voce che ci chiama.