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Lo star-system è un Moloch sempre assetato di sangue umano

di Francesco Lamendola - 14/02/2012


 

 

La notizia improvvisa della tragica morte di Whitney Houston, la leggendaria regina della musica pop americana, ha colpito in pieno non solo i suoi molti ammiratori, ma anche quanti non avevano che una vaga conoscenza di lei, vuoi per ragioni anagrafiche (ella aveva toccato il vertice della celebrità nell’ormai lontano 1992, con l’interpretazione del film «The bodyguard», la cui colonna sonora vendette 42 milioni di copie in tutto il mondo: il più grande successo musicale di ogni tempo), vuoi per ragioni di preferenze personali.

Sembra che la Houston, soprannominata “The Voice” per la morbida, stupenda sensualità del suo timbro vocale, non sia annegata nella vasca da bagno dell’albergo di Beverly Hills, come avevano annunciato in un primo tempo le agenzie di stampa, ma che sia stata stroncata da un miscuglio micidiale di Xanax e alcool, miscuglio al quale l’artista quarantottenne era purtroppo da tempo assuefatta.

Una fine come quella di Marylin Monroe, dunque, o come quella di Michael Jackson e di tanti altri e tante altre, magari meno celebri, che lo star-system americano continuamente produce; per non parlare di tutti quegli artisti - cantanti e attori specialmente, ma anche fotomodelle - i quali, pur non arrivando alla morte fisica, si distruggono lentamente con le droghe e i superalcolici, incapaci di tenere il passo con un meccanismo disumano che li lancia e li brucia in fretta, dopo averli spremuti al massimo delle loro risorse fisiche e psichiche, del tutto incurante del loro vero essere e unicamente proteso a trasformarli in icone usa-e-getta, con cui accalappiare il pubblico e realizzare profitti a molti zeri.

Potremmo fare decine di nomi, famosi e meno famosi, che lo star-system ha distrutto e gettato nel cestino, procedendo inesorabile nella sua marcia verso la creazione di sempre nuovi miti da adorare, di sempre nuovi idoli da porre sul trono, salvo poi disfarsene al primo segnale di cedimento: eppure c’è sempre un esercito di aspiranti al successo, uomini e donne, che sarebbero pronti e disposti a fare qualsiasi cosa, ma proprio qualsiasi cosa, pur di arrivare a mettere il piede sul palco delle celebrità; pur di inebriarsi nel bagno di folle deliranti che vanno letteralmente in deliquio, che sono pronte ad attendere ore e ore per assicurarsi una buona posizione e che si scalmanano e si azzuffano per giungere a toccare il bordo della veste dei loro beniamini, come mai non accadeva, in pieno Medioevo, al passaggio dei più venerati uomini di Dio.

In fondo, si tratta dello stesso meccanismo che regola il mercato mondiale della merce firmata: è il marchio che fa la differenza, non la bontà intrinseca del prodotto; e il consumatore, ridotto a bove o a pecora che segue docilmente il richiamo del padrone, è disposto a pagare qualunque cifra pur di assicurarsi il feticci, che la presenza di un marchio, ossia di una qualità immaginaria, rende ai suoi occhi così prezioso e così diverso da un prodotto qualsiasi.

E come la merce firmata, obbediente ai dettami della moda, si usura in fretta e viene continuamente accantonata e sostituita (anche se ancora perfettamente funzionale e addirittura, in moltissimi casi, ancora praticamente nuova), così anche i simboli umani dello star-system, che non sono più uomini e donne in carne ed ossa, ma icone disincarnate, puri simboli di successo e di “modernità”, vengono continuamente fagocitati da quello stesso meccanismo che li ha creati, e che poi cinicamente se ne disfa, vero e proprio Moloch dei tempi moderni, idolo assetato di sangue umano, come lo era il Baal dei Fenici o lo Huitzilopochtli degli Aztechi.

Il dramma della modernità, infatti, è questo: che quando si è smesso di credere in qualunque cosa, si finisce per credere a tutto, per genuflettersi davanti a tutto, per adorare tutto.

Indagare che cosa ci sia realmente dietro le vite, apparentemente baciate dal successo, degli uomini e delle donne che lo star-system promuove al rango di idoli da adorare, sarebbe penoso e non aggiungerebbe gran che all’assioma fondamentale dell’usa-e-getta: la Houston, per esempio, aveva alle spalle un matrimonio disastroso con un uomo violento, una dipendenza ormai cronica dalle sostanze stupefacenti, una clamorosa causa legale con il padre, il quale l’aveva trascinata in tribunale per questioni di soldi: i due erano perfino apparsi in televisione ad esporre le rispettive ragioni (quanto ama, il pubblico americano, queste vergognose corride umane, ancora più crudeli di quelle contro i tori), conclusasi peraltro a favore di lei.

Nessun legame, familiare o affettivo, è sacro, anzi, nessun legame è degno del benché minimo rispetto, quando lo star-system afferra una persona e ne fa un personaggio, cioè un divo (o una diva): a partire da quel momento scompare il senso della realtà, scompaiono le regole della vita quotidiana, i valori, i doveri morali, il senso della responsabilità individuale: tutto è sommerso dall’incalzare di un mondo artificiale, smodato, dove ogni cosa è eccessiva, eccessivi i guadagni ed eccessiva la perdita di intimità e di senso etico. Il personaggio è una ex persona, una specie di androide, una creatura artificiale scagliata a velocità vertiginosa, a bordo di un veicolo senza freni e senza guidatore, verso la pressoché inevitabile autodistruzione.

L’importante è che le masse abbiano sempre il loro Vitello d’Oro da adorare, abbiano sempre il portafoglio pronto per spendere qualsiasi cifra per un concerto, per recarsi a una prima cinematografica, per acquistare un capo di vestiario sfoggiato dal loro idolo o per acconciarsi i capelli come lui (o come lei): ciecamente, a testa bassa, senza un’ombra di senso critico, senza una sia pur minima riflessione sul significato di ciò che stanno facendo, sulla opportunità delle mode che stanno pedissequamente seguendo.

Lo star-system, a sua volta, non è che una delle molte facce, delle molte espressioni di un sistema economico e finanziario planetario che si basa sulla speculazione, sulla finzione pubblicitaria eretta al rango di legge universale, sulla somministrazione di beni illusori, frutto di bisogni artificiali, rastrellando, in cambio, il denaro prodotto dall’onesto lavoro dei cittadini comuni, denaro vero e non denaro fasullo come quello rilasciato dalle banche, sotto forma di titoli e azioni.

I divi e le dive dello spettacolo, al di là delle loro doti professionali e artistiche, nel momento stesso in cui entrano a far parte dello star-system non valgono più per quello che sono, ma per quello che rappresentano, esattamente come un capo di vestiario firmato, come una borsa firmata o come un paio di scarpe firmate: e le loro prestazioni, le loro comparse come ospiti  strapagati nel corso di spettacoli internazionali (per esempio, al Festival di Sanremo), le loro apparizioni pubblicitarie in televisione o sulla carta stampata, non vengono retribuite in base a ciò che effettivamente valgono, ma a quello che essi rappresentano.

Da ciò i loro immensi cachet, i quali, tuttavia, sono solo dei poveri spiccioli in confronto alle somme da capogiro che essi fanno guadagnare ai loro impresari, alle loro case discografiche, alle loro case di produzione cinematografica e via dicendo: un sistema perfettamente oliato e collaudato, per spremere sempre più denaro dalle persone comuni, che forse fanno fatica ad arrivare alla fine del mese con i loro salari e le loro pensioni, e per rendere sempre più ricche poche migliaia di persone in tutto il mondo, che sono già favolosamente ricche e che non investono i loro capitali in attività produttive, creando posti di lavoro, ma in proprietà immobiliari, in rendite fondiarie, in titoli e azioni e in manovre speculative di borsa, capaci di produrre il tristo prodigio, fieramente condannato dal “buio” e “barbaro” Medioevo, per cui il denaro crea sempre nuovo denaro a vantaggio di pochissimi, semplicemente sfruttando il fattore tempo.

Certo, è bella la voce vellutata e armoniosa di Whitney Houston, mentre la sentiamo cantare l’indimenticabile motivo di «Y will always love you»; è affascinante, è struggente: ma sarebbe estremamente ingenuo vedere in essa soltanto la bravura di una cantante o quella di un compositore, o di una orchestra, o anche - come in questo caso - la scelta azzeccata di una produzione cinematografica.

Dal momento in cui un artista entra a far parte dello star-system, ciò che egli fa e ciò che crea non è altro che merce, una merce che viene confezionata sapientemente e venduta, secondo modalità e meccanismi studiasti da équipe di professionisti, non per quello che è, ma per quello cui allude il contesto in cui è inserita.

In altre parole, le dinamiche di vendita dello star-system sono perennemente autoreferenziali: una canzone, un film, una sfilata di moda di alto livello, non vendono, in realtà, merci, ma sogni e illusioni: la loro caratteristica specifica è quella di far sognare; ma sono sogni a pagamento, non sogni innocenti, preconfezionati con lo scopo preciso di fare breccia nel sentimentalismo deteriore e nel bisogno di evasione della gran massa del pubblico.

Esattamente come i marchi della merce prodotta dalle grandi aziende mondiali dell’abbigliamento, della cosmesi, della calzatura: ciò che il consumatore paga non è il valore reale, ma il valore immaginario: sogni, fantasticherie, illusioni, create dall’imponente macchina pubblicitaria ed entrate a viva forza nell’immaginario collettivo; è il processo psicologico del transfert, per cui l’uomo e la donna comuni, indossando un capo firmato, si sentono di riflesso un po’ speciali anch’essi, si sentono belli e famosi come il divo o la modella che lo reclamizza.

È un processo totalmente irrazionale, perché, sul piano razionale, tutti sanno benissimo che non è così, tutti sanno che si tratta di una vera e propria fantasticheria: eppure è provato e dimostrato che l’opera martellante della pubblicità funziona, che le persone comprano di preferenza i prodotti che vedono reclamizzati in televisione e indossati dai divi dello spettacolo. Si tratta, perciò, di un incretinimento consapevole, di una fuga cosciente dall’intelligenza, dal buon senso e perfino dalla necessità: perché molti consumatori si sottopongono a sacrifici enormi per concedersi oggetti di cui non avrebbero realmente bisogno e che, comunque, potrebbero acquistare a prezzi tre volte, sei volte più bassi, di qualità intrinseca altrettanto buona, ma privi del marchio e, pertanto, di quell’alone fantastico che li rende così irresistibili.

È stato detto, e giustamente, che l’uomo non può vivere senza sognare: lo sanno bene gli aborigeni australiani - il popolo più antico e, probabilmente, il più saggio del mondo - i quali affermano che, quando un essere umano perde i propri sogni, perde anche se stesso; e lo sapeva Miguel de Cervantes, uno dei più grandi scrittori della civiltà occidentale, il quale, nel suo immortale «Don Chisciotte», ci ha ricordato la medesima verità.

Tuttavia, vi sono sogni e sogni; non tutti i sogni sono hanno lo stesso valore e non tutti sono necessari, anzi, non tutti fanno bene agli esseri umani.

I sogni indotti dall’industria consumista e dallo star-system sono sogni di morte: distruggono chi li incarna, ossia i divi e le dive del momento, e anestetizzano pericolosamente le pecore da tosare, ossia il pubblico che corre ad adorare i feticci della nuova religione. Né il danno, per il pubblico, si limita alla dimensione materiale.

Quando la massa si lascia completamente irretire dai sogni indotti dall’industria del consumo e veicolati dallo star-system, essa soggiace ad una forma di dipendenza, simile a quella che si produce verso le droghe: non potrà più fare a meno della sua dose quotidiana di sogni a pagamento; e così, per forza d’inerzia e per il principio d’imitazione, finirà per diventare passiva e deresponsabilizzata anche nei confronti degli impegni della vita civile, a cominciare da quelli della famiglia e per finire con quelli relativi ad una partecipazione consapevole e responsabile alla vita della comunità e dello stato.

In questo senso, lasciarsi o non lasciarsi irretire dalle mode del consumismo e dello star-system è anche una scelta di tipo politico, culturale, morale: la posta in gioco è, infatti, la capacità o meno, da parte dell’individuo, di interagire con la società in termini di autonomia, di offrire un salutare apporto critico alla vita degli altri, di custodire i valori della verità, della bontà e della bellezza e non le loro goffe e grottesche deformazioni caricaturali.

Ancora una volta, c’è una sola maniera di resistere alle seduzioni di un mondo scintillante, ma irreale, creato ad arte da complessi economici e finanziari senza scrupoli e alimentato dal conformismo dei più, ivi compresi tanti sedicenti intellettuali: essere se stessi, riscoprire la propria verità profonda, sapersi leggere con sguardo limpido e onesto.