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Ciao, Giò…

di Francesco Lamendola - 19/02/2012


 


 

Ciao, Giovanna; ciao, Giò: come suona strano mandarti il solito saluto, adesso che da così tanto tempo non mi giunge più la tua voce al telefono, né mi arrivano le tue mail concitate e un po’ febbrili.

Me lo avevi detto: quando non mi sentirai più, saprai che sono morta: il tuo silenzio non può avere altra causa, visto che dura ormai da più di un anno.

Ciao, Giò; Giò, come abbreviativo di “giovane”: così avevi detto una volta; anche se giovane non lo eri più, almeno per l’anagrafe; eppure lo eri rimasta dentro, nonostante una vita intessuta di incomprensioni, solitudine e amarezze.

Mi capita di ripensare alla tua voce, alle tue inquietudini, al tuo immenso bisogno di calore umano; ma anche alla tua sensibilità, alla tua raffinatezza un po’ aristocratica e fuori moda, forse; alla tua dolcezza, alla tua imprevedibilità, alla tua ricchezza interiore.

Devo dire che mi manchi.

Non lo avrei immaginato, eppure avverto una sensazione di vuoto; qualcosa è venuto a mancare, che prima c’era: anche se quel qualcosa non ha mai acquistato i lineamenti di un viso - devo accontentarmi di sapere che somigliavi un poco alla scrittrice Margaret Mazzantini e che molti ti trovavano bella, ma triste - e perciò è sempre rimasto a mezza via fra la realtà e il sogno, in una specie di Limbo indefinibile, come un cimitero delle navi perdute che si favoleggia esistere laggiù tra la nebbia, da qualche parte, nel Mar dei Sargassi.

Eri malata, e tuttavia piena di freschezza e di entusiasmo; scoraggiata, e tuttavia pronta a rianimarti e a ricominciare ad amare la vita - la amavi nonostante tutto, nonostante i dolori solitari, nonostante un marito bambino che di te non sapeva nulla, neanche il segreto della tua malattia, di quella malattia che ti stava spegnendo a poco a poco, con lievi avvisaglie, quasi corteggiandoti e carezzandoti dolcemente.

Quella malattia che alla fine ti ha presa con sé, anche perché non avevi voluto curarti, non avevi voluto nemmeno fare gli esami clinici: tanto conoscevi già di che si trattava, lo avevi letto sui libri e i sintomi erano inequivocabili.

Ti eri affidata a Dio e a nessun altro; non avevi paura della morte: io sospetto, anzi, che tu l’abbia aspettata quasi con un senso di liberazione, che tu l’abbia invitata e che le abbia aperto la porta con una sorta di impazienza, lieta che ti prendesse in grembo e ti conducesse via con sé, là dove più non si soffre, non si è incompresi, non si è soli.

E ora c’è questo grande silenzio; ma esso non fa paura, non è un ostacolo che si frapponga al dialogo; ti sento ancora presente, solo in un’altra forma da quella di prima.

Da me ti eri sentita compresa, finalmente; per la prima volta dopo chissà quanto tempo, forse da sempre, avevi potuto parlare e parlare e parlare; avevi potuto confidarti, sfogarti, esorcizzare i tuoi timori; rispecchiarti in qualcuno che ti aiutasse a riflettere, a prepararti.

Leggevi avidamente i miei scritti, mi facevi domande, volevi sapere; qualche volta ti lamentavi che non parlavo mai di Dio, che non lo nominavo, che parlavo dell’Essere; cercavo di spiegarti che Dio è una parola troppo grande, che le parole sono pesanti e che è meglio adoperarle con umiltà e con prudenza, quando indicano delle realtà al cui cospetto siamo così piccini.

Mi parlavi delle tue preghiere, della tua ricerca del divino, della tua serenità davanti alla fine non lontana: tu, dopo una vita così tribolata, popolata di figure ostili, di invidie e gelosie costanti, di silenzi dolorosi da parte delle persone amate.

Da tempo ti stavi preparando per il grande viaggio: vivevi come chi tenga la valigia sempre pronta accanto al letto, con tutte le cose necessarie alla partenza; ma sapevi che non ci sarebbe stato più ritorno, che sarebbe stato un viaggio di sola andata.

Cercavi delle parole amiche, delle parole buone; desideravi con tutta l’anima di poter condividere i tuoi pensieri, i tuoi ricordi, le tue delusioni, prima che giungesse quella chiamata e che dovessi prendere la valigia e uscire dalla porta di casa, per sempre, senza più nemmeno il bisogno di richiuderla.

Al tempo stesso ti schermivi, ti nascondevi un poco; donna fino alla radice dei capelli, volevi restare padrona del gioco il più possibile; amavi raccontarti, ma solo fino a un certo punto; e ti lamentavi perché io non ti dicevo abbastanza di me.

Sostenevi di essere pronta, e forse lo eri; ma chi lo è davvero, quando arriva la chiamata? Impossibile saperlo, finché essa non giunge; è facile credersi preparati, finché si pensa di avere ancora un po’ di tempo; ma poi, solo i fatti possono dire se lo si era davvero.

Forse nessuno è realmente pronto a morire, tranne i santi; perché vivere vuol dire credere nel domani, sempre, anche quando si è affetti da gravi malattie, anche a novant’anni, anche a cento anni; e tu ne avevi poco più di sessanta.

Ma cosa vuol dire, poi, morire?

Non riesco a pensarti morta, Giò, se per “morta” si intende sparita, cancellata, relegata nel mondo dei ricordi che non torneranno; non riesco a fare a meno di pensarti viva, ma in un’altra forma di esistenza; viva, ma non con il corpo, non con la voce, non con la vista.

Forse riesco a vederti meglio adesso di quanto non ti vedessi allora; anche se non ti ho mai vista, anche se eri soltanto una voce che viene da lontano.

Forse non è vero che si muore, come ha detto qualcuno; ma che si nasce una seconda volta, per non morire più.

Che ne sappiamo della morte, noi che ci crediamo vivi?

Forse tu e gli altri che ti hanno preceduta sono quelli che si dovrebbero chiamare “vivi”, perché la morte non ha più potere su di voi, mai più; mentre noi, quaggiù, siamo vivi solo per metà, anzi siamo sempre meno vivi, ogni giorno che passa; siamo vivi a tempo limitato, di una vita in scadenza, in liquidazione, che oggi stesso potrebbe abbandonarci.

Adesso tu sai.

Adesso che hai varcato quella soglia, finalmente hai potuto spegnere la tua sete di conoscere il grande mistero; adesso che sei fuori dal tempo e dallo spazio, adesso puoi capire tutto quello che qui risulta incomprensibile, presi come siamo dalle illusioni del mondo fenomenico, dal nostro ingannevole crederci essere separati dal Tutto.

Adesso sai che senso hanno avuto il tuo soffrire, il non venir compresa, il non venir amata; o, piuttosto, l’essere stata molto amata, ma non nel modo giusto, da nessuno, mai; adesso hai trovato la risposta a tutte le domande, ogni cosa si è fatta per te chiara e trasparente, e una infinitesima parte di ciò che ora comprendi è infinitamente più esauriente di tutto il sapere che possa accumulare un dottor Faust su questa Terra, con o senza vendere la propria anima al Diavolo.

Noi qui ci affanniamo per capire, ed è giusto che sia così; ma i nostri sono solo poveri, incerti balbettamenti: i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre religioni e le nostre filosofie, tutto quel che leggiamo e che scriviamo e che diciamo: tutto questo non è che polvere dispersa dal vento; non è che spuma del mare, dopo che l’onda si ritira veloce sulla sabbia.

Mi piace pensare che ora sei serena, che quel velo di tristezza ti è caduto dagli occhi; che la tua anima si distende in quella pace, in quella gioiosa contemplazione ove ogni desiderio si consuma e si annulla, perché nulla vi è da desiderare, fuori dell’eterno presente.

Mi piace anche pensare che, in un modo che noi non conosciamo, sei ancora qui presente, accanto a noi che camminiamo come pellegrini, come viandanti dal passo affaticato; che, con sollecitudine affettuosa, voi ci siete sempre accanto, ci sostenete e ci incoraggiate nei passaggi più difficili, quelli che più ci mettono alla prova.

So che tu avevi fede, pur tra dubbi e momenti di incertezza, di tribolazione, di angoscia; e sono certo che quella fede è stata il ponte sul quale hai varcato il tuo Mar Rosso a piedi asciutti, senza che i fantasmi del dolore e della disperazione ti potessero inseguir: perché, nella tua debolezza, eri pur forte, più forte di quanto tu stessa non immaginassi.

Hai dato a tutti quanti una lezione di stile e di coraggio: all’amica che stava perdendo la vista e che non volevi rattristare, confidandole il tuo segreto; a tutte le persone che cercavi di proteggere, tenendo per te sola le tue pene; e anche a coloro che ti hanno voluto male e che hanno tramato e complottato per nuocerti, per aumentare le tue sofferenze.

Te ne sei andata in punta di piedi, sena disturbare nessuno.

Non eri amareggiata, sapevi ancora regalare dei sorrisi; eri solo un po’ triste, questo sì: pensando alla tua giovinezza sprecata, alla tua vita appassita in silenzio, come un fiore che nessuno ha saputo vedere - vedere nel modo giusto.

Perché una bella donna, tutti credono di vederla, e molti credono di averla amata; ma forse non l’hanno vista mai davvero, forse ne hanno solo ammirato l’involucro; e, quanto a saperla amare, è certo tutta un’alta cosa dal «mi piaci» o dal «ti voglio».

Dicevi che la bellezza era stata un po’ la tua maledizione, e non stento a crederlo: è così facile, per gli altri, lasciarsi attrarre da un bel corpo; ed è così facile, per chi lo possiede, cedere alla lusinga di quella ammirazione, inorgoglirsi di esso e soltanto di esso, diventando schiavi del desiderio di quelli che lo desiderano, servi della brama di coloro che lo vorrebbero servire.

È una spirale perversa, in cui si oblia la cosa più importante: quel che realmente si è, da giovani e da vecchi, senza le rughe e con le rughe, con la bellezza e senza di essa; quel che si è nel profondo, quel che si ha da fare nella vita per diventare sempre più ciò che si deve.

Per te, cara Giovanna, la vera maestra è stata la malattia: una malattia silenziosa, con pochi dolori, ma inesorabile; ti ha dato il tempo di fare un bilancio, di lasciar perdere le cose futili, di concentrarti su quello che è essenziale.

Ti ha consentito di prepararti, di ritrovarti, di riconoscerti.

Ti ha anche spinto a cercarmi, a gettare un ponte verso l’esterno, sfuggendo alla tentazione di seppellirti viva, di murarti nel silenzio quando ancora avevi parole da dire e da ascoltare, quando ancora non ti eri del tutto ritrovata.

La vita è buona: ci dà sempre una seconda occasione; siamo noi che, molto spesso, non sappiamo vederla, e ce la prendiamo con la vita, quando dovremmo prendercela piuttosto con noi stessi, con la nostra superficialità, con la nostra debolezza, con la nostra ipocrisia.

Non si diventa leoni in un momento; non si impara a scalare le montagne, se si è sempre rimasti comodamente in poltrona, accanto alla stufa; per questo è bene pensare alla morte per tempo: non alla morte in generale, ma proprio alla nostra morte, l’unica che non ci è dato di conoscere se non quando busserà alla nostra porta.

Allora vedremo se la nostra valigia era pronta, accanto al letto; se avevamo liquidato le pendenze inutili e se ci eravamo predisposti, almeno un poco, al grande viaggio.

Tu, Giovanna, so che hai aperto la porta senza paura, come chi aspettava da tempo la chiamata: hai preso in mano la valigia e le sei andata incontro.

Era una valigia piccola, piccola: ci avevi messo dentro solamente l’essenziale.

Per questo il tuo partire sarà stato leggero e senza affanno.

Adesso sei di là; adesso sai e certamente sorridi con benevolenza, mentre noi, di qua dall’infinito e dall’eterno, siamo pieni di dubbi e di domande, corriamo dietro a mille cose e sempre tendiamo a scordarci di quello che è essenziale, fuorviati da miraggi e da illusioni.

Cara amica, nessun incontro avviene per caso; nessuna parola viene pronunciata a caso; un’anima non si apre a tu per tu con un’altra anima senza che vi sia una ragione profonda, che esiste da prima che esistesse il mondo.

Siamo piccioli e fragili, ma non insignificanti; e nulla di quanto ci accade, nulla di quanto facciamo, speriamo, temiamo, nulla è insignificante.

Neppure il nostro incontro lo è stato.

Ora che sei di là, ora che hai trovato, ora che sai, se ho potuto farti un po’ di bene con le mie parole, ricordati della tua promessa; le parti si sono rovesciate, sono io che ho bisogno di te, del tuo sostegno affettuoso: perché siamo noi, vivi a metà, che abbiamo bisogno di voi, vivi per sempre.

Ciao, Giò.