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Lei è morto e io non parlo con i morti

di Miro Renzaglia - 19/02/2012

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Interpretare Carmelo Bene è una mission impossible. Lui è l’ininterpretabile per icona assoluta. Lo sapeva e lo diceva lui stesso, ancora in vita. Del resto cosa vuoi interpretare di uno che interpretava se stesso fingendo, con maestria attoautoriale,  di essere l’uomo che finge  di essere qui? «Io non recito – diceva –  io re-cito». Dove la differenza, naturalmente, è data dal trattino disgiuntivo. È inutile: non se ne esce. Se solo provassi a fare una chiosa ai suoi detti e contraddetti, sentirei la sua pernacchia arrivarmi nelle orecchie direttamente dall’aldilà. Non si può fare, insomma. E allora? Al limite potrei rifargli il verso. Sapendo già che, comunque, mai potrei giungere alla perfetta forma dei suoi calembour e dei suoi apparenti no-sense. Oppure, lo potrei intervistare. Ecco, sì: in finale di vita gli piaceva molto farsi intervistare. Ma mica per il gusto di dare delle risposte, macché? Solo per dimostrare l’inconsistenza della domanda. L’infondatezza della dialettica.

Maestro…

Non mi chiami maestro. Mi sono logorato sulla strumentazione fonica amplificata per stravolgere il concetto di soggetto. Per rappresentare l’irrapresentabile, mi sono del tutto irrapresentato. Quindi, non sono né maestro né altro. Del resto, non ho avuto maestri che potessero insegnarmi qualcosa, né allievi che mi meritassero come insegnante. Al massimo, sono l’allievo di me stesso.

Come devo chiamarla, allora?

Ho svuotato la mia esistenza, mi sono giocato tante vite ma la vita non l’ho vista mai. L’ho detto mille volte: io non sono mai nato. Quindi, non sono iscritto all’anagrafe e, perciò, non ho né nome e né cognome. Non mi chiami, è la cosa migliore che può fare. E anche se mi chiamasse in qualsiasi modo, non risponderei. Lei è morto e io non parlo con i morti. Odio le sedute spiritiche. È con infinita agape, molto più che schopenhaueriana, che ho compreso, senza per questo immedesimarmi, di essere di fronte a una platea di morti.

Dal momento che siamo qui, comunque, potremmo…

Lei è qui: io non sono lei e non sono nemmeno io. Lei non può fare quello che potrebbe perché lei è lei e perché è qui. Io, non essendo né lei né me stesso, e non essendo qui,  posso molto più di lei. Al limite, potrei quello che non posso e che non voglio. Cosa che lei non potrebbe mai, nemmeno volendo, dal momento che è qui.

Questa mi sembra una confutazione brillante del concetto heideggeriano dell’esser-ci…

Non voglio essere interrotto da chi mi rompe i coglioni con l’essere e con l’esser-ci. Non voglio parlare con l’ontologia. Abbasso l’ontologia: me ne strafotto.

Però, è stato lei a dire: «Noi siamo nel linguaggio…»

Lei omette di proposito il seguito del mio detto: il linguaggio crea dei guasti; anzi è fatto solo di buchi neri, di guasti. E lo dicevo proprio per confutare Heidegger che sosteneva: «Il linguaggio è la casa dell’essere». Io sostengo, invece, che è ora di cominciare a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete. Voi sputate su Einstein, voi sputate sul miglior Freud, sull’aldilà dei principi di piacere; voi impugnate e applaudite l’ovvio, ne avete fatto una minchia di questo ovvio, in cambio della vostra. Ma io non vi sfido: non vi vedo!

Nel suo concetto di arte, comunque…

La smetta immediatamente con queste stupidaggini. Cos’è l’arte? Ho tra le mani un foglio, scritto o disegnato. A distanza, ne decifro perfettamente i margini e il significato totale. Lo accosto a venti centimetri dagli occhi e ne decifro il senso dei dettagli. Avvicino questo foglio al mio naso e qualunque leggibilità è sbiancata. Il massimo del blow-up ottico-acustico coincide con il minimo dell’ingrandimento: visibilità-udibilità uguale a zero. Lei capisce lo zero? No: non può capirlo. Lei pensa di essere qualcuno o qualcosa. Solo chi è nulla può capire lo zero. Ecco l’amplificazione come risonanza. La fenomenologia del soggetto è finalmente solarizzata. E l’ascolto è accecato. Se qualcuno ha potuto definire la phoné una dialettica del pensiero, nego di aver qualcosa a che fare con la phoné. Io cerco il vuoto, che è la fine di ogni arte, di ogni storia, di ogni mondo.

Appunto, la phoné…

Che noia. Studi, si applichi. Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate. Insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto. Per questo lo scrivere ha così poca importanza. E qualche imbecille ha ricordato: ma questo lo abbiamo già letto in Nietzsche! Ma non c’entra niente, perché quello che Nietzsche ha scritto nessuno lo aveva mai sentito. Nessuno, prima che io arrivassi, si era trovato davanti all’irrappresentabile.

Tuttavia, lei viene ricordato per…

Io ero già dimenticato, meglio ancora: ignorato, in vita. Ed era esattamente quello a cui aspiravo: essere ignorato. A Otranto mi promisero i funerali da vivo. Non c’è bisogno di consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza. Dimenticatevi di me: è il meglio che potrete regalarmi per il mio non-compleanno o per  la non-ricorrenza della mia morte.

Non è una grande consolazione…

E chi vuole essere consolato? Si faccia consolare lei. E si vergogni per il suo bisogno di essere consolato. Io sono inconsolabile. Me lo sono guadagnato. Ho meritato quest’uscita dalla felicità infelice. Sono fuori. Me ne fotto di quel che mi riguarda. Malati gravi si è per definizione. Questo muovere incontro alla morte. Forse per vivere non ci vuole una dignità, ma per morire sì. Bisogna essere degni. Si nasce e si muore soli, che è già un eccesso di compagnia. Non si può produrre un capolavoro: si è capolavoro.