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La tragedia dei tedeschi del Volga

di Dagoberto Bellucci - 26/02/2012

Fonte: dagobertobellucci


 

Tra i tanti efferati crimini dei quali si macchiò il regime comunista sovietico passati sotto silenzio dalla storiografia ufficiale, sempre tollerante e sostanzialmente incline all’omertà dinanzi alla propaganda per decenni attivata in tutto il pianeta dai partiti comunisti legati alla Terza Internazionale dipendente totalmente dalla cricca di assassini al vertice del Cremlino, quello relativo all’eliminazione delle minoranze etniche e linguistiche interne rappresentò sicuramente una delle pagine più oscure all’interno delle quali al cinismo dei burocrati di Mosca si sommò l’omertà dell’Occidente.

L’omertà occidentale – che accompagnerà vergognosamente per 70 anni la storia delle malefatte della banda criminale comunista salita al potere grazie al golpe  leninista della cosiddetta “rivoluzione” dell’Ottobre 1917 – si palesò in particolar modo per la sorte tristissima alla quale furono destinati i tedeschi del Volga, una delle minoranze etniche costituenti l’Impero russo.

La sorte dei tedeschi che popolavano le regioni del Volga non differisce sostanzialmente da quella che vedrà analoghe etnie subire la repressione e la politica di sterminio da parte del regime sovietico durante il periodo segnato da quella che l’allora padrone assoluto della Russia bolscevica, Iosif Stalin, definì come “grande guerra patriottica”.

L’iconografia ufficiale per anni propagandata in mezzo mondo dai sovietici di quella che venne presentata come una grande guerra di popolo contro l’aggressione tedesca del giugno 1941 dimenticò ovviamente di sottolineare con quale accanimento lo Stato bolscevico concepì la propria difesa nazionale a scapito di interi gruppi etnici e linguistici.

Questa fase del terrore sovietico, che rappresentò semplicemente un’escalation del tradizionale terrore comunista determinata dagli eventi bellici, si specializzò infatti a recidere a livello collettivo tutte quelle minoranze che furono individuate dagli apparati del regime come possibili “quinte colonne” interne. Intere popolazioni che furono deportate in massa come punizione collettiva in quanto la loro etnia veniva sospettata di “possibili forme di collaborazionismo” accusa generica alla quale ovviamente si aggiungevano quelle note, all’interno del sistema sterminazionista sovietico, di “attività sovversiva”, “spionaggio” e “deviazionismo” dalla linea ufficiale che, dopo il 1924 (morte di Lenin), andò progressivamente assumendo i canoni dell’idolatria verso la persona del “Padre della Patria” , Stalin, che non esiterà a scatenare a più riprese i suoi apparati repressivi contro tutti coloro i quali riteneva “nemici”: dai kulaki (i contadini) ai tradizionali ceti “borghesi”, dagli ex appartenenti all’aristocrazia al clero arrivando a vere e proprie purghe di massa all’interno dello stesso PCUS e, soprattutto nel biennio 1936/38, di tutte le istituzioni sovietiche (di partito, governative, militari).

Negli anni Sessanta, dopo che le rivelazioni di Nikita Krusciov avevano avviato il processo di de-stalinizzazione della società sovietica attraverso le rivelazioni dei crimini dello stalinismo in occasione del XX.mo Congresso del PCUS nel febbraio del 1956, vennero ripristinati alcuni degli Statuti speciali per un certo numero di repubbliche autonome che erano state arbitrariamente eliminate dalla carta geografica da Stalin per quei popoli che erano stati accusati di “collaborazionismo”. Fu però soltanto nel 1972 che gli appartenenti a quelle etnie sotto accusa ricevettero una teorica autorizzazione a “scegliere liberamente il proprio domicilio” e, fra i tanti popoli, i tatari della Crimea dovettero attendere il 1989, cioè l’inizio dello sgretolamento dell’impero sovietico, per ottenere la piena “riabilitazione”.

La storia dei “popoli puniti” dal potere sovietico coinvolse decine di etnie e sconvolse la geografia interna dell’URSS in un periodo di tempo relativamente breve (1941-44): i primi a subire la repressione del potere centrale furono i tedeschi del Volga (agosto 1941/ giugno 1942), seguiti dall’ondata repressiva del novembre 1943/ giugno 1944 che si abbattè sui ceceni, gli ingusci, i tatari della Crimea, i caraciai, i balcari ed i  calmucchi deportati in massa verso le regioni più inospitali della Siberia, del Kazakistan, dell’Uzbekistan e del Kirghizistan nell’Asia Centrale. Le stime di questa ondata di deportazioni parlano di quasi 900.000 individui “trasferiti” ad Est per volontà delle autorità di Mosca.

A questa ondata ne faranno seguito altre destinate a “ripulire” le regioni della Crimea e del Caucaso da quei gruppi etnici ritenuti di “dubbia fedeltà”: greci, bulgari, armeni di Crimea, turchi pescheti, curdi e chemscini del Caucaso.

La storia che qui ci interessa prendere in esame è quella dei tedeschi del Volga contro i quali si accanì l’odio del potere stalinista fin dai primi giorni del giugno 1941 che videro la Germania di Hitler sferrare la sua “Operazione Barbarossa” contro l’URSS.

I tedeschi del Volga ( in tedesco: wolgadeutsche, in russo Поволжские немцы) rappresentavano la comunità etnica di madrelingua tedesca che era vissuta lungo il fiume Volga nella regione del sud della Russia europea intorno a Saratov eredi della migrazione che, a partire dalla metà del XVIII.mo secolo, li vedrà raggiungere queste regioni della Russia zarista.

Per due secoli i tedeschi del Volga mantennero inalterate la cultura tedesca, la lingua, le tradizioni e le confessioni dividendosi in luterani, riformati, cattolici e mennoniti.

La loro storia comincia nel 1762, anno in cui Sophie Auguste Friederike von Anhalt-Zerbst, nata nella città tedesca di Stettino, dopo aver spodestato il marito Pietro III andò ad occupare il trono vacante dell’Impero Russo assumendo il nome di Caterina II.

Nella sua veste di sovrana di tutte le Russie Caterina la Grande diede disposizione per la pubblicazione di manifesti e bandi per l’emigrazione  che nel biennio 1762-63 invitavano gli europei ad emigrare nei territori russi, ricchi ma poco popolati, in veste di manodopera coloniale di lavoro.

A tutti quei coloni che avessero accettato il proclama di Caterina venivano garantiti alcuni diritti fondamentali quali il mantenimento delle proprie radici culturali e linguistiche.

Mentre francesi ed inglesi erano propensi a emigrare verso le colonie americane e l’impero d’Austria-Ungheria proibì tassativamente qualsiasi forma migratoria i tedeschi, particolarmente quelli provenienti da Baviera, Baden, Assia, Palatinato e Renania, nel corso del decennio 1763/74 giunsero fino ad un numero di 30mila insediandosi nella regione del medio Volga

I loro insediamenti si ebbero soprattutto nei Gubernija (in russo: губе́рния)  di Saratov e di Samara. Fino al 1864 furono fondate più di 300 colonie tedesche.

Popolazione di lavoratori, i coloni tedeschi dimostrarono immediatamente di sapersi integrare alla nuova realtà: i raccolti migliorarono ed il numero degli abitanti andava moltiplicandosi: nel 1815 la comunità tedesca del Volga contava 60mila persone, a metà dell’Ottocento il loro numero era salito a 165.000.

Dal 1800 al 1803 furono stabilite le “Istituzioni per la gestione e la pianificazione interna” delle colonie. In questo modo lo Stato russo garantiva sia l’amministrazione autonoma delle colonie che le condizioni per un prospero sviluppo economico.

Nel 1853 i Mennoniti provenienti dalla Prussia istituirono il “Trakt”, un insieme di 10 villaggi nella parte meridionale del fiume Volga. Nel 1859 un secondo gruppo di Mennoniti prussiani arrivò nella provincia di Alexandertal (o Alt-Samara) composto da 8 villaggi, che più tardi quasi raddoppiò.

La popolazione dei tedeschi del Volga continuò a crescere e non trovò altre alternative lavorative al di fuori dell’agricoltura; ai coloni non era possibile comperare altra terra e accadeva che quella a disposizione (sempre di meno) veniva sfruttata in modo intensivo e si impoveriva sempre di più dando ogni anno minori raccolti: la seconda metà del XIXmo secolo fu un periodo caratterizzato da fame e carestia che non colpì solo i tedeschi ma tutta la popolazione dell’impero zarista.

 

Per ovviare a questa crisi che periodicamente colpiva soprattutto le regioni agricole della Russia il primo ministro Stolypin, l’uomo più energico fra quelli posti alle dipendenze dello zar Nicola II.o,  decise di dedicarsi alla prima riforma agraria con l’obiettivo di raggiungere una condizione di stabilità politica ed economica del paese tramite la creazione di una classe di contadini benestanti e indipendenti, proprietari di terreni e fedeli allo Zar.

I nuovi proprietari terrieri, il ceto contadino, erano i tradizionali alleati del potere zarista. Le precarie sorti del conflitto mondiale misero in crisi i rapporti di forza interni alla nomenclatura imperiale favorendo sempre più disfattismo sul fronte interno e malumore che progressivamente sfociò in ribellione tra la popolazione civile e ammutinamento e diserzione tra i soldati al fronte incantati peraltro dalla propaganda del partito bolscevico e di altre fazioni social-rivoluzionarie e anarchiche che promettevano la redistribuzione delle terre e la pace.

Il ceto contadino, compresi molti piccoli proprietari delle campagne i cosiddetti “kulaki” , favorirono assieme agli operai delle città l’ascesa delle forze rivoluzionarie e particolarmente diedero credito alle promesse di Lenin e del suo partito bolscevico di una riforma agraria più equa e solidale.

I kulaki saranno i principali obiettivi della prassi genocida instaurata dal governo bolscevico a cominciare dalla seconda metà degli anni Venti del Novecento.

I coloni del Volga, e tutti coloro che nelle seguenti ondate migratorie si erano aggiunti alla comunità tedesca, godevano di diritti speciali, come era stato promesso con il secondo manifesto: tali disposizioni speciali furono successivamente revocate quando , nella seconda metà dell’Ottocento, aumentò la richiesta statale di elementi maschili da arruolare nelle fila dell’esercito.

Tale obbligo fu ritenuto particolarmente offensivo dalla comunità tedesca dei mennoniti, la cui dottrina era contro la guerra.

Dopo la rivoluzione bolscevica nel 1918 la regione del Volga divenne autonoma e nel 1924 venne istituita la “Autonoma Socialista Sovietica Repubblica dei Tedeschi del Volga” (in russo АССР Немцев Поволжья) che durò fino al 1942. La sua capitale era Engels, conosciuta come “Pokrovsk” (Kosakenstadt in tedesco).

I tedeschi di questa Repubblica Socialista Sovietica dei Tedeschi del Volga erano circa 370.000 e rappresentavano soltanto ¼ della popolazione di origine tedesca che era ripartita fra la Russia (nelle province di Saratov, Stalingrado, Voronez, Mosca e Leningrado), l’Ucraina (400.000 persone) il Caucaso settentrionale (soprattutto nelle province di Krasnodar, Ordzonikidze, Stavropol) e con presenze che sconfinavano fino alla Georgia e alla Crimea.

Perfettamente integrati da più di un secolo i tedeschi del Volga si adoperarono per adattarsi al nuovo potere sovietico subendo, come molti altri gruppi etnici, le pesanti carestie che colpirono l’URSS nel biennio 1921/22 e dieci anni più tardi nel 1932/33 risultato della politica fallimentare di collettivizzazione forzata sperimentata nel biennio precedente dal Cremlino.

In totale, secondo il censimento del 1939, vivevano in URSS 1.427.000 tedeschi (erano 1.700.000 prima della guerra) ma con l’attacco sferrato dalla Germania hitleriana nel giugno 1941 quella che era stata una fiorente e laboriosa comunità etnico-linguistica pienamente inserita all’interno del grande mosaico di popoli che era la struttura imperiale russa (e poi sovietica) si ritrovò a fare i conti con la politica di deportazione collettiva ordinata dai principali organi dello Stato e approvata da Stalin che individuò in questa comunità una possibile “quinta colonna” delle forze hitleriane in marcia nelle steppe sovietiche.

Il loro essere “tedeschi” divenne per le autorità sovietiche una sorta di “peccato originale”, una “colpa” che doveva essere estirpata collettivamente come fu immediatamente chiaro quando il 28 agosto 1941 il presidium del Soviet supremo approvò un decreto in base al quale tutta la popolazione tedesca della Repubblica autonoma del Volga, i gruppi presenti nelle province di Saratov e di Stalingrado e nelle altre zone del paese dovevano essere trasferiti a forza in Kazakistan e Siberia. Iniziava l’esodo e la tragedia dei tedeschi del Volga. Al danno si aggiunse la beffa: il testo del decreto di “trasferimento” sosteneva che questa misura straordinaria era dettata da mere esigenze di “prevenzione” trattandosi quindi di motivi umanitari.

 

Quasi 400.000 tedeschi del Volga furono spogliati delle loro terre e delle case e vennero trasferiti ad est, verso il Kazakistan, nell’Asia centrale sovietica, nell’Altai Krai, in Siberia.

Mentre l’Armata Rossa arretrava su tutti i fronti e le perdite quotidiane di combattenti, uccisi o fatti prigionieri dai tedeschi, si contavano ormai a decina di migliaia l’onnipotente Commissario agli Interni, Laurenti Beria, distaccò un qualcosa come 15.000 uomini delle truppe speciali dell’NKVD (il servizio segreto che aveva sostituito fin dagli anni Trenta la vecchia Ghepeù ex Ceka e che adesso era stata ribattezzata come Polizia politica del Commissariato agli Interni) al comando del vice-commissario per gli Affari Interni, gen. Ivan Serov, per la deportazione in massa dei tedeschi.

 

Tra il 3 ed il 20 settembre del 1941 furono deportati 446.480 tedeschi suddivisi in 230 convogli di 50 vagoni con una media di circa 2000 persone per convoglio. I convogli impiegarono tra le quattro e le otto settimane per raggiungere la destinazione fissata nelle sperdute province di Omsk e Novosibirsk, in quella di Barnaul nella Siberia meridionale e nel territorio di Krasnojkarsk in quella orientale. Come era già accaduto nelle precedenti deportazioni dei popoli baltici molti morirono durante questi interminabili trasporti altri all’interno dell’universo concentrazionario sovietico noto in Occidente a partire dagli anni 70 come “arcipelago Gulag” anche attraverso gli scritti di alcuni dissidenti tra i quali si ricorda l’attività di contro-informazione sull’inferno sovietico svolta da Aleksandr Solzenicyn.

A questa che fu certamente l’operazione principale che coinvolse la minoranza tedesca seguirono altri rastrellamenti e deportazioni.

A Leningrado dove viveva una comunità di quasi 100mila individui di origine tedesca l’NKVD arrivò il 30 agosto 1941 con una direttiva firmata dallo stesso Beria che ordinava la deportazione di 132mila persone (ai “tedeschi” vennero aggiunti i finlandesi). Ma i servizi speciali non riuscirono a catturare e deportare che una minima quota dei tedeschi di Leningrado: 11mila finirono nei campi ad Est gli altri si erano dati alla macchia, abbandonando la città in fretta e furia.

Altre operazioni si svolsero nelle settimane seguenti e per tutto il mese di settembre ed interessarono la minoranza tedesca di Mosca (9640 deportati), Tula (2700), Gor’kij (3162), Rostov (38.288) Zaporoz’e (31.320), Krasnodar (38.136), Ordzonikidze (77.570) ai quali si aggiunsero altri diecimila “deutsch” catturati e deportati nel mese successivo in Armenia, Azerbaejan, Georgia, Caucaso settentrionale e in Crimea.

Una valutazione in cifre della deportazione dei tedeschi dimostra che alla data del 25 dicembre 1941 furono 894.600 i “trasferiti” che, tenendo conto delle operazioni che continuarono anche l’anno seguente, arrivarono ad un totale di 1 milione e 209.430 in meno di un anno di operazioni pari a oltre l’82% della popolazione di etnia tedesca. Una percentuale che dovrebbe essere molto più consistente e con ogni probabilità superare il 90% se si tenesse in considerazione anche tutte le decine di migliaia di “tedeschi” arruolati come ufficiali e soldati nei ranghi dell’Armata Rossa e trasferiti dopo il giugno ’41 nei battaglioni di disciplina della cosiddetta “Armata del Lavoro” operante a Vorkuta, Kotlass, Kemerovo, Celijabinsk. In questi battaglioni “del lavoro” le condizioni di vita non era dissimili da quelle patite nei gulag.

 

In quanto alla vita nei “campi” questa non differiva da quella che avevano provato prima di loro tutti gli oppositori politici, i kulaki, i ‘deviazionisti’, centinaia di comunisti stranieri ospiti in Russia e internati per ordine del Comintern (il partito comunista polacco venne di fatto decapitato durante le purghe del 36/38) e chiunque sospettato di non appoggiare la linea stalinista.

 

Le cifre sulla tragedia dei tedeschi del Volga, delle vittime delle deportazioni staliniane, non furono mai rese note dalle autorità sovietiche: di fatto secondo molti storici vi furono diverse decine di migliaia di morti. Un esempio: dei quasi 30mila deportati che sarebbero dovuti giungere nella provincia di Karaganda ne arrivarono poco più di 8mila. Nella provincia di Novosibirsk le autorità prevedevano l’arrivo di 130.998 unità ma oltre 14 mila mancavano all’appello.

 

I tedeschi del Volga non sono mai tornati nella regione del Volga almeno non con una consistenza significativa come prima della guerra.

In realtà essi, come per i tatari di Crimea ed altre “nazionalità”, non sono stati autorizzati a farlo per decenni dal potere sovietico.

Dopo la guerra, molti sono rimasti negli Urali, altri in Siberia, alcuni nel Kazakhistan (il 2% della popolazione kazaka di oggi è riconosciuta come i tedesca: circa 300.000) altri ancora infine nel Kirghizistan e nell’Uzbekistan (circa 16.000 = 0,064%).

Per tutti i Tedeschi di Russia soltanto nel 1964 ci fu una parziale riabilitazione dall’accusa di essere stati la “quinta colonna di Hitler” anche se non venne concesso loro il ritorno nei luoghi d’insediamento originario né alcun risarcimento di nessun tipo.

 

Un blando tentativo di ricostituzione della “Repubblica Autonoma Socialista Sovietica dei Tedeschi del Volga” fu perorato da alcune associazioni della comunità ma questo movimento rimase lettera morta a causa dell’opposizione suscitata tra la popolazione russa che nel frattempo era stata insediata nei vecchi territori

Venne avanzata una proposta nel giugno 1979 che prevedeva la costituzione di una nuova Repubblica autonoma tedesca nel Kazakistan, con la capitale ad Ermentau.

La proposta serviva ad affrontare le condizioni di vita degli sfollati tedeschi del Volga. Al momento, c’erano circa 936.000 tedeschi etnici che vivevano in Kazakistan ed erano il terzo più grande gruppo etnico del paese asiatico.

Ma anche questa idea non trovò alcun appoggio soprattutto dalle popolazioni locali: il 16 giugno 1979 i kazaki manifestarono protestando per l’ipotesi di insediamento permanente dei tedeschi e per una istituzionalizzazione della loro comunità. Probabilmente temendo una reazione negativa della maggioranza kazaka, il PCUS ritirò definitivamente la proposta di autonomia tedesca nel Kazakistan.

Verso la fine degli anni ‘80 alcuni tornarono ad Engels, ma molti altri tedeschi del Volga emigrarono permanentemente nella loro terra di origine in Germania, approfittando della legge tedesca del “ritorno”, che concedeva la cittadinanza a tutti coloro che potevano dimostrare di essere un rifugiato od un espulso di origine etnica tedesca o essere il coniuge o il discendente di tale persona.

Questo esodo abbastanza sostenuto si verificò nonostante il fatto che alcuni tedeschi del Volga parlavano poco o per niente il tedesco, dal momento che per decenni la loro lingua era proibita in pubblico dal potere sovietico.

 

Alla fine degli anni novanta la Germania riunificata ha concesso alla minoranza etnico-linguistica dei tedeschi di Russia consistenti finanziamenti rendendo però più restrittiva la legge sull’immigrazione per quei tedeschi rimasti nell’attuale Federazione di Russia e negli altri Stati della C.S.I. usciti dalla disintegrazione dell’ex URSS.