Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La sottomissione del capitalismo

La sottomissione del capitalismo

di Lamberto Sacchetti - 01/03/2012

http://www.movimentolibertario.com/wp-content/uploads/2011/08/Capitalismo-al-bivio.jpg

 

         Il neologismo “finanziarizzato” è sorto come attributo del capitalismo per connotarne una forma degradata. Ma c'è da chiedere se causa della crisi economica che dal 2007 si prolunga e si aggrava nonostante ogni tentato rimedio non sia addirittura la sommersione dell’intero capitalismo da parte della finanza privata.

         Le due entità sono distinte e diverse. Storicamente nate, il capitalismo dalla borghesia; il mondo della finanza privata dalla società anonima per azioni, geniale invenzione che permette alle imprese di costituirsi persone giuridiche  e autofinanziarsi con azioni e obbligazioni, senza coinvolgere i soci (azionisti) nelle responsabilità gravanti sul patrimonio sociale, giuridicamente separato. Onde le imprese, che prima potevano contare sul solo appoggio esterno del credito, ebbero modo organico di accogliere capitali. “Finanza d’impresa” è appunto il modo come il capitalismo ha, nei tempi, innovato e usato la finanza come proprio strumento, benché essa, per convogliare finanziamenti alle imprese, desse corpo ad attività collaterali sempre più autonome.

         E’ l’autonomia del capitale sociale nella società anonima a generare l’attività finanziaria, che di fatto sorge con il doppio mercato delle imprese: quello dei prodotti  materiali e quello di azioni e obbligazioni, prodotti nominali (“titoli”). Che si è sviluppato con forme proprie, assumendo progressivamente un fine proprio: quello di accrescersi a prescindere dalla crescita dell’economia reale. Anzi, anche in danno di questa, che ormai dalla finanza dipende, dalle sue logiche aliene e perigliose.

         Il capitalismo è rimasto sul piano dell’economia a produrre ricchezza reale e lavoro mentre la finanza passava in quello d’una crematistica capace di generare nei  titoli una ricchezza virtuale ma traducibile nella stessa moneta del profitto capitalistico, con il grande vantaggio della libertà da ogni cura inerente alla produzione materiale. La progressiva apertura delle società anonime  al mercato del capitale di rischio ha ingigantito il complesso delle attività finanziarie, che ha risucchiato danaro attraverso banche e tutto un proliferare e lievitare di soggetti, come società d’investimento, fondi diversificati (dai fondi pensione a quelli altamente speculativi), assicurazioni (entrate sui rischi d'investimento), agenzie di rating (forti del bisogno che il mercato finanziario ha di giudizi sull'affidabilità di titoli e dei relativi emittenti).

         La tensione tra finanza e capitalismo non è smentita dalle connessioni tra i due campi mediante partecipazioni azionarie incrociate, poiché il capitale transitante dalla produzione reale a titoli nominali si consegna, finché non viene riconvertito in moneta, alla multifattoriale specifica dinamica, molto psicologica, che nelle borse determina la domanda e quotazione degli stessi. Psicologia opposta alla capitalistica, che dell’etica borghese tramanda lo spirito identitario e poliedricamente costruttivista, il coraggio progettuale, la capacità di creare ricchezza concreta, laddove la finanza, conforme alla propria matrice anonima, è priva di ethos, lontana dal lavoro, atta solo a gestire ricchezza demateriata speculando tra investimenti e disinvestimenti, con la sola tensione di un’ansia nevrotica e contagiosa di realizzare e non perdere.

         L’innesto della telematica sulla finanza ha esaltato gli effetti dello sviluppo,  moltiplicatore d’investimenti. Crescevano le multinazionali, nella finanza confluiva anche il danaro di quegli industriali, specialmente italiani, che, stretti fra competizione mondiale e pressione sindacale in fabbrica, si ritiravano dal mercato materiale per giocare nel nominale. Venne grande liquidità, credito facile, il “turbocapitalismo”, nome alludente alla potenza aggiunta al capitalismo dal motore finanziario. Che la sprigiona, però, a condizione di accelerare continuamente lo sviluppo. Esigenza condivisa dalle democrazie occidentali, motivate al progresso, al Welfare, al consenso, alla piena occupazione.

         Lo sviluppo è divenuto un mito, idea-forza, coazione tradotta in fede nel suo indefinito durare, che fa assumere tranquillamente debiti come fossero acconti. Principio del piacere razionalizzato in funzione della crescita, consumismo che ha tenuto in equilibrio un’economia proiettata in avanti, costretta a correre sempre più forte per non cadere, animata dal culto del PIL. Il quale, in realtà, non misura il prodotto ma, in termini monetari, la spesa, non certo il benessere. Se stai bene non cresce il PIL, cresce se stai male e paghi medici e farmacisti; cresce se il motore consuma di più, se si diffonde lo spreco, se si tengono accese tutte le luci del palazzo.

         La fisima del PIl è coeva del consumismo. Ben altri indicatori sono stati invano proposti all’economia (scienza poco pura) perché non veicolasse la mercificazione, l’individualismo triste che ignora, aborre la gratuità nel rapporto umano. Per sua parte, la finanza privata, in totale anestesia etica, ha coltivato titoli d’ogni tipo, anche derivati da altri, strutturati con altri di natura diversa, spesso ancorati a incontrollabili è+aspettative cartolarizzate. La “finanza creativa” offre una “leva finanziaria” che, tramite derivati a lungo termine e alta rischiosità (futures), fa manovrare capitali di gran lunga superiori agli investiti. Il valore nominale dei titoli circolanti ha, per tutto ciò, ecceduto la cifra dell’intera economia mondiale, lo scambio di beni e di servizi reali è divenuto irrisorio rispetto al finanziario.

         Era inevitabile, alla lunga, che la spirale sviluppo-debiti-finanza volgesse al collasso da scompenso tra reale e virtuale. Anche perché ha coinvolto finanze pubbliche, a partire proprio dalle più affannate, i cui titoli di debito sono stati acquistati in massa da banche e investitori internazionali, più allo scopo di tenerli in attivo patrimoniale che di rivenderli, dati gli alti interessi che offrono per coprire lo spread tra valore nominale e di mercato. Il che ha sancito la sottomissione anche di stati sovrani alla finanza privata, che può speculare tenendone sull’orlo del default.  Parola significante “inadempimento”, non “fallimento”, giacché il diritto fallimentare è inapplicabile a debitori che i loro tribunali non possono dichiarare falliti senza delegittimare se stessi. Default qui è secco riconoscimento politico d’insolvenza, implicito in un taglio d’autorità dei pagamenti dovuti.

         La crisi in corso non è di pura liquidità, né creditizia imputabile a perdite bancarie e d’investitori, a crollo di cespiti e restrizione di crediti. A parte le tante teorie del valore, ciò su cui riflettere è che ogni titolo vale in quanto credibilmente rappresentativo di un valore. Il quale, peraltro, è sempre relativo. “Credere” (etimo di creditizio) è fondamento delle religioni, compresa quella attualmente vincente del dio Mammona. Tutto si riduce a simboli. I titoli finanziari sono simboli fiduciari, come le monete, ma più di queste labili, perché più lontani dal mercato reale e meno spendibili. Il loro valore si verifica solo se, nell’incerto mercato finanziario, li si torna a monetizzare. Il che è scoraggiato se cadono i titoli. Fatto concomitante, nel provocare crisi di liquidità, con la paura delle banche di concedere crediti, preferendo esse il rischio inflazione a quello di perdere il danaro, poiché molte di loro, gravate da titoli “tossici” e di stati in bilico, possono non averne abbastanza e provocare il blocco del credito interbancario.

         La paralisi bancaria è l’effetto diretto delle inquietanti  turbolenze finanziarie sugli istituti di credito, interfaccia tra mondo reale dell’economia e pseudomondo nominale della finanza. A comprova pratica che il carattere “sistemico” della crisi non attiene né all’economia, né alla finanza, né tanto meno all’apparato bancario, ma al capovolgimento del rapporto tra capitalismo e finanza, per cui il primo è finito sotto a quella che volle come proprio strumento e che ora lo domina attraverso le dinamiche psicologiche delle banche e delle borse. 

         Obama ha pompato trilioni di dollari nell’inghiottitoio bancario da cui uscì la bolla edilizia, soffiata con i mutui subprime per sostenere lo sviluppo edilizio e i prezzi delle abitazioni. La Banca Europea pompa euro per sostenere, acquistandoli, i titoli del debito pubblico di stati vicini al default, cui intima di tornare alla crescita, anche vendendosi ogni bene vendibile. Da disperati al casinò. Ma iniettare valuta può non servire in un buco nero quale un sistema fiduciario sfiduciato. Ogni ricchezza vi si può annullare. Già nel 29 il pendolo finanziario andò a estremi negativi oltre cui può non esserci ritorno. Divenuta antinomica al capitalismo, la finanza può, senza bisogno di guerra, annientare quanto esso costruisce. Come se latente nella sua simbolica sia un’antimateria, un potere dereificante contro cui gli stati, a sostegno psicologico della propria moneta, continuano, benché cessata la convertibilità, a custodire oro, materia inalterabile.

         II capitalismo ha perso il controllo dei capitali. Sull’occidente grava un kafkiano processo di condanna finanziaria. Si deve sopravvivere senza pensare al futuro. E gli economisti sanno soltanto perorare, non diversamente dai politici, il rilancio indiscriminato della crescita e del PIL, invocando l’intervento monetario pubblico e un cogente pareggio di bilancio, accantonati sia il verbo liberale, sia il keynesiano.  Ma senza dire quale sviluppo perseguire, né che la generica crescita del PIL può nuocere alla società e alla natura, se ottusamente valorizza prodotti scambi e costumi nefasti per dannosità diretta o indiretta, in un mondo che ha bisogno di sobrietà intelligente, di armonia con la natura, di elevazione culturale, di ridurre al minimo gli sprechi, il consumo di risorse non rinnovabili, inquinamenti, rifiuti, investendo in produzioni, ricerche, tecnologie e tecniche capaci di futuro, perché mirate alla migliore vivibilità dell’ambiente naturale e sociale.        

         Discorso ecologista, cui, per farsi politico, urge ormai misurarsi con il quadro giuridico dell’economia di fronte a un campo problematico tutto da arare. Non è detto che il capitalismo non possa funzionare sotto una nuova costellazione di valori. E che al peso della finanza, opprimente l’imprenditoria, la politica, la democrazia, rendendo la crisi economica evento sempre più recidivante e grave, non possa opporsi un’alleanza di capitale e lavoro riadattati a una società meno dissipativa e nevrotica.           Ma la questione è vertiginosa. Arduo contenere e disciplinare davvero la finanza.  Ancora più arduo piegarla, incidendone le radici, che stanno nella società anonima per azioni, congegno capitalistico tanto saldamente diffuso da apparire quasi pietra angolare dell’edificio produttivo mondiale. Nondimeno, l’analisi costi-benefici deve pur considerare che la società per azioni, consentendo in modo sbrigativo di compravendere patrimoni aziendali (anche immobiliari), può in breve consegnarli a mafie, a stati totalitari o fondamentalisti, eradicare imprese dai contesti nazionali, o esporle ad annichilazione finanziaria, o  (approfittando della crisi) a ogni scalata. Insomma, che  essa storicisticamente richiede profondo ripensamento.

         Ma intanto, a prescindere dalla forma azionaria, la Cina sta comprando ovunque terre coltivabili con cui sfamarsi. E altri la seguiranno. Non la guerra ma la compravendita è divenuto il mezzo predatorio universale, cui soggiacerà pure l’Europa, piccola e aperta appendice dell'Asia. Compravendita che non si può vietare in astratto. Che però si potrebbe, anche da parte di singoli stati, dichiarare illecita e quindi nulla se ha per oggetto determinati beni. Le questioni di ordine giuridico evocate al solo enunciare una simile idea sono tanto serie quanto giustificate dal fatto che, sui due fronti più minacciosi dello sviluppo, quello ecologico e quello economico, la presa di coscienza collettiva fa emergere, e deve farlo, vitali e

molteplici istanze di legittima difesa.